I versi “iconopoietici” di Dante Alighieri. Un’indagine sui temi dell’aldilà e del sacro nell’ultimo libro di Marcello Fagiolo.

di Marco BUSSAGLI

A conclusione delle celebrazioni dantesche, “About Art” segnala in modo particolare la trilogia di volumi curati quest’anno dal nostro collaboratore Prof. Marcello Fagiolo. Dopo i due volumi di Atti di Convegni su Dante, Leonardo, Raffaello: la Divina Consonanza di Arte e Poesia e Dante e Roma (entrambi editi da Gangemi), il trittico di Marcello Fagiolo si conclude col volume Visione di Dante (Quattroemme, Perugia).
La presentazione del libro è firmata dall’amico Prof. Marco Bussagli, il quale a sua volta nell’anno dantesco ha pubblicato la pregevole monografia su Dante e le arti nella collana “Dossier d’art” (Giunti editore).

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Le celebrazioni per l’anno di Dante, dopo un susseguirsi di ricorrenze per ricordare anche Leonardo e Raffaello, hanno prodotto un’ampia messe di eventi che sono andati dalla splendida mostra alle Scuderie del Quirinale, a Convegni cui ha avuto modo di partecipare anche chi scrive. A questo proposito, è doveroso ricordare quelli organizzati da Marcello Fagiolo presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, intitolati Dante, Leonardo, Raffaello: la Divina Consonanza di Arte e Poesia (21-23 settembre 2021) e Dante e Roma (2-3 dicembre 2021).

Dopo queste iniziative di assoluto spessore, Marcello Fagiolo ha pubblicato, per i tipi di Quattroemme, un testo affascinante dedicato al padre della lingua italiana, ma non come letterato, bensì come propulsore d’immagini che hanno influenzato l’arte di tutti i tempi. Il libro, illustrato da 700 immagini, s’intitola Visione di Dante. L’immaginario della Commedia, l’ombra di Fiorenza e il paradiso di Roma-Amor.

Non deve certo essere dimostrato che la Divina Commedia ha – in un sol colpo – assolto almeno a due funzioni: rendere concreta e tangibile l’idea dell’Aldilà e stimolare la riflessione filosofica per immagini intorno al tema del sacro. Dico per immagini perché, come l’autore dimostra magistralmente, Dante non si abbandona alla descrizione astrusa di concetti, ma riconduce la speculazione teologica a icone; come se si trattasse di una Biblia pauperum sorprendente dove, però, sono le parole a descrivere figure allegoriche in grado di spiegare in maniera immediata assunti filosofici e teologici che, altrimenti, necessiterebbero di pagine e pagine di note e di chiose.

In altri termini, se mi si permette un neologismo, i versi di Dante sono “iconopoietici” e Marcello Fagiolo ce ne spiega i meccanismi con quella acribia e quell’acutezza intellettuale che solo i grandi Maestri possono permettersi. Del resto, giustamente, l’autore ricorda quanto Paola Manni ha scritto nel suo saggio sulla lingua dantesca, rilevando

«che occhio è il sostantivo che ha in assoluto la più alta frequenza nella Commedia, con 263 occorrenze e parallelamente fra i verbi più ricorrenti abbiamo quelli della medesima sfera semantica: vedere, rivedere, guardare, mirare…».

Il punto d’inizio che ci introduce a questa particolare visione del poema risiede nella relazione fra la città di Firenze e l’idea del giardino, nell’ambito della quale, poi, la costruzione di S. Maria del Fiore divenne il segno più bello e tangibile di quella grande stagione fiorentina in cui la Repubblica provava a moralizzare le sue immense ricchezze, frutto delle varie attività di speculazione finanziaria e commerciali, trasformandole nella preghiera di marmo sbocciata proprio al centro della città-giardino di cui diveniva l’ornamento più bello.

Dante non vide mai la costruzione di Arnolfo e meno che mai quella ampliata di Talenti (completata poi con la cupola di Brunelleschi, fig. 1), ma la decisione di sostituire l’antica chiesa di Santa Reparata con quella nuova, datata al 1293, era ben nota al poeta che assunse la carica di priore (insieme ad altri sei colleghi) nel bimestre luglio-agosto 1295.

1.Domenico di Michelino, Omaggio allegorico alla Divina Commedia (1465, Firenze, S. Maria del Fiore). Il Poeta è rappresentato fra la montagna del Purgatorio e la città di Firenze, dominata anacronisticamente dalla cupola di S. Maria del Fiore.

Certo, come spiega Marcello Fagiolo:

«Il segno criptico imposto alla città di Firenze, desunto dal mondo vegetale [il giglio], aveva un valore simbolico analogo e complementare a quello della croce delle strade: un signum insieme cosmografico e di orientamento (…) il giglio e la croce, massimi emblemi della Firenze del Duecento (fig. 2), si alternano nelle bifore di Palazzo Vecchio e sembrano compenetrarsi iconologicamente nell’impianto della Cattedrale e cioè nei due massimi monumenti della Firenze Comunale».
2. Il Palazzo Vecchio con gli emblemi fiorentini del Giglio e della Croce.

Sono proprio questi due fra i più importanti simboli che attraversano l’intero poema laddove la figura della croce aleggia a ricordo del sacrificio di Cristo e il giglio di Firenze si confonde con quello di Maria: «il bel fior ch’io sempre invoco» (Paradiso XXIII, 88). Versi poetici che descrivono un giardino che finisce per essere quello della città del fiore, ma pure la parafrasi del Paradiso; cui si aggiunge lo sguardo al rovescio della medaglia, giacché il giglio può anche alludere al conio della moneta fiorentina che Dante marchia come il «maledetto fiore» per il quale si scatena la bramosia degli uomini. Così, infatti, nel IX Canto del Paradiso:

«La tua città, che di colui è pianta /che pria volse le spalle al suo fattore / e di cui è la ’nvidia tanto pianta, / produce e spande il maladetto fiore / c’ha disvïate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore» (vv. 127-132).
3. Copertina del catalogo della Mostra Pagine di Dante (1988-89).

Fagiolo si era già occupato del sommo poema, nei decenni precedenti, con contributi e mostre: una parte consistente del libro consiste infatti nella riproposizione anastatica della sezione da lui curata nella Mostra, promossa a Foligno dalla Regione Umbria nel 1988, Pagine di Dante. Le edizioni della Divina Commedia dal torchio al computer, riproposta successivamente a Francoforte, Ravenna e Firenze (fig. 3).

Il titolo di questa sezione è assai eloquente, in quanto si rivolge a Il mondo simbolico della Divina Commedia tra Illuminismo e Simbolismo abbracciando un arco temporale lontano dalla dimensione cronologica originaria, ma che proprio per questo, ci dà la misura della potenza “iconopoietica” del poema, capace di stupire anche un’umanità tanto distante da quella medievale in cui era nato il capolavoro.

Si susseguono, nelle pagine del libro, le riproduzioni di capolavori di artisti del calibro di Gustave Doré, William Blake, Nomellini, Pinelli o Cambellotti, in una ridda di rimandi e suggestioni da cui non riusciamo a distoglierci (fig. 4).

4. Pagina del volume Visione di Dante con interpretazioni del Paradiso di V. La Bella (1902), G. Doré (1868), J. Flaxman (1839) e A. Magrini (1902).

Questa gran messe di materiale è stata organizzata secondo temi che affrontano, in sottosezioni, La visione dell’universo e l’universo della visione e Il mondo simbolico della Divina Commedia.

Nella prima parte, possiamo ripercorrere il susseguirsi delle invenzioni dantesche così strutturate: l’ombra / la natura / lo spazio architettonico / la parola e la metafora / la cornice / la linea, l’ombra, il chiaro scuro / colori, luce, policromia / l’ironia / lo specchio, la riflessione, il sogno / allucinazioni e metamorfosi / la divina geometria e l’armonia delle sfere: una serie di affascinanti universi culturali. Nella seconda parte si avvicendano argomenti quali i Quattro Elementi (Terra, Acqua e navigazione, Aria-cielo-volo, Fuoco, Elementi scatenanti), le immagini “petrose” dell’Abisso e della Montagna, le architetture naturali (la Città, l’Anfiteatro, la Porta, le Scale), uomini e pietre, la scena vegetale e il mondo animale (la Selva, la divina foresta, gli alberi misteriosi, i fiori, gli animali), i mostri e le metamorfosi gli Eroi del Limbo, dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso Beatrice e l’Eterno Femminino, i dialoghi e gli affetti (amore carnale e amore celeste, l’ira e la violenza, i tormenti, il mancamento e la morte), Visioni e Apparizioni (Angeli e Splendori, Beatrice e la Madonna, l’Aquila e la Croce, la Divina visione).

In questo ambito si trova un documento visivo particolarmente interessante per chi scrive. Mi riferisco a una potente immagine di Lucifero dipinta dal fiorentino Giorgio Kienerk (allievo di Signorini e amico di Nomellini) che sfoggia un inequivocabile quinto incisivo al centro della bocca che pone il dubbio se il pittore sia stato a conoscenza della lunga tradizione iconografica in questo senso, oppure si tratti di un’intuizione personale che vanta anche altri esempi di questo genere di percorso creativo.

Questa ristampa, aldilà dell’arricchimento oggettivo dell’itinerario imbastito da Marcello Fagiolo, offre al lettore il vantaggio non piccolo di rendere disponibile un testo raro a trovarsi, affascinante per il curioso e insieme utile per lo studioso.

Il viaggio che l’autore vuole farci vivere con gli occhi di Dante continua con la riflessione su giardino e memoria. Il «giardino come memoria del paradiso, ma anche come paradiso della memoria, summa enciclopedica, teatro del sapere e “teatro del mondo”», è il luogo dove l’autore, con maestria e sapienza, intreccia una serie di rimandi fra il giardino del Limbo, quello dell’Eden e quello mistico del Paradiso, in un flusso d’immagini che sgorgano dal fiume continuo dell’immaginario comune.

«La tecnica dantesca del flusso ininterrotto della rappresentazione (dal flusso tragico dei personaggi infernali fino al trionfale “riso dell’universo”) viene chiarito quando si auspica che, per virtù di grazia divina “chiaro / per essa scenda de la mente il fiume” » (Purg. XIII, 89-90).

L’intreccio affascinante di questi continui rimandi letterari e iconici che si riflettono l’un l’altro come in un gioco di specchi (quasi amplificazione della massima paolina – I Corinzi, XIII, 12 – che recita: «Videmus nunc per speculum et in aenigmate, tunc autem facie ad faciem»), si conclude – nel libro di Marcello Fagiolo, ma pure nel mondo immaginifico della Commedia – con la visione della Candida Rosa descritta nel XXXI del Paradiso (fig. 5).

5. Giovanni di Paolo, Visione dell’Empireo come Candida Rosa (miniatura, 1450c.).

Per di più l’acutissima esegesi si arricchisce di una serie di riferimenti artistici e culturali che vanno dai rosoni delle cattedrali alla Cattedra di Bernini (fig. 6), dalla visione dei Cori angelici di Ildegarda di Bingen a quelli incisi nelle da Gustave Doré, sciorinando rivoli di immagini che vanno avanti e indietro nel tempo.

6. La Cattedra di Gianlorenzo Bernini come fonte di ispirazione per l’Empireo di Gustave Doré (1868).

Allora, le anime adagiate nei molteplici petali della Candida Rosa paiono riunite come in un anfiteatro. Spiega Marcello Fagiolo:

«All’idea del paradiso come giardino di lucesi affianca l’immagine dell’anfiteatro coi suoi sterminati gradini (fig. 7):
7. Giovanni di Paolo, Visione dell’Empireo come Anfiteatro (miniatura, 1450c.).
l’immagine evoca certamente il Colosseo (anche se l’anfiteatro più noto a Dante era quello di Verona), e va ricordato che circhi e anfiteatri venivano concepiti dai romani come simbolo della terra e dell’universo. L’anfiteatro dell’Empireo è una sorta di cupola capovolta, con un vastissimo oculo alla base e un immenso coronamento abbagliante, collegabile alla leggenda del Colosseo come Tempio del Sole. L’archetipo del Colosseo va ricondotto alla sua identificazione con Roma stessa, seguendo la celebre profezia del venerabile Beda [secondo cui la distruzione del Colosseo avrebbe comportato quella di Roma e del mondo], ma Dante sembra rovesciare quella profezia, trasfigurando il Colosseo nella Gerusalemme Celeste. Si perviene così alla identificazione dell’anfiteatro paradisiaco con la Roma “onde Cristo è romano” (secondo le parole di Beatrice). Ma bisogna meditare in particolare sull’assimilazione Roma-Amor, ipotizzando che Dante conoscesse il nome segreto “AMOR”, nell’ambito dei ragionamenti dei “Fedeli d’Amore”».

E questa è l’ultima, definitiva immagine del libro. Lo spunto è la visione dell’Anfiteatro-Rosa ideata dal letterato lucchese Alessandro Vellutello, il quale a Venezia nel 1544 diede alle stampe un’edizione della Divina Commedia della quale concepì anche le illustrazioni, da lui forse disegnate e poi tradotte in xilografie colorate a mano. È ad essa che Marcello Fagiolo aggiunge due scritte per dare corpo alla sua lettura. AMOR sta in alto in mezzo all’empireo e ROMA è riflessa in basso, a rovescio, come in uno specchio, sui petali della Candida-Rosa, concentrici come la scalea di un anfiteatro della memoria (fig. 8).

8. L’AMOR divino si rispecchia nella ROMA dell’Empireo (interpretaz. di M. Fagiolo sulla base della xilografia di A. Vellutello, 1544).

Marco BUSSAGLI  Roma  27 Novembre 2022