di Giulio de MARTINO
I simboli del sangue CARITAS di Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia
Jan Fabre (Anversa 1958) è artista visivo e regista di teatro, scultore e performer fiammingo che frantuma e mescola i linguaggi.
Provoca e scuote la società e la storia dell’arte, ma anche la natura e lo spazio pubblico, per ribaltare forme di vita e tradizioni. Dal 1978 ad oggi ha proposto opere e testi – in forma di sculture, spettacoli, statue, performance – che hanno invitato al gioco enigmatico di un’arte totalizzante che entra in contrasto con le forme classiche e spinge il simbolo verso il paradosso.
Nella mostra alla Galleria Mucciaccia Fabre esplora lo sciame simbolico e semantico del «sangue» e dell’«amore», accantonando l’ingenua e rassicurante metafora a favore della sineddoche e della metonimia. Il visitatore resta al crocevia del senso poiché l’opera elude la cornice, la bacheca, il piedistallo e si espande nella realtà corporea e naturale indicandola come suo sfondo.
Un artista straniero che viene ad operare nelle città italiane – a Fabre è accaduto molte volte – non può non sentirsi schiacciato dalla musealizzazione dei luoghi, dal peso immenso del tempo e della storia, dalla sublimazione del «bello». La «bugia» di Fabre sta nello smarcarsi e nell’imboccare il corridoio di attraversamento, la linea di passaggio, fra il suo inquieto tempo interiore e l’eredità della bellezza classica.
La mostra ALLEGORY OF CARITAS (An Act of Love), a cura di Melania Rossi, è ospitata negli spazi della Galleria Mucciaccia al Largo della Fontanella di Borghese 89, a Roma, e sarà visitabile fino al 15 dicembre 2022. È composta da oltre trenta sculture in corallo rosso e polimeri e da una serie di disegni colorati con il sangue di Jan Fabre stesso. Dall’11 ottobre, la sede londinese della galleria Mucciaccia presenta una selezione di lavori appartenenti a questa stessa serie, creando un unico progetto espositivo.
In ALLEGORY OF CARITAS (An Act of Love) Fabre porta a fusione linguaggi e materiali prelevati – in particolare – dalla religiosità barocca e, insieme, primitiva della città di Napoli. Dove la «pietas» è attingimento del «sacro» nella sua oscillazione fra il crudele e il benigno, il macabro e il glorioso.
Visivamente, nella mostra si impone il colore rosso del corallo in un inseguimento tra significante e significato che resta nell’indeterminazione. Il corallo è l’animale marino che, simile ad una pianta, tra il Settecento e l’Ottocento divenne materiale prezioso per l’artigianato artistico di Torre del Greco. Fu chiamato «oro rosso» e utilizzato per fabbricare gioielli e camei, intarsi di spade e specchi, «sacri cuori» votivi e piccole sculture.
Il corallo di Fabre assume una forza simbolica ambivalente: è pietra e pianta, è pianta e animale, è vivo e morto. Nulla di psicologico e di affettivo, piuttosto l’esplorazione della produttività artistica di una catena semantica.
Fabre lo mette in risonanza con il «sangue miracoloso» di San Gennaro – anche questo «rosso» – attinto dal maggiore culto controriformato, insieme lugubre e gioioso, della città di Napoli e del suo Duomo. Un culto che, in epoca di dominazione spagnola, collegava sotterraneamente il Regno di Napoli e le Province dei Paesi Bassi.
Risorsa devota e liquido organico, il «sangue di San Gennaro» – in questo caso, il sangue dello stesso Fabre – si scioglie per diventare il pigmento cromatico dei disegni.
Presupposto narrativo della mostra è la vita prenatale del figlio di Fabre, Django, ecografato e osservato esteticamente a partire dal 18 agosto 2021. Nei disegni esposti il sangue è elemento simbolico: la creazione artistica come generazione. Il sangue è liquido amniotico e colore acquerellato che imita le linee e le macchie dell’ecografia.
Il sangue è anche la materia di un «miracolo». Appare, nei mesi fetali di Django, come il segno di una vita prima della vita, ma, grazie al «sacro sangue» di San Gennaro, diventa una prodigiosa fonte di vita immortale, la vita dopo la vita.
Il corpo materno è rimosso dall’immagine diagnostica e dalle didascalie digitali. Resta «ambiente» e tabernacolo. Il Figlio è la fantasia di un nome. Il riferimento alla Madre – Joanna De Vos – è esplicito in un’altra scultura: la statuetta della Madonna – “Mia Donna in oro rosso” – come figura di transizione tra le due fasi del ciclo della vita: quella mortale e quella eterna.
Ancora la Madre. In due luoghi della mostra appare la figura del «pellicano»: scolpito con l’ausilio di scaglie di corallo, collanti e pigmenti. Simbolizza l’«amore materno» ed è rappresentato mentre nutre, col cibo portato nel becco, la propria prole.
A Napoli, il pellicano è raffigurato in una famosa statua – opera dei fratelli Ierace – collocata nella Villa Comunale. È il ricordo della solidarietà nazionale e dei volontari morti a Napoli durante l’epidemia di colera del 1884.
Anche il pellicano entra nella simbologia – insieme macabra e festosa – che è al centro dello sguardo artistico e religioso di Fabre. È simbolo di amore materno, ma è anche un uccello carnivoro che nutre i figli uccidendo altri animali. È animale ed umano insieme, come i mostri metamorfici dell’antica mitologia.
Il reperto zoologico e anatomico sacrale viene estetizzato con un materiale pop e ironico. Il rosso lo collega alle ramificazioni del corallo e alle sfumature del sangue acquerellato e polimerico.
L’elemento biologico e anatomico è stato inserito nel linguaggio estetico da artisti barocchi e contemporanei come Damien Hirst. Nel caso di Fabre, riferimento iconografico possono essere i nervi e le vene mummificate della Cappella di San Severo, a Napoli, oppure gli «ex-voto» in oro e corallo raffiguranti parti del corpo umano conservate nelle teche della Cappella del Tesoro di San Gennaro.
Le analogie morfologiche fra i rami del corallo, il sistema neurale, le scie dell’acquerello, le linee delle ecografie, convergono verso un simbolismo primario: quello di una religione fisica e sacrale del sangue e dell’«amore».
Un amore che porta alla ripetizione e che non si sottrae alla dinamica seriale, evidente nella pluralità e nella somiglianza degli oggetti in mostra. Sono esposti, al modo dei reperti, in una sorta di museo e di reliquiario in cui la ritualità sfugge all’ossessione grazie al ruolo scherzoso dell’artista/archeologo.
La religione profetizzata da Fabre è impastata di luce e di tenebre, di bene e di male, di amore e di morte, in una interconnessione senza soluzione di continuità. La «pietà» è tutt’altro che edulcorata e sublimata. Torna l’ambivalenza del «sacro», distanziata in Occidente, ma conservata nelle opere d’arte medievali e di prima età moderna. Riaffiora nel sostrato psicologico dell’immaginazione.
L’arte non nutre timori nei confronti della religione poiché ne condivide l’ambivalenza: il rito le unisce. Fabre fa vedere che la ritualità induce a comportamenti amorevoli, ma cela un risvolto oscuro che può diventare macabro o addirittura criminale.
In Fabre si leggono riferimenti al disegno anatomico rinascimentale di Leonardo da Vinci e al misticismo visionario e alchemico di Hieronymus Bosch (1453-1516). Un programma artistico insieme teologico e scientifico.
Fedeli al «sentiment» Tridentino, le sculture di Fabre rivisitano le «vanitas» controriformistiche, i cuori di Cristo, le croci e gli oggetti liturgici del Tesoro di San Gennaro.
Dal corallo scaturiscono i riferimenti marini (il tridente, l’ancora), le forme anatomiche (cuori, teschi), i simboli religiosi (croci, paramenti sacri). Emerge la circolarità di arte e religione, di anatomia e labirinto.
Il legame esoterico con i codici religiosi arcaici (egizi, celtici, ebraici) compare in altri simboli pure scolpiti nel corallo come la stella e la colomba.
I critici insistono sull’elemento «insonne» che anima la mente di Fabre, sul suo intrecciare assi simbolici differenti con il passaggio repentino dal linguaggio metonimico notturno al linguaggio analitico diurno. Il sentimento della virtù teologale della Charitas si impone come il nucleo dell’intero ciclo di sculture e disegni presentandosi circolarmente come amore, procreazione, pietà, speranza.
La «carità» spinge al sacrificio di sé di fronte alla realizzazione di un fine universale e avvicina la natura a Dio («Deus sive Natura» secondo Spinoza). Il comandamento cristiano della «carità» si attua con l’amore nei confronti dell’uomo. Ricordiamo «Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo» (1768) di Ludovico Antonio Muratori.
Nelle visioni e nelle meditazioni di Fabre, l’esperienza personale della paternità diventa vicenda universale: confronto con il mondo della vita e le sue inesorabili leggi. Le sculture e i disegni ci inducono a guardare i corpi sotto la pelle e i segni dentro il significante. Sono aggregazioni di significati che risuonano tra loro, trascritti da lingue che si tramandano di epoca in epoca e che, alla fine, si fondono.
La protezione della «bellezza» nella natura e nell’arte rivela il significato della «compassione». Spogliata dai riferimenti dottrinali e metafisici, rappresenta una forma di pietà estrema dell’umanità nei confronti di se stessa.
Giulio de MARTINO Roma 16 Ottobre 2022
LA MOSTRA
Jan Fabre
ALLEGORY OF CARITAS (An Act of Love)
mostra a cura di Melania Rossi
Apertura al pubblico: 6 ottobre – 15 dicembre 2022
Galleria Mucciaccia Roma, Largo della Fontanella di Borghese 89 Ingresso gratuito. T. +39 06 69923801 | roma@galleriamucciaccia.it| www.mucciaccia.com
Il Catalogo
Silvana Editoriale settembre 2022
testi di: Melania Rossi, Dimitri Ozerkov, Sara Liuzzi, Barbara De Coninck