di Francesca SARACENO
Palermo, 30-31 marzo 1282.
“A mezzo miglio dalle australi mura della città, sul ciglion del burrone d’Oreto, è sacro al Divino Spirito un tempio; del quale i latini padri non lascerebber di notare, come il di che sen gittava la prima pietra, nel secol dodicesimo, per ecclisse oscuravasi il sole. […] Per questo allor lieto campo, fiorito di primavera, il martedi a vespro, per uso e religione, i cittadini alla chiesa traeano: ed eran frequenti le brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano lor danze; fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da’ rei travagli un istante; allorchè i famigliari del giustiziere apparvero, e un ribrezzo strinse tutti gli animi. Con l’usato piglio veniano gli stranieri a mantenere, diceano essi, la pace. A ciò mischiavansi nelle brigate, entravano nelle danze, abbordavan dimesticamente le donne; e qui una stretta di mano; e qui trapassi altri di licenza; alle più lontane, parole e disdicevoli gesti. Onde, chi pacatamente ammonilli se n’andassero con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma i rissosi giovani alzarono la voce si fieri, che i sergenti dicean tra loro: «Armati son questi paterini ribaldi, poichè osan rispondere;» e però rimbeccarono ai nostri più atroci ingiurie; vollero per dispetto frugarli in dosso se portasser arme; altri diede con bastoni o nerbi ad alcun cittadino. Già d’ambo i lati battean forte i cuori. In questo, una giovane di rara bellezza, di nobil portamento e modesto, con lo sposo, coi congiunti avviavasi al tempio. Droetto francese, per onta o licenza, a lei si fa come a richiedere d’armi nascose; e le dà di piglio; le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio allo sposo; lo sposo soffocato di rabbia: «Oh muoiano, urlò, muoiano una volta questi Francesi!» Ed ecco dalla folla che già traea, s’avventa un giovane; afferra Droetto, il disarma, il trafigge; probabil é ch’ei medesimo cadesse ucciso al momento, restando ignoto il suo nome e l’essere, e se il movesse amor dell’ingiuriata donna, impeto di nobil animo, o altissimo pensiero di dar via al riscatto. I forti esempj, più che ragione o parola, i popoli infiammano. Si destaron quegli schiavi del lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!» gridarono; e il grido, come voce di Dio, dicon le storie de’ tempi, eccheggiò per tutta la campagna, penetrò tutti i cuori. […] La forza del popolo spiegossi, e soperchiò. Breve indi la zuffa: grossa la strage de’ nostri; ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento.”
Il racconto di Michele Amari del 1843, è il contrapposto letterario di un soggetto pittorico molto caro agli artisti del periodo romantico.
L’anelito patriottico che caratterizzava quel momento storico, segnato da battaglie per l’indipendenza dall’Impero austriaco e dalla spinta all’unità d’Italia, trovava nella rivolta siciliana del Vespro, contro la dominazione francese angioina, una radice ideale e profondamente identitaria.
Da questo spirito appassionato nascono le diverse rappresentazioni pittoriche dei Vespri siciliani, e una tra le più intense è certamente il dipinto conservato oggi nella Pinacoteca del Museo Civico Castello Ursino di Catania (fig. 1),
eseguito nel 1864 – a Italia ormai unificata – da Michele Rapisardi (1822–1886, fig. 2), pittore catanese tra i più rappresentativi della pittura romantica.
L’appassionata trattazione del tema, da parte dell’artista, sembra sia stata ispirata proprio dal testo di Amari. L’istinto dell’uomo, l’impeto, il coraggio da un lato, la paura, lo sdegno, lo svenevole melodramma del corpo violato dall’altro, si fondono in un’opera di considerevoli dimensioni, che si presenta come una mise en scene teatrale ma eseguita en plain air. Nonostante il dipinto mostri chiari segni di incompiutezza, risulta evidente che Rapisardi sfrutti sapientemente i suoi studi pittorici condotti in giro per le maggiori città d’arte italiane, e trovi negli effetti della luce naturale del tramonto un valido alleato per imprimere ai suoi personaggi tutta l’intensità emotiva di un momento drammatico e cruciale che cambierà la storia della Sicilia. Particolarmente intenso lo sfondo di cielo dove insistono gli ultimi chiarori del giorno, che contrasta con i colori ben più accesi della folla in tumulto ad accentuare i moti della rivolta; la fine del giorno di festa coincide con l’inizio di una notte foriera di violenze e devastazioni.
Una fosca nuvolaglia sporca il tramonto azzurrino della festività pasquale, alle spalle del sagrato della chiesa del Santo Spirito. La funzione del Vespro è molto partecipata. Nobildonne e gentiluomini della buona società cittadina vi presenziano ferventi di fede nella giustizia del Risorto. Ne hanno ben d’onde: pregare Dio onnipotente perché li liberi dalla “mala segnoria” angioina che da anni tiranneggia il popolo siciliano con una politica vessatoria tra le peggiori che il Regno abbia mai subito. Il vaso è da tempo pronto a traboccare, e la goccia fatale arriva – è proprio il caso di dirlo – per “mano” di Drouet, soldato dell’esercito di Carlo I d’Angiò.
Perquisire una gentildonna accompagnata dal consorte (secondo alcune versioni, il promesso sposo) e dalla famiglia, davanti a una chiesa, è l’ultimo sopruso della tirannia francese prima della sommossa: perché i siciliani li puoi piegare col bisogno, li puoi corrompere, puoi frugar loro nelle tasche, ma non devi toccare le loro donne. Quello è il momento in cui il fuoco, che cova sotto la cenere, esplode in tutta la sua devastante potenza. In un attimo, decenni di protervia francese si concentrano nelle mani arroganti e lascive di un sol uomo: ed è la rivolta.
Un temerario (forse un fratello della donna) si avventa sul soldato con furia assassina; lo disarma, e con la sua stessa spada trafigge le carni di Drouet e con esse colpisce al cuore il potere angioino. La folla grida vendetta. L’orgoglio di Sicilia affiora improvviso e fiammeggia sui volti e negli occhi dei cittadini indignati, raccolti sul sagrato del Santo Spirito; braccia spalancate denunciano lo scandalo, bastoni branditi e lame sguainate trafiggono l’aria e reclamano sangue; urla di vendetta chiamano a raccolta il popolo nell’ora cruciale, ed esso accorre; lo si vede arrivare in lontananza, preceduto da una figura che avanza famelica come una fiera assetata di sangue (fig. 3). “Morte ai francesi!” Un uomo, in posa plateale, pone la destra sulla spalla come a trattenere il mantello, il pugno chiuso a richiamare il coraggio dal cuore; la testa alta e lo sguardo fiero di chi è pronto a morire per la giustizia. La sua figura così solenne sembra incarnare il grido che riecheggerà di lì a poco per tutta la Sicilia: “Antudo!” la parola d’ordine, usata dai rivoltosi per riconoscersi, ottenuta come acronimo dal latino “Animus Tuus Dominus”, ovvero “il coraggio è il tuo signore”.
Nella concitazione generale, le donne: categoria dileggiata. Spaventate, curiose, circospette; i loro occhi sbucano ora attoniti, ora impauriti, ora pungenti tra la folla di corpi. Sdegnate e intimorite, si stringono ai loro uomini cercando protezione, ma senza mai perdere il contatto con la realtà.
Tranne lei, l’offesa; vittima incantevole, metafora vivente della terra che le ha dato i natali, vestita di bianco a evocare la purezza violata, si accascia, vinta dalla paura e dalla vergogna, tra le braccia del suo uomo – furente e incredulo – allegoria di un intero popolo. La luce calda e diafana che si posa sul volto della donna svenuta (fig.4), sembra rivelare al mondo la sua innocenza e amplifica l’orrore dell’affronto subito; la stessa luce che sfavilla rabbiosa sul braccio armato, inguainato di rosso, del giustiziere, mentre Drouet, atterrato e inerme, tenta invano di fermare la furia omicida. Un altro dei presenti, sulla destra, con una mano cinge una donna alla vita, mentre con l’altra pone l’indice verso – quasi a evocare il gesto dei grandi imperatori nelle arene – a rimarcare la colpa e il colpevole, e decretare l’ovvia sentenza: lavare nel sangue l’oltraggio francese. Nessuna pietà.
La dignità di una donna e quella di un popolo, sacre l’una e l’altra, vendicate sotto l’egida severa di una croce di pietra che svetta sopra un’alta colonna, e fa scendere su Drouet e sull’oppressore angioino, l’onta gravosa del peccato. Una croce simile, infatti, secoli dopo, i palermitani avevano fatto erigere su una colonna al centro del piano di Sant’Anna la Misericordiosa (oggi piazza Croce dei Vespri), dove la leggenda vuole che almeno duemila francesi fossero stati trucidati durante la rivolta del Vespro (ne fa menzione anche Amari approssimando il numero: “grossa la strage de’ nostri; ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento.”); e Rapisardi – che di certo ben conosceva la leggenda e il suo significato – con questo particolare elemento, riporta tutto il senso della scena nella più trepidante attualità, nella realtà appena vissuta di un’altra occupazione: quella asburgica al nord e quella borbonica al sud.
Quella croce rievoca nel presente il simbolo della ribellione, della giustizia terrena che coincide con quella divina. Pregevole e decisamente efficace la composizione pittorica, in cui le figure collocate su piani sovrapposti ma molto ravvicinati, crea naturalmente l’idea del tumulto e conferisce profondità alla scena. Così come il breve tratto di paesaggio che degrada sul fondo, con la sagoma del Monte Pellegrino che si staglia in lontananza, contestualizza l’evento, insieme all’accenno di architettura normanna a identificare la facciata del Santo Spirito. Pochi, ma incisivi, elementi di contorno per un dipinto in cui tutta la forza espressiva si concentra nelle figure in azione sul proscenio. Dal cuore di Palermo alla Sicilia intera l’eco della rivolta irradia proprio da quello squarcio prospettico che si apre e si allarga dal fondo verso l’esterno.
Il grande dipinto di Michele Rapisardi – unica opera catanese – chiudeva il percorso museale della sezione Palermitana alla grande mostra “La Bella Italia”, tenutasi dal 17 marzo all’11 settembre 2011 alle Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Il tema dei Vespri Siciliani era, infatti, simbolicamente legato all’impresa garibaldina, e nella rivolta del 1282 si riconosceva il patriottico senso primigenio di indipendenza e di unità nazionale.
Lo stesso senso patriottico che, invece, Giulio Carlo Argan non ravvisò nella versione del soggetto dipinta da Francesco Hayez nel 1846 (la terza e ultima delle tre che eseguì, fig. 5), oggi conservata alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dove lo storico sottolinea un’eccessiva teatralità che, in qualche modo, ottunderebbe lo spirito patriottico che la scena avrebbe dovuto evocare:
“fondo, quinte, costumi, illuminazione ben regolata tra fondo e ribalta, distribuzione equilibrata dei personaggi, ciascuno con la sua parte. Muore trafitto il baritono, cantando; cantando risponde il tenore, che dopo averlo ferito si ritrae con mossa aggraziata; sviene come prescritto la fanciulla; il coro commenta in sordina; le comparse ripetono i gesti di circostanza. Tutto è incredibilmente falso e melodrammatico”
In effetti, a ben vedere, la mise en scene di Hayez del 1846, allestita su un’inquadratura più larga e profonda, è ben più “composta” che non quella di Rapisardi. L’idea del tumulto non è così evidente; l’uomo in primo piano con la spada puntata in terra – presumibilmente dopo aver trafitto il soldato francese – è ritratto in una posa piuttosto affettata; il suo volto non tradisce forti emozioni così come il linguaggio del corpo non denota alcun cenno evidente di indignazione. Tra i presenti, solo un altro personaggio brandisce qualcosa di acuminato che si può intuire come un’arma, l’uomo sulla destra, con il copricapo rosso, ritratto di profilo, che tende le braccia in alto; mentre nel dipinto di Rapisardi, lance e bastoni branditi per aria, si contano in quantità.
Si suppone che Hayez abbia tratto spunto dalla cronaca di un altro storico, lo svizzero Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, del quale pare che il pittore possedesse nella sua biblioteca una copia della “Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo” (1817 – 1819). Dal racconto di Sismondi apprendiamo che:
“All’indomani della Pasqua, lunedì 30 marzo 1282, i Palermitani, com’era loro costume, si posero in via per andare ai vesperi alla chiesa di Monreale, tre miglia lontana dalla città. Era il passeggio ordinario de’ giorni di festa, e tutto il cammino trovavasi coperto di uomini e di donne. I Francesi stabiliti in Palermo, e lo stesso vicario reale prendevano parte alla festa ed alla processione. Questi per altro aveva pubblicato un’ordinanza, che vietava ai Siciliani di portar armi per esercitarsi nel maneggio delle medesime ne’ giorni festivi, secondo l’antica usanza. I Palermitani erano dispersi pei prati raccogliendo fiori, e salutando con grida di gioja il ritorno di primavera, quando una giovanetta, non meno distinta per la sua bellezza che pei suoi natali, s’avviò al tempio, accompagnata dallo sposo, cui era promessa dai suoi parenti e da’ suoi fratelli. Un Francese per nome Drovet s’avanzò con insolenza verso la giovane, e sotto pretesto di assicurarsi che non avesse armi nascoste, le pose sfrontatamente la mano in seno: la fanciulla cadde svenuta tra le braccia del suo sposo, ed un grido di furore si alza tutto ad un tratto, muojano, muojano i Francesi! e Drovet, ferito colla propria spada, fu la prima vittima della rabbia popolare. Un solo non si sottrasse alla morte di quanti Francesi assistevano alla festa. I Siciliani, quantunque disarmati, ne uccisero duecento in campagna, mentre le campane di Monreale suonavano i vesperi.”
A differenza di Amari, Sismondi riporta, non il martedì, ma il lunedì dopo la Pasqua quale giorno in cui si colloca l’evento, e fornisce maggiori dettagli, non solo rispetto alle usanze e alle norme in vigore in riferimento a quel particolare periodo, ma anche dell’evento stesso riferendo i presunti legami parentali dei protagonisti.
Ebbene, l’impostazione che Hayez conferisce a questa scena rivela, se non altro, una maggiore aderenza al racconto di Sismondi, nel passaggio relativo alle tradizioni dei palermitani durante le festività pasquali; troviamo infatti nel suo dipinto, in secondo piano, una gran quantità di figure in movimento, presumibilmente “dispersi pei prati raccogliendo fiori, e salutando con grida di gioja il ritorno di primavera”. E il fatto che solo due personaggi siano armati (uno dei quali ha, in effetti, sottratto la spada al soldato) conferma le parole dello storico svizzero quando riferisce dell’ordinanza del vicario reale che vietava l’uso delle armi nei giorni di festa.
Tuttavia, Sismondi parla di un cammino in processione verso Monreale e non accenna minimamente al Santo Spirito, del quale invece Amari fornisce precisa collocazione territoriale, e dove sembra abbia avuto luogo l’episodio che scatenò la rivolta; benché il monastero – allora cistercense – si possa inserire nel supposto percorso verso la cittadina non lontana dal capoluogo siciliano. E in questo senso Hayez dimostra di aver seguito il racconto di Sismondi. Tutto intorno ai protagonisti dell’evento, infatti, è una folla di astanti, come abbiamo visto in movimento; ma, pressoché inattivi rispetto alla scena principale, e quasi colti di sorpresa nello svolgimento delle loro attività festaiole (la processione, i pranzi all’aperto), sembrano ricalcare il racconto di Amari quando dice che
“eran frequenti le brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano lor danze”.
Pur non di meno, quello su cui non si può dissentire, della critica di Argan – almeno a una prima osservazione – è che nel dipinto di Hayez manchi quasi del tutto quello spirito battagliero così evidente, invece, nella tela di Rapisardi, e che avrebbe conferito, se non un rimando più evidente al patriottismo risorgimentale, quanto meno una maggiore attinenza storica alla sua scena. Ma per queste apparenti incongruenze, rilevate da un Argan forse eccessivamente critico, sussistono fondate ragioni.
Anzitutto c’è da dire che Hayez esegue quest’opera nel 1846, data vicinissima ma non ancora “fattiva”, a quel 1848 in cui moti di insurrezione scossero e infiammarono la penisola a partire, ancora una volta, proprio dalla Sicilia. Il fermento rivoluzionario era nell’aria già da anni, diversi tentativi di sommossa erano stati soffocati nel sangue, ma la storia dell’Unità di Italia era ancora tutta da scrivere, e la censura asburgica rendeva ardua l’espressione di certe tematiche. Dal punto di vista stilistico, l’opera risente, tra l’altro, delle esperienze dell’artista con le accademie di scuola monacense; e proprio per queste aderenze estetiche al rigore accademico, per la compostezza e la sapiente combinazione di disegno di scuola toscana e colorito di derivazione veneta, il dipinto fu grandemente apprezzato, e non solo dal committente, il principe Vincenzo Ruffo di Sant’Antimo; la cui moglie (giova ricordarlo, al fine di inquadrare il contesto politico in cui venne eseguita l’opera), la genovese Sarah Luisa Stracham, della quale lo stesso Hayez dipinse un ritratto, divenne nel 1840 dama di corte di Maria Teresa d’Austria.
Il dipinto del 1846 di Hayez, la cui dotta cultura aveva certamente lasciato il segno anche nella sua arte, manifesta una sorta di clima di attesa, un ribollire sottinteso ma ancora incerto che, paradossalmente, però, a mio avviso, amplifica il sentore di deflagrazione che ne conseguirà; dell’episodio da cui scaturirono i Vespri Siciliani, l’artista ne fa – in questo caso – una scena quasi letteraria, poetica, o – meglio ancora – concettuale, “cripticamente romantica”, dove il patriottismo latente è espresso attraverso pochi, studiati elementi; come la fierezza, che sola forse è ravvisabile nella posa del giustiziere con la spada, nei pugni chiusi della figura maschile al centro, vestita di rosso, a esprimere insieme rabbia e determinazione, o – anche qui – nella colonna marmorea sormontata dalla croce a richiamare la strage di Sant’Anna. La passione, in questa versione del dipinto, si avverte sotto pelle e il tema del Vespro, da solo, basta a conferirle pienezza “romantica”.
Come d’altra parte “cripticamente romantica” – in tutti i sensi – è anche la scena del celeberrimo Bacio (la versione di Brera, fig. 6), dipinta nel 1859, unanimemente riconosciuta come simbolo stesso del trionfo risorgimentale; successiva all’esecuzione dei Vespri siciliani, eseguita pochi mesi dopo l’arrivo a Milano dell’esercito piemontese di Vittorio Emanuele II e dell’imperatore francese Napoleone III, i quali a Solferino, il 24 Giugno1859, avevano sconfitto le truppe austriache e liberato il lombardo-veneto. Qui il richiamo patriottico è ravvisabile nonostante la scena asciutta, sia nella posa dei protagonisti colti nel momento in cui si salutano per una presumibile imminente partenza dell’uomo, sia nei colori azzurro, verde, bianco e rosso che evocano quelli delle bandiere francesi e italiane, a indicare l’alleanza dei due paesi contro il comune nemico austriaco. Quella di Hayez sembra dunque una narrazione “enigmatica”, il segno distintivo che caratterizza la sua produzione pittorica.
Ma se si considera la precedente impostazione del dipinto dei Vespri Siciliani, quella della prima versione del tema (fig. 7), ancora di impronta neoclassica, eseguita da Hayez per la marchesa Vittoria Visconti d’Aragona, nel 1822, appare piuttosto chiara la differenza di resa evocativa.
In questo caso, infatti, l’artista è stato più che esplicito nell’enfatizzare la scena. Il gruppo in primo piano composto dai protagonisti, ai piedi della colonna con la croce, cattura l’attenzione giusto pochi secondi; poi l’occhio viene naturalmente attratto, quasi “chiamato” a spaziare tutto intorno, dove la concitazione della rivolta appena scoppiata è molto evidente.
Gruppi di figure animano il piazzale antistante il Santo Spirito; movimenti convulsi, braccia levate al cielo. Tra chi fugge e chi richiama il popolo alla rivolta, la caccia agli oppressori è appena iniziata, e il grido “Morte ai francesi!” sembra riecheggiare dal fondo della tela. Siamo nel 1822; l’opera è commissionata dalla moglie di un personaggio particolare, il marchese Alessandro Visconti d’Aragona, il quale, come esponente del movimento liberale patriottico, ebbe parte attiva nella congiura lombarda durante i moti del 1820-21. Dunque un’opera avente come soggetto i Vespri Siciliani, eseguita per quel contesto e in quel periodo storico, sull’onda degli eventi in cui la famiglia committente era direttamente interessata, non poteva che esprimere manifestamente tutto l’orgoglio patriottico che quell’antico evento poteva evocare.
Michele Rapisardi ebbe forse l’agio di eseguire il suo dipinto a cose fatte, quando già il sentimento nazionalista e unitario si era affermato e compiuto, e rappresentazioni come quella costituivano adesso una sorta di collante per i popoli d’Italia appena unificati; e probabilmente anche per questo la maggiore enfasi che emana dalla sua scena, è espressa con più evidenza. Ma il fatto di essere siciliano, di avere nei suoi geni quell’impeto connaturato nel suo popolo, che si manifestava attraverso il linguaggio del corpo, la gestualità, hanno certamente conferito al suo dipinto un’espressione evocativa potente e un’impronta marcatamente identitaria.
BIBLIOGRAFIA:
– Michele Amari, La guerra del Vespro Siciliano, Ottava edizione (Terza fiorentina) corretta ed accresciuta dall’autore e corredata di nuovi documenti. Vol. I, cap. VI, Firenze, Successori Le Monnier, 1876, pp. 129-130.
– Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto VIII, vv. 69-75: “E la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo ma per nascente solfo, attesi avrebbe li suoi regi ancora, nati per me di Carlo e di Ridolfo, se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.
– G. C. Argan, L’arte italiana dal Seicento all’Ottocento, Testo/Atlante, Francesco Perrella S. A. editore, Roma 1938, p.88.
– J. C. L. Simondo Sismondi Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo delle Accademie Italiana, di Wilna, di Cagliari, dei Georgofili, di Ginevra ec. Italia 1817-1819, Traduzione dal francese, Tomo 3, pp. 510-511.
©Francesca SARACENO Catania, 26 marzo 2023