I Virtuosi al Pantheon, Raffaello e il suo Sepolcro: ricordi, equivoci, precisazioni.

di Vitaliano TIBERIA

Durante le celebrazioni per il V centenario della morte di Raffaello, per precisare se ci sia stato un rapporto culturale fra i Virtuosi e l’Urbinate ho scritto questo testo, che è una sorta di epitome concettuale, un minuscolo corollario ad altri miei interventi sull’argomento in varie sedi e ai cinque volumi della storia dei Virtuosi al Pantheon; una storia, che, per motivi storiografici e non confessionali, è stata da me periodizzata per pontificati dal 1542 al 1877, in pratica da Paolo III alla morte di Pio IX, avvenuta nel febbraio 1878, e dunque alla fine del potere temporale dei papi.

Come ho già avuto modo di dire in questa stessa sede pubblicistica, il ricordo di Raffaello è inevitabilmente condizionato da due date, distanti fra loro più di un ventennio, ma idealmente collegate, come lo sono nella simbologia cristiana gli estremi dell’A e dell’Ω, la nascita e la morte: si tratta del 6 aprile 1520, anno della morte di Raffaello, che ebbe sepoltura nel Pantheon, e del 1542, anno della nascita, sempre nel Pantheon, della Compagnia di S. Giuseppe di Terrasanta (fig. 1).

1 – Il Pantheon, Stamperia E. Alberti a La Haye, XVIII secolo.

Era dunque inevitabile che il legame, puramente ideale e distante nel tempo, fra l’Urbinate e il Sodalizio giuseppino, costituito solo di artisti, denominati per questo ma anche per motivi morali Virtuosi al Pantheon, si mantenesse vivo nei secoli, nel segno della comune fede cattolica, dell’arte e dell’amore per l’antichità classica, ma desse anche luogo a fraintendimenti.

Il Pantheon, infatti, era il tempio di Roma simbolico quant’altri mai. Fatto costruire dal genero di Augusto, Marco Agrippa, che coronava così il suo terzo mandato consolare, e dedicato per volere dell’imperatore a tutti gli dei, mutò destinazione nel 606, quando, per iniziativa del papa Bonifacio IV, che ne ottenne la concessione dall’imperatore bizantino Phocas, divenne chiesa intitolata ai santi martiri cristiani e successivamente a Maria; così che il suo titolo ancor oggi vigente è Santa Maria ad Martyres. Il Pantheon dunque rappresentava il simbolo della religiosità dal mondo pagano all’era cristiana, nonché il sigillo glorioso e tutelare, oltre la morte, della convivenza in esso degli ideali di bellezza classica e di fede[1].

2 – Giuseppe De Fabris, busto in gesso di Raffaello, 1833-34, Roma, Pantheon

Dal 1520 è dunque presente nel Pantheon il monumentale sepolcro dell’Urbinate, che suscitò, secondo i suoi contemporanei, l’invidia della natura stessa per la bellezza che egli aveva realizzato nelle forme dell’arte (fig. 2). Ma il Pantheon, dal 1543, divenne anche la sede della Congregazione dei Virtuosi, testimoni dell’esistenza unitaria di pittori, scultori, architetti e musicisti, che, è bene precisarlo, furono legati a quel tempio non tanto per motivi estetici o perché vi era sepolto Raffaello, ma da un riferimento del tutto pietistico-devozionale; e cioè perché lì si custodivano, nella prima cappella a sinistra, porzioni di terra provenienti dalla Palestina portatevi dal monaco cistercense Desiderio d’Adiutorio (fig. 3), fondatore della loro Compagnia, e ancora perché il Pantheon era l’ideale memoria funebre dei santi martiri cristiani elevati agli onori dell’altare dell’ex tempio augusteo sotto la protezione della Vergine Maria, che esemplarmente fu intitolato Sancta Maria ad Martyres.

3 – Francesco Terzi, ritratto di Desiderio d’Adiutorio, Roma, Pantheon

L’idea di trasferire in edifici religiosi romani sorti fra i resti di antiche architetture classiche porzioni di terra provenienti da Gerusalemme non era una novità a Roma: era stata già realizzata nel IV secolo. Infatti, Flavia Giulia Elena, madre di Costantino, di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme (327-328), fece spargere della terra portata con sé dai luoghi santi sotto il pavimento di una nuova cappella dedicata al culto della croce; un sacro edificio voluto da Elena nella villa severiana, dove ella aveva la sua residenza, vale a dire nella zona dove, di lì a qualche anno (350 c.), sarebbe sorta la basilica sessoriana (Santa Croce in Gerusalemme) come simbolo dell’ideale presenza del Calvario e quindi della croce di Cristo in Roma.

Va quindi precisato che ogni ipotetico collegamento indiretto o ideale della nascita dei Virtuosi al sepolcro di Raffaello non è suffragato, allo stato attuale, da documenti d’archivio e neppure da una seria analisi critica fra le identità dell’Urbinate e quella dei Confratelli del Pantheon; dai documenti d’archivio risulta che il loro incontro ideale avvenne in realtà solo nel 1833, come vedremo più avanti.[2]

Ma chi erano i Virtuosi al Pantheon? Furono uno dei tanti sodalizi laici fondati da ecclesiastici a Roma in varie epoche. La Congregazione che li unì, intitolata a S. Giuseppe di Terrasanta, sia in ricordo delle porzioni di terra portate dalla Palestina dal suo fondatore, il cistercense Desiderio d’Adiutorio, sia perché si distinguesse dalla Confraternita dei falegnami, con sede nel foro romano, anch’essa dedicata a s. Giuseppe, vide la luce nel 1542 ed iniziò la sua attività l’1 gennaio 1543, presenti altri due ecclesiastici, il Segretario Banco Giuntini e Niccolò Bonelli.

Desiderio era  Piombatore delle bolle pontificie, familiare segreto, scudiero e assistente alla mensa di Paolo III, nonché, dal 1539, canonico di Santa Maria ad Martyres; Giuntini ricopriva l’importante carica di Procuratore della Penitenzieria Apostolica, mentre Bonelli era  Sottomaestro di Casa di Sua Santità e Contabile della Camera Apostolica.[3] Grazie a queste autorevoli presenze ecclesiastiche non fu difficile ottenere da Paolo III il riconoscimento della nuova Compagnia, che sarebbe stata costituita, come gran parte delle confraternite del tempo, da laici. E gioverà ricordare che, in quel clima riformatore, due anni prima, il 27 settembre 1540, Paolo III, con la bolla Regimini militantis Ecclesiae aveva approvato la fondazione della Compagnia di Gesù, formata da soggetti dipendenti direttamente dal papa. E con Ignazio di Loyola dovettero essere in contatto i Virtuosi Nanni di Baccio Bigio e suo cognato Iacopino del Conte: il primo per il progetto non realizzato del Gesù; Iacopino quando fece il ritratto del Loyola restio a farsi ritrarre.[4]

La neonata Congregazione del Pantheon confermava, sia pure con un’originalità tutta particolare perché costituita di artisti, il successo delle associazioni confraternali dedite alla pratica delle opere pie a Roma, il cui numero, fra il 1515 e il 1599, raggiunse il numero ragguardevole di settantaquattro[5]. Ma, diversamente da altri Sodalizi finalizzati alla cooptazione settoriale di soggetti attivi nelle varie pratiche artigianali (fabbri, falegnami, sarti etc.), la Compagnia dei Virtuosi raccolse artisti di ogni livello qualitativo e quindi non solo i vertici dell’arte, perché divenissero la testimonianza pubblica di quanta vitalità tutto il mondo artistico potesse trarre dalle lodi di Dio attraverso la pratica delle virtù della fede cattolica, soprattutto la carità, ed anche attraverso la preghiera e le riunioni spiritualmente edificanti.

Emblematicamente ne fecero parte fin dalla fondazione i pittori, gli scultori, gli architetti, gli ingegneri e gli artigiani che avevano lavorato alla manutenzione del Pantheon, come si legge nella Supplica rivolta nel 1543 da Desiderio d’Adiutorio a Paolo III.[6] Anche se in seguito, per motivi pratici, vi furono cooptati anche medici, avvocati e notai, oltre che musicisti, come il polifonista e tenore tiburtino Giovanni Maria Nanino, un ex allievo di Giovanni Pierluigi da Palestrina, quindi maestro della Cappella di Santa Maria Maggiore e della Cappella Pontificia, dopo essere stato eletto il 12 gennaio 1597 dai congregati del Pantheon loro Reggente.[7]

Nello stesso tempo, dando ai confratelli di San Giuseppe di Terrasanta una sede  nel Pantheon, si ribadiva il valore di tutta l’ortodossia cattolica: Desiderio, infatti, fondando la sua Congregazione sulle basi dottrinali e teologiche cattoliche, favoriva oltre all’attività caritatevole, condivisa dai Protestanti, anche la pratica delle indulgenze, il culto delle reliquie, di tutti i martiri ma anche di Maria e di s. Giuseppe; in sostanza, tutto quanto era invece avversato dai Protestanti e da un umanista di spicco come Erasmo di Rotterdam, il quale, rigorista neoplatoneggiante contrario all’arte, respingeva l’idea stessa di pittura, che non poteva interpretare i sentimenti degli uomini. Lo stesso Lutero, che aveva apprezzato gli ospedali, ritenne le associazioni cattoliche caritative una realtà negativa, dando questo tagliente ed eccessivo giudizio:

«Se ci fosse una fratellanza che raccogliesse denaro per dar da mangiare o aiutare i bisognosi, certo sarebbe un’ottima cosa. Troverebbe favore e si guadagnerebbe il paradiso. Ma oggi non viene altro da queste aggregazioni che ingordigia e ubriachezza…Dovrebbero essere soppresse ed eliminate»[8].

Si può dunque affermare che i Congregati di San Giuseppe di Terrasanta, se furono estranei ideologicamente agli splendori dell’Umanesimo-Rinascimento rientrarono in quel filone pietistico consolidato facente parte della Riforma cattolica inauguratasi già nel 1512 con il V Concilio Lateranense voluto da Giulio II, tuttavia senza risultati apprezzabili. Un indirizzo che però avrebbe raccolto risultati importanti attraverso iniziative caritatevoli periferiche, come quella dell’Oratorio del Divino Amore, i cui soci, al pari dei Virtuosi, praticarono le virtù cristiane soccorrendo ammalati e poveri; si trattò, nel caso dell’Oratorio, di un’istituzione di laici ed ecclesiastici che annoverò fra le sue file personalità eminenti del cattolicesimo del tempo, come Reginald Pole e Giovan Pietro Carafa. E proprio a quest’ultimo si può collegare il carisma dei Virtuosi tendente alla rinascita di una pietà medievale finalizzata ad una entusiastica pratica della carità, da cui sarebbero nati Ordini religiosi come i Teatini (1524), i Barnabiti (1530), i Somaschi (1532).

L’ampia riforma delle Istituzioni religiose, confermata dai decreti del Concilio di Trento, auspice Paolo IV, fu attuata, fra le altre, da figure di altissimo livello morale, come Gaetano di Thiene, Antonio Maria Zaccaria, Gerolamo Miani, Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Angela Merici; ed anche con alcune di queste personalità, come ho dianzi ricordato per le frequentazioni di s. Ignazio da parte di Nanni di Baccio Bigio e suo cognato Iacopino del Conte, furono in contatto congregati del Pantheon.

Alla luce di queste considerazioni, si può dunque concludere che la nascita dei Virtuosi non può essere collegata neppure concettualmente ad una precedente idea di Raffaello che sarebbe pervenuta poi (non si sa per quale via) a Desiderio d’Adiutorio o a Paolo III, come già nell’Ottocento è stato erroneamente creduto e come ancor oggi qualcuno ha estemporaneamente pensato [9].

 Non è verosimile infatti, ritenere che Raffaello, pienamente inserito nel circuito dell’ufficialità più accreditata, con l’ideale dell’arte di ascendente classico al centro della sua vita, avrebbe potuto immaginare un’Istituzione di artisti, come fu appunto la Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, che avesse per fine esclusivo non la creatività artistica, i fasti e gli splendori delle corti principesche o i dibattiti di estetica fra paludati accademici ma le pie pratiche cristiane esercitate in tutta umiltà: in particolare, la pratica assidua dei sacramenti, le preghiere per i vivi e i defunti, il pellegrinaggio alle sette chiese, la pratica delle Quaranta ore, la celebrazione della festa del patrono San Giuseppe, la costituzione di doti per fanciulle povere, l’assistenza ai confratelli infermi, la richiesta della liberazione di un prigioniero e la domanda di grazia per un condannato a morte. Prerogativa, quest’ultima, riconosciuta ai Virtuosi nella festa di S. Giuseppe da Clemente VIII, il quale, nel 1601 decretò di concedere la grazia per i condannati a morte solo se questa era richiesta dai Sodalizi che ne avessero avuto concessione pontificia.

Orazio Borgianni, David e Golia

E ricordo in proposito quanto osservai sul Davide e Golia, nella reale Accademia di San Fernando, a Madrid, dipinto straordinario di Orazio Borgianni, cooptato come Virtuoso del Pantheon il 24 gennaio 1610, il quale, nell’aprile successivo, si offrì di trattare personalmente la liberazione di un condannato a morte con pena commutata a cinque anni di triremi.[10] Un’esperienza, quella del Borgianni, che, maturata negli spazi reali della disperazione e della violenza, probabilmente lo condizionò nel dipingere quest’opera caratterizzata da orrore e da lancinante dolore espressionistico.

Dunque, fu la carità, espressa in varie forme, il fulcro dell’attività dei congregati del Pantheon, i quali agirono in piena coerenza con una militanza attiva della morale cattolica del loro tempo, storicizzata nella prassi della Riforma cattolica decretata dal  Concilio di Trento, di cui proprio i Virtuosi, operativi dal 1543, dovettero essere una significativa anticipazione ideologica. Ma anche sul piano pratico, Raffaello non avrebbe avuto neppure il tempo di presiedere un simile sodalizio, se non altro per le numerose e importanti committenze da cui era oberato a Firenze e soprattutto a Roma, come già egli stesso confessa in due lettere, del 5 settembre 1508 a Francesco Francia, in cui parla di «[…] gravi et incessanti occupationi», e del 15 agosto 1514 a Marco Fabio Calvo, dove ricorda « […] le molte mia (sic!) occupationi».[11]

Ma soprattutto va considerato il fatto che Raffaello appartenne ad un mondo preconciliare lontano da quello dei Virtuosi al Pantheon, che furono del tutto radicati nella Riforma cattolica ripiegata in una visione neomedievalistica della morale; perché Raffaello, princeps picturae, visse pienamente la sua breve esistenza nella dimensione estetica del suo tempo protesa alla ricerca della bellezza nell’alveo dello splendore umanistico-rinascimentale, che Tatarkiewicz ha definito Rinascimento classicistico[12]. Raffaello, visse in quel periodo di splendore intellettuale e artistico fra la morte di Lorenzo dei Medici (1492) e la Pace di Cambrai (1529), in cui fiorirono, nel crollo degli equilibri politici quattrocenteschi, gli altri “grandi” del Rinascimento, Leonardo, Michelangelo, Ariosto, Machiavelli.

Pertanto, lo sottolineo, l’idea “giuridico-amministrativa” di riunire societariamente pittori, scultori, architetti, musicisti in un unico sodalizio che avesse come unico fine non l’esercizio delle arti ma la pratica delle opere benefiche non poteva  spettare  ad una figura di genialità artistica spiccata come Raffaello, che viveva per amore dell’arte e che le gerarchie ecclesiatiche e gli altri committenti laici apprezzavano per le sue opere, viste come incomparabili raggiungimenti della traduzione formale dell’equilibrio fra ideali di bellezza e convinzioni morali nel confronto problematico fra materia e spirito. Più in generale, se il pensiero di un’articolata prassi caritativa societaria era del tutto coerente sia con l’ideologia moralistica della Riforma cattolica sostenitrice dell’azione virtuosa nelle opere sia con il pensiero del fondatore dei Virtuosi al Pantheon, il monaco cistercense, Desiderio d’Adiutorio, era incompatibile con la visione estetica del primo Rinascimento, decisamente individualistica e classicistica, cui Raffaello apparteneva forse più di tutti gli altri artisti del suo tempo.

Una visione volta sostanzialmente, in chiave platonico-aristotelica, all’interpretazione della bellezza sensibile che si manifestava nella natura, riflesso della gloria divina fra gli uomini e modello per gli artisti. Un’idea, questa, latamente umanistica, da cui, su un versante diverso da quello intimamente trascendentistico e nello stesso tempo drammaticamente esistenzialistico di Michelangelo, proprio Raffaello nasceva come emblema di una rinnovellata età dell’oro e quindi armonico interprete di ogni espressione artistica. Interpretava esemplarmente questo pensiero al limite dell’ideologia Il Cortegiano, di Baldassarre Castiglione, un’opera ultimata nel 1518, in cui la vita era declinata secondo i princìpi umanistici di ordo, ratio, compositio.

Si deve però ricordare che un raffaellesco di spicco come Perin Del Vaga, fece parte del Sodalizio dei Virtuosi, cooptatovi fin dalla loro prima riunione, l’1 gennaio 1543; il Bonaccorsi è quindi ricordato nel verbale delle riunioni dei Virtuosi del 10 novembre 1547 per non aver potuto dipingere, per la sua morte, avvenuta il 19 ottobre  di quello stesso anno, la parte a sinistra dell’altare della cappella di San Giuseppe nel Pantheon, loro giuspatronato, nella quale il Bonaccorsi ebbe sepoltura.

A testimonianza del fatto che i “grandi” del Rinascimento non fecero parte della Congregazione dei Virtuosi, ricordo che anche l’altro vertice del Cinquecento, Michelangelo, nonostante che alcuni suoi seguaci vi fossero cooptati, non entrò nella Compagnia del Pantheon, che iniziò la sua attività  poco più di un anno e mezzo prima dell’indizione, il  19 settembre 1544, a seguito della bolla di Paolo III, Laetare Jerusalem, del Concilio di Trento; e questo avvenne benché nel V decennio del Cinquecento Michelangelo fosse in piena ed apprezzata attività. Probabilmente dovette precludere la nomina del Buonarroti a Virtuoso del Pantheon il suo individualismo anticonformistico venato di agostinismo e forse, in antitesi all’immanentismo aristotelico, la sua predilezione per la metafisica neoplatonica ficiniana, che egli faceva brillare con l’uso di colori stralunati e con forme scultoree anelanti la liberazione dalla corporeità, prodromi formali delle inquietudini dei Manieristi; una metafisica, quella aristotelica, che invece era essenziale nella sua idealizzante ricerca estetica per un artista di pieno Rinascimento come Raffaello. Al contrario, sul piano ideologico, l’immanentismo aristotelico e quindi la filosofia tomistica meglio si addicevano al carisma dei Virtuosi orientati verso l’esercizio reale e quotidiano della carità. Ma dovette ostacolare la nomina a Virtuoso di Michelangelo anche la tenace avversione nei suoi confronti di Antonio da Sangallo il giovane, personalità di rilievo nella Compagnia del Pantheon, cooptatovi fin dalla sua prima riunione, l’1 gennaio 1543.[13]

E’ dunque plausibile pensare che la nuova Compagnia dei Virtuosi, denominata anche Congregazione, in sintonia con lo status giuridico delle realtà storiche del monachesimo occidentale, fu approvata da Paolo III non per le finalità estetiche e teoretiche, che sarebbero state invece appannaggio dell’Accademia di San Luca, poco tempo dopo la fondazione dei Virtuosi, ma per dimostrare che gli artisti, a Roma, cuore della Chiesa cattolica, non erano varianti antropologiche voluttuarie nell’orbita dell’estetica, ma erano anche uomini devoti, i quali, oltre  a creare opere di bellezza sensibile, esercitavano proficuamente  nei fatti le opere della misericordia cristiana.

In altre parole, se i protestanti non apprezzavano nelle chiese le immagini e le decorazioni sacre, ritenute espressioni della vanitas vanitatum, se non addirittura espressioni di idolatria, Paolo III e le gerarchie ecclesiastiche, nella gestazione dei lavori in vista del Concilio di Trento, autorizzando preliminarmente la nascita della Compagnia dei Virtuosi al Pantheon, costituita di artisti cui si chiedeva una testimonianza morale significativa perché espressa costantemente attraverso opere caritative, ribadivano apoditticamente il valore delle attività, per così dire, impegnate sul piano sociale, svolte da pittori, scultori e architetti, i quali avrebbero avuto sede proprio nel tempio romano religiosamente più significativo dal mondo classico all’età moderna.

Il carisma delle origini della Compagnia dei Virtuosi al Pantheon, che si potrebbe definire dunque, con un’espressione moderna, un’associazione di kerigmatici ecclesiali[14], in quanto donatori agli altri di ciò che hanno ricevuto, fu esclusivamente di natura religiosa e non ebbe finalità estetiche nella pratica; un carisma che è stato talmente radicato nelle coscienze dei propri sodali che, pur modificandosi nel tempo nelle forme della sua espressione, si è conservato, anche dopo la fine dello Stato Pontificio, come un’identità pienamente vissuta nella coincidenza dell’etica e dell’ estetica del Cattolicesimo [15].

Per altro verso, va ricordato, sotto il profilo giuridico-amministrativo, che la nascita della Compagnia dei Virtuosi al Pantheon nel 1542, come ho già da tempo rilevato, coronò un percorso riformatore dello status giuridico degli artisti voluto proprio dal fondatore della Riforma cattolica, Paolo III, con motu proprio del 1539 e del 1540 [16]. Documenti, questi, che   scioglievano gli artisti dalla soggezione al particolarismo dei regolamenti medievali delle corporazioni contenuti nella legislazione del 1478, rendendo pertanto più agevole, in tempi di drammatica crisi dell’autorità della Chiesa di Roma contestata dalla Riforma protestante, il controllo degli artisti raccolti in un’unica associazione che nasceva, come si legge nel primo Statuto confraternale dei Virtuosi

«[…]  a Laude, et Gloria di Christo Salvatore nostro, et a salute dell’anime et sua (del fondatore Desiderio d’Adiutorio, n.d.r.) et de Confr.i di essa p.senti, et futuri. » [17].

In conclusione, la nascita nel Pantheon, poco tempo prima del Concilio di Trento, di una nuova confraternita artistica animata soltanto da finalità caritative e devozionali dimostrava che poteva esistere a Roma una comunità di artisti (si tentava di neutralizzare, per così dire, la polemica dei protestanti contro il lusso e il monachesimo), impegnati a praticare in tutta umiltà i princìpi della carità cristiana, che nella vita confraternale era di fatto separata dalla professione artistica. Le uniche committenze decretate dai congregati di San Giuseppe di Terrasanta riguardarono la decorazione della loro cappella di giuspatronato nel Pantheon. Quella Compagnia fu dunque una risposta in chiave societaria alla rigoristica solitudine esistenziale dei protestanti, per cui l’uomo, senza mediazioni ecclesiastiche, era solo davanti a Dio, così che non si doveva indulgere alla rappresentazione dei fatti della fede attraverso il bello artistico prediletto invece dalla Chiesa di Roma.

Ma come avvenne l’incontro reale fra Raffaello e i Virtuosi al Pantheon? Il sigillo a questo legame ideale fu posto parecchio tempo dopo la morte dell’Urbinate, nell’Ottocento, quando la fama di Raffaello conobbe un fortunato revival romantico grazie soprattutto all’entusiasmo dei Puristi e, in parte, al rigore dei Nazareni. Ma anche perché i Virtuosi cercarono di accreditarsi in una nuova dimensione universale, come universale era Raffaello; una dimensione che, in un mondo artistico pervaso di neoclassicismo e di romanticismo, li promuovesse, dalla ristretta pia pratica delle opere caritatevoli, ad Istituzione di rango accademico. Tuttavia questo ambìto riconoscimento fu raggiunto quasi un secolo dopo la ricognizione del sepolcro raffaellesco, e cioè nel 1928, per concessione di Pio XI, che apprezzò i risultati del   nuovo indirizzo pedagogico voluto dai congregati del Pantheon. Fu così che, pochi anni dopo la ricognizione del sepolcro raffaellesco, a partire dal 1837, sotto l’egida dei Virtuosi, furono istituiti concorsi pubblici per giovani, architetti, pittori e scultori, con la consegna ai vincitori di medaglie e solenni premiazioni in Campidoglio[18]; concorsi che furono bimestrali quelli detti d’esercizio, e, dal 1838, biennali quelli gregoriani, così denominati in omaggio al papa regnante, Gregorio XVI, che aveva autorizzato l’impresa della ricognizione del sepolcro raffaellesco[19]. L’iniziativa dei concorsi, ispirata da alti princìpi pedagogici, ed entusiasticamente voluta dai Virtuosi, venne sostenuta anche finanziariamente da Gregorio XVI, che stanziò 300 scudi per i concorsi bimestrali e 100 scudi per quelli a lui dedicati.

Nonostante le pesanti critiche rivoltegli dalla storiografia moderna, si deve riconoscere che fu merito di papa Cappellari aver sostenuto, fra altre iniziative culturali, quel grande progetto accademico che, sul piano della formazione di giovani artisti, dette risultati più che lusinghieri, testimoniati da un cospicuo corpus di disegni che quei giovani produssero sui temi assegnati dalle commissioni dei Virtuosi, costituite per ogni tornata premiale. Ma quell’iniziativa fece registrare anche una novità inaspettata e decisamente anticonformistica per l’epoca e il contesto socio-politico in cui avvenne: l’assegnazione, nel gennaio del 1845, alla pittrice romana Amalia De Angelis del “premio d’esercizio” in pittura e della medaglia d’oro nel Concorso Gregoriano[20]. E non si trattò di un caso episodico, perché, nel 1850 e l’anno seguente, Erminia Pompili si aggiudicò due medaglie nei concorsi bimestrali, mentre Luigia Bigioli prevalse nel Concorso Gregoriano del 1853.[21] Ma già il 26 gennaio 1823 erano iniziati gli ingressi di sedici artiste fra i Virtuosi, che dimostrano quanto papa Cappellari, pur tradizionalista e sospettoso delle novità, fosse attento alle ragioni dell’arte.[22]

4 – Autoritratto in gesso di Giuseppe De Fabris, 1855 c., Roma, Pantheon.

Seguendo ora la vicenda del sepolcro raffaellesco nel Pantheon, vediamo che il 18 luglio1833, dopo lunghe e controverse discussioni nel Sodalizio dei Virtuosi, ne fu decretata la ricognizione per iniziativa non di un architetto né di un pittore, ma di uno scultore, il veneto Giuseppe De Fabris (fig. 4), artista conterraneo di Gregorio XVI e amatissimo dal mondo ecclesiastico, che si portava dietro fama di canoviano, e che fece un busto di Raffaello, collocato nella Galleria dei Virtuosi nel piano attico del Pantheon. Il suo impegno in favore della formazione dei giovani è testimoniato dal lascito dei suoi beni al comune di nascita, Nove, perché vi fosse istituita una scuola di ceramica.

La Congregazione dei Virtuosi, per legittimare in concreto la ricognizione del sepolcro raffaellesco e attenuare le lamentele dell’Accademia di San Luca, che ne avrebbe voluto la paternità, decise di intervenire attingendo al proprio bilancio. De Fabris era in quel tempo l’autorevole Reggente della Congregazione dei Virtuosi, i quali, subito dopo quell’evento, gli tributarono un riconoscimento concesso a pochi altri sodali del Pantheon nel corso dei secoli: lo acclamarono loro Reggente perpetuo; una carica straordinaria che in precedenza era stata riservata al fondatore della Compagnia, Desiderio d’Adiutorio, a Federico Zuccari nel dicembre 1572, ad Antonio Canova, il 19 novembre 1820, anche se lo Zuccari finì per litigare con i Virtuosi per sue inadempienze collegate all’attribuzione di tale carica, mentre il Canova non frequentò mai il Sodalizio, per i suoi numerosi impegni artistici.

5 – Francesco Saverio Kaniewski, ritratto di Gregorio XVI, Roma, Pantheon.

Fra le reticenze scientifiche e le invidie del mondo accademico contemporaneo, soprattutto da parte dell’entourage dell’Accademia di San Luca, il cui Presidente Gaspare Salvi rifiutò perfino la nomina a Virtuoso, il Reggente De Fabris, sostenuto dalla volontà di Gregorio XVI, (fig. 5), e dalla stima dei cardinali Pier Francesco Galleffi, camerlengo, Placido Zurla, vicario pontificio, Agostino Rivarola, del titolo di S. Maria ad Martyres, Costantino Patrizi, maggiordomo dei sacri palazzi apostolici, iniziò i lavori lunedì 9 settembre 1833, con  uno scavo nel luogo dell’originaria tomba raffaellesca ubicata nella cappella della Madonna del Sasso[23]. E’doveroso ricordare che nei mesi precedenti il settembre di quell’anno, quei prelati, per captatio benevolentiae, furono cooptati ad honorem fra i Virtuosi. In quello stesso 9 settembre, De Fabris ordinò delle copie del Tiberino, un giornale dell’epoca fondato e diretto da Gaspare Servi sostenitore della pittura di soggetto storico; e questo per informare i Virtuosi del progredire dei lavori.[24]

L’intervento fu inevitabilmente invasivo e comportò la rimozione di tre gradini di marmo dell’altare originario, del pavimento e del massetto sottostante, dello stesso altare, con sfondamento della parete sotto la “chiave” dell’arco. Il 14 settembre fu ritrovata la cassa d’abete, gravemente danneggiata dalle alluvioni del Tevere contenente lo scheletro del Sanzio con la testa rivolta a cornu evangelii.  Un’intensa commozione pervase i presenti, fra i quali Vincenzo Camuccini, che scoppiò in lacrime[25].

Sull’onda dell’emozione si rilevarono coincidenze ritenute provvidenzialmente significative, e cioè che la riscoperta dei resti mortali dell’Urbinate era avvenuta nel giorno commemorativo dell’Esaltazione della croce, alla presenza del cardinale Placido Zurla, che era il titolare della chiesa romana di Santa Croce in Gerusalemme. Nell’occasione si volle fare un atto di clemenza giudiziaria e si concesse la grazia ad un condannato, tal Francesco Silvestroni, fratello di un manovale che aveva partecipato all’apertura del vano sepolcrale per un reato, per altro secondario, la detenzione in pubblico di un’arma impropria, una roncola che, del resto, il condannato usava essendo anche giardiniere.

Alla presenza dell’assemblea generale dei Virtuosi, i resti mortali del Sanzio, ritrovati il 14 settembre in una cassa d’abete ormai infradiciata dalle acque delle frequenti esondazioni del Tevere, furono ricomposti, il 25 settembre, in una cassa di legno di pino, che poi, il 18 ottobre, fu collocata, per difenderla da ulteriori esondazioni del Tevere, in un deposito di piombo, sistemato, a sua volta, in un sarcofago di marmo bianco, del I secolo d.C., proveniente dai depositi dei Musei Vaticani, donato per l’occasione da Gregorio XVI.[26] Il contenitore di piombo fu suggellato dalle Corporazioni presenti all’evento.

Il sarcofago, oggi visibile dall’esterno, presenta, nella parte anteriore, due festoni d’alloro in bassorilievo con una coppia di nastri svolazzanti retti da tre bucrani e affiancati da volatili, raffigurati in coppia nelle facce laterali vicino ad un lauro, simbolo dell’operosità che ottiene i premi. Sul coperchio del sarcofago furono scolpite ex novo due croci ai lati della parola PAX, mentre sulla fronte fu inciso un distico elegiaco, a suo tempo dettato da Pietro Bembo (o da Antonio Tebaldeo): ILLE HIC EST RAPHAEL TIMUIT QUO SOSPITE VINCI / RERUM MAGNA PARENS ET MORIENTE MORI. Nella parte centrale si legge: OSSA ET CINERES – RAPH SANCTII URBINI; al di sotto, il ricordo del donatore, GREGORIUS XVI P.M. ANNO III INDICT. VI ARCAM ANTIQUI OPERIS CONCESSIT.[27]

Il 17 settembre del 1833, il presidente dell’Accademia di Archeologia, Luigi Biondi, presentò una dissertazione sull’appartenenza a Raffaello dello scheletro riesumato sotto la cappella della Madonna del Sasso, in risposta allo scetticismo di autorità romanistiche, fra le quali Antonio Nibby, che tuttavia, convinto da quelle argomentazioni particolareggiate, firmò, su invito del notaio Apolloni, la relazione del ritrovamento, che comprendeva come primo firmatario il cardinale vicario Placido Zurla. L’intervento del Biondi fu provvidenziale, perché valse a schiarire, anche se solo temporaneamente, l’orizzonte che si era incupito fra i Virtuosi e l’Accademia di San Luca, in seguito alla vicenda dello scavo: infatti, il presidente del Sodalizio lucano, Gaspare Salvi offrì, a nome dell’Accademia, cento scudi come contributo per le spese dell’impresa sostenute dai Virtuosi.

Le prime autorità a rendere omaggio a Raffaello furono i cardinali Segretari di Stato Tommaso Bernetti e Anton Domenico Gamberini.  Il sepolcro restaurato fu presentato pubblicamente il 18 ottobre 1833, riscuotendo un grande successo, forse inaspettato dagli stessi organizzatori dell’avvenimento, tanto è vero che si dovette realizzare (lo dicono i verbali congregazionali del tempo, conservati nell’archivio storico dei Virtuosi) un nutrito servizio d’ordine con milizie pontificie di granatieri e guardie svizzere. Fra gli illustri personaggi che plaudirono commossi all’iniziativa ricordo il principe poeta e collezionista, amante della Grecia classica e del Rinascimento italiano, nonché sostenitore del Neoclassicismo, Ludovico I di Baviera, che sarebbe stato «aggregato» fra i Virtuosi del Pantheon nel 1844.

Oltre alle varie autorità istituzionali d’ogni ordine e grado, furono presenti molti studiosi emozionati ed anche il popolo di Roma, così che furono staccati 3000 biglietti d’ingresso. In quell’occasione, da Borgo, Monti, Trastevere e dagli altri rioni, i Romani si riversarono nel Pantheon, dove trovarono 450 sedie ad accoglierli, per rendere omaggio commosso a Raffaello ricomposto nel rinnovato sepolcro, circondato ormai di un’aura di gloria leggendaria, addirittura sulla soglia della santità. Il suo corpo, infatti, fu seppellito sotto l’altare sormontato dalla monumentale statua della Madonna del Sasso; onore, questo, riservato generalmente ai santi, anche se non mancarono altri esempi di inumazioni sotto gli altari di personaggi illustri o benemeriti, come Desiderio d’Adiutorio, il fondatore della Congregazione dei Virtuosi, che fu sepolto nel Pantheon, sotto l’altare della cappella di San Giuseppe di Terrasanta, giuspatronato dei Virtuosi.

6 – Pietro Camporese, progetto di catafalco (non realizzato) per le esequie per Raffaello, 1834, Roma Pantheon

Il nuovo sepolcro di Raffaello fu risistemato sotto la grande statua della Madonna del Sasso, eseguita dal Lorenzetto, seguace dell’Urbinate, proprio nel rispetto della volontà del Maestro. Viceversa non venne realizzato il progetto di un monumentale catafalco in elevazione su diversi registri con figure e decorazioni allegoriche, con una statua del Sanzio sulla sommità, che si sarebbe dovuto presentare in un’altra cerimonia funebre nella primavera del 1834. Di questa iniziativa incompiuta della Congregazione dei Virtuosi resta un disegno di Pietro Camporese, pubblicato nel 1837 con un commento critico di Francesco Gasparoni (fig. 6)[28].

Secondo le direttive di De Fabris, assistito da una commissione di accademici e di autorità, tutte le fasi dell’operazione e i nomi dei partecipanti che avevano reso possibile quello straordinario evento furono riportati in appositi atti formali a cura del notaio Augusto Apolloni, che rinunziò alla propria parcella professionale riscuotendo solo un rimborso di spese.

All’illustre Virtuoso Vincenzo Camuccini, dopo l’esclusione dell’accademico di San Luca Tommaso Minardi, che era stato contrario allo scavo, fu affidato il compito di eseguire disegni dello stato dei resti mortali del Sanzio come furono trovati al momento dell’estumulazione e dopo la loro ricomposizione a cura del chirurgo anatomista Antonio Trasmondo (figg. 7-8), che prestò la sua opera gratuitamente.

7 – Vincenzo Camuccini, disegno dello scheletro di Raffaello, dopo il ritrovamento nel sepolcro originario del 1520, Roma Pantheon.
8 – Vincenzo Camuccini, disegno dello scheletro di Raffaello, ricomposto dopo la ricognizione del suo sepolcro nel 1833, Roma Pantheon

Questi disegni, nella traduzione litografica di Giambattista Borani[29] (figg. 9-10), furono poi inviati a varie Autorità e a personalità benemerite della Congregazione dei Virtuosi.

9 – Giambattista Borani, incisione dal disegno del Camuccini dello scheletro di Raffaello, dopo il suo ritrovamento nel sepolcro originario del 1520, Roma Pantheon.
10 – Giambattista Borani (1833), incisione dal disegno del Camuccini dello scheletro di Raffaello dopo la sua ricomposizione, Roma Pantheon

Un buon numero se ne conserva ancora nella sede dell’Accademia. Lo stato dello scheletro di Raffaello, come apparve a De Fabris il 14 settembre 1833, fu successivamente riprodotto ancora in varie sedi e in diversi esemplari cartacei da artisti, litografi e tipografi, fra i quali il raffaellesco Tommaso Minardi, Horace Vernet e Ippolito Caffi.

Nei decenni successivi, ci furono celebrazioni dell’evento e il progetto di rendere finalmente visibile il sarcofago di Raffaello coperto dall’altare sottostante la statua della Madonna del Sasso. Nell’Ottocento, il mito di Raffaello tornava a risplendere in un’epoca politicamente turbinosa e attraversata da fremiti romantici, in cui l’Urbinate appariva come l’identità assoluta della pittura, ma anche come un simbolo della nazione italiana da riunire geopoliticamente dopo secoli di aspettative fatte balenare già dalle liriche di Dante e Petrarca e dal Leopardi, che nel 1818 presentava la canzone All’Italia, un appello vibrante in chiave romantica a liberarsi dallo straniero; idee, queste, che con il tempo sarebbero state sempre più vagheggiate, per contraddittorio che possa sembrare, anche da alcuni congregati del Pantheon, nonostante il loro legame storico-culturale con lo Stato Pontificio.

Ancora a distanza di molti anni dalla fine del potere temporale della Chiesa cattolica, la potenza unitiva nell’arte del genio raffaellesco, incurante di ogni divisione politica e ideologica, tornava a splendere nel cielo di Roma.

Nel 1883, ricorrenza della nascita di Raffaello e cinquantenario della ricognizione del suo sepolcro, si ebbero, fra gli altri, interventi commemorativi di Raffaele Ojetti su Raffaello architetto al Collegio degli Ingegneri ed Architetti di Roma, e del capo della destra storica italiana, Marco Minghetti, che introdusse gli Atti del IV Centenario della nascita di Raffaello, tenutosi ad Urbino[30]; in quell’occasione, fu anche realizzata una corona d’alloro in argento.

A Roma, un solenne corteo guidato dai ministri del Regno d’Italia, dell’Istruzione, Guido Baccelli, un noto medico, il quale, con decisionistica intuizione filologica, oggi giuridicamente impraticabile, aveva fatto demolire i campaniletti berniniani sull’attico del Pantheon, definiti popolarmente “orecchie d’asino”. In quell’occasione, fra le altre Autorità e numerosi allievi delle scuole d’arte romane, furono presenti anche il ministro dei Lavori Pubblici Alfredo Baccarini, come pure il sindaco di Roma, Leopoldo Torlonia, destituito dopo pochi mesi di mandato dal Presidente del Consiglio, Francesco Crispi, perché aveva fatto gli auguri per il giubileo cinquantenario di sacerdozio a Leone XIII.

Suggestivo fu l’itinerario seguito dal corteo, che compì una sorta di pellegrinaggio simbolico dal Campidoglio al Pantheon-S.Maria ad Martyres, per rendere al sepolcro di Raffaello l’omaggio dell’ormai consolidato Regno d’Italia e di Roma, sua capitale[31]. L’evento originalissimo e animato da nobili idealità ebbe un significato del tutto particolare, perché, unitivo nel segno dell’arte e della cultura, si svolse in un momento in cui da tempo sul Parlamento romano persistevano fitte le nubi del trasformismo politico inaugurato dal capo della Sinistra storica, Agostino Depretis, che vanificava la fervida dialettica parlamentare fra maggioranza e opposizione, aprendo il campo ad una caotica unanimità, che surrogava ideali, aspettative sociali e indirizzi dei partiti in vantaggio degli interessi di vari poteri forti.

Nel Novecento si mantenne viva l’attenzione per il monumento sepolcrale raffaellesco, divenuto ormai una sorta di sacrario di diverse memorie, così che finalmente si progettò la messa in vista dell’urna marmorea contenente i resti mortali di Raffaello. Nel 1911, su progetto di Domenico Gnoli, Antonio Muñoz rimaneggiò la cappella della Madonna del Sasso, in cui si custodiva il sepolcro, sostituendo l’altare settecentesco con una mensa impostata su pilastrini sagomati, sul modello della transenna della cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva[32].

Nel 1920, nel quadricentenario della morte di Raffaello, durante le varie manifestazioni ufficiali, cui parteciparono, fra gli altri, anche Adolfo Venturi, il padre della moderna storia dell’arte italiana, e Adolfo Apolloni, noto scultore, sindaco di Roma e senatore del Regno d’Italia, la città di Urbino depose sulla facciata del sepolcro raffaellesco una corona celebrativa di bronzo, tutt’ora in vista sulla sinistra del sarcofago; cosa che fece anche la Congregazione dei  Virtuosi, mentre il Virtuoso, l’archeologo Giovanni Pinza declamò un elogio del Sanzio[33]. Nel 1930 il solerte Virtuoso Giovanni Biasiotti fece una breve ma intensa commemorazione sulla tomba di Raffaello. Nel 1933, primo centenario della ricognizione del sepolcro, furono eseguiti, a cura del Soprintendente ai monumenti di Roma, Alberto Terenzio, dei rimaneggiamenti dell’edicola funeraria, che portarono alla rimozione dei balaustrini laterali dell’altare ed alla realizzazione di un ampio vano ad arco ribassato coperto da marmo, ampliato e dotato, nel 1982, di una lastra di cristallo per rendere finalmente visibile e protetto il sepolcro[34] (fig. 11).

11 – Il sepolcro di Raffaello nel Pantheon.

A documentare la vita e le opere di Raffaello, tre anni dopo gli interventi del Terenzio del 1933, vide la luce, a cura della Pontificia Insigne Accademia Artistica dei Virtuosi al Pantheon, il prezioso volume Raffaello, dell’accademico Virtuoso Vincenzo Golzio, che ricostruiva la vita dell’Urbinate attraverso la raccolta filologica delle fonti scritte e delle varie testimonianze letterarie che lo riguardavano[35].

In chiusura, torno a ricordare quanto ho già scritto recentemente a più riprese sull’argomento della ricognizione del 1833 del sepolcro di Raffaello, che è, in sostanza, l’unico anello di congiunzione fra l’Urbinate e i Virtuosi al Pantheon (cfr. nota 37). E ricordo anche che quell’avvenimento non fu voluto per estemporanee curiosità anatomiche o di secondaria importanza per la storia dell’arte, ma per rendere un omaggio universale ad un genio della pittura d’ogni tempo secondo i princìpi di humanitas religiosa diffusi in ogni civiltà.

In altre parole, nonostante che Raffaello fosse stato notoriamente di bell’aspetto e dotato di statura superiore alla media del suo tempo, i Virtuosi non caddero nella tentazione di volerne esplorare il sepolcro con il fine di fare sul suo scheletro riscontri metrici e anatomopatologici, per confermare, fra l’altro, in tempi di iperclassicismo, l’antico principio della kalokagathìa, per cui bellezza e virtù convivrebbero in uno stesso soggetto. Per l’eccezionalità di quell’evento, a sepolcro aperto si badi bene, furono fatti calchi in gesso di parti del suo scheletro, delle quali quella del cranio fu donata ad Urbino, sua città natale.

La scelta del 1833 del Reggente Giuseppe De Fabris e dei Virtuosi di quel tempo, condivisa da studiosi e autorità religiose e laiche, fu dunque dettata soprattutto dalla nobile volontà di restituire degna sepoltura ai resti mortali dell’Urbinate, il cui sepolcro era stato sconvolto dalle ricorrenti esondazioni del Tevere. In altre parole, quei devoti confratelli del Pantheon praticarono una delle opere della misericordia umana, senza confini etico-religiosi nello spazio e nel tempo: la pietas erga mortuos, che, oltre ad essere un principio fondamentale di civiltà, rinverdiva l’eternità della bellezza artistica, di cui Raffaello, per giudizio unanime a partire dai suoi contemporanei, era stato il massimo creatore.

Raffello, Trasfigurazione, Musei Vaticani

Ed anche gli interventi strutturali successivi al 1833, che aggiunsero qualche decorazione sul sepolcro, furono concepiti solo per rendere finalmente visibile dall’esterno l’urna sepolcrale dell’Urbinate intangibile in tutta la sua dignità misteriosa, come, del resto, è misteriosa la dignità della morte, che Raffaello volle incontrare, guardando, come in un estremo atto confirmatorio, la Trasfigurazione, la sua ultima opera, da lui non ultimata, ispirata a profonda fede nel Cristo vivente[36].

L’auspicio che ci perviene dal 2020, anno commemorativo della morte di Raffaello, vigente per il futuro, è che non si cada, come è stato fatto recentemente, nella tentazione autoreferenziale di riesumare le spoglie mortali dell’Urbinate per curiosità accessorie, che finirebbero per alimentare il solito circuito del gossip (Raffaello, fu avvelenato o morì di malattia venerea ?!); sarebbe una grave ed inutile manomissione di quella memoria sepolcrale, che, fra l’altro, come tutte le opere d’arte italiane, lo ricordo ancora, gode della protezione del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Positivo e indiscutibile resta invece il significato ideologico, ovviamente sotto il profilo storico-artistico, che all’interno del Pantheon ha assunto dal 1520 e conserva tutt’oggi il sepolcro raffaellesco, pertanto intangibile presenza fisica, di un genio della pittura.[37]

E possiamo concludere ricordando il nitido aforisma di Bernardo di Chartres, utile viatico per gli uomini di buona volontà dal XII secolo: «nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes», che, tradotto dalla metafora, è un invito a rispettare la dignità delle memorie passate, riconoscendo silenziosamente i limiti presenti.

Vitaliano TIBERIA  Roma 30 Ottobre 2022

NOTE

[1] Sulla fondazione della Compagnia di S. Giuseppe di Terrasanta nel 1542 e sulla sua attività dall’ 1 Gennaio 1543, fino al 13 dicembre 1587, si veda V. Tiberia, La Compagnia di S. Giuseppe di Terrasanta nel XVI secolo, Mario Congedo editore, Martina Franca (TA), 2000. Le vicende successive del Sodalizio dei Virtuosi, fino al 9 dicembre 1877 sono state da me trattate in altri quattro volumi, editi sempre da Mario Congedo, periodizzati diacronicamente per pontificati fino alla morte di Pio IX.
[2] Nell’ultimo volume della storia dei Virtuosi al Pantheon (V. Tiberia, La Congregazione dei Virtuosi al Pantheon da Pio VII a Pio IX, documentazione archivistica a cura di Anna Lisa Genovese e Michela Gianfranceschi, Mario Congedo editore, Galatina 2015), lo scrivente ha trattato la vicenda della ricognizione del sepolcro di Raffaello nel 1833 alle pagine 45–50; la vicenda dello scavo, con i preliminari, è documentata giorno per giorno dal 14 luglio del 1833, dalla Genovese alle pp. 301-328. Alla Genovese spetta anche il merito di aver ricostruito filologicamente e con un ampio corredo di rare illustrazioni tutta la storia del sepolcro raffaellesco: A.L. Genovese, La Tomba del divino Raffaello, Gangemi editore, Roma settembre 2015. Questo libro rievoca pensieri, dibattiti e mode di più epoche e la variegata fortuna di Raffaello fino ai nostri giorni; un’opera  che si inserisce nel filone degli studi e dei ricordi più o meno ufficiali dedicati all’Urbinate, al quale, princeps picturae, ancora oggi potremmo attribuire, a seguito della ricognizione del suo sepolcro da parte dei Virtuosi al Pantheon nel 1833, l’inedito appellativo di “Virtuoso virtuale”, dal momento che in vita non fece parte della Congregazione di San Giuseppe di Terrasanta, che iniziò la sua attività l’1 gennaio 1543 e cioè ben 23 anni dopo la sua morte.
[3] Tiberia, op. cit. 2000, pp. 52-53, note 1-2.
4] Ibidem, op. cit., p.29 e nota 26.
[5] I. Da Villapadierna, in AA.VV., La carità cristiana in Roma, Ed. Cappelli, Bologna 1968, p.191.
[6] H. Waga, Vita nota e ignota dei Virtuosi al Pantheon, Roma 1992, pp. 149-153.
[7] La Compagnia di S. Giuseppe di Terrasanta nei pontificati di Clemente VIII, Leone XI e Paolo V (1595-1621), a cura di Vitaliano Tiberia, Martina Franca (LE) 2002, pp. 16-17.
[8] C.F. Black, Le Confraternite italiane del Cinquecento, 1989, ed. ital. 1992, con bibliografia precedente, p.15.
[9] La questione dell’inesistente legame di Raffaello con i Virtuosi al Pantheon è stata trattata partitamente da H. Waga, op. cit., pp. 49-52, che ricorda i vari sostenitori otto-novecenteschi della tesi romantica di un’origine raffaellesca dei Virtuosi al Pantheon (Moroni, Pinza, Ozzola, Noack, Visconti, Eroli, Kambo), a partire dal Segretario dei Virtuosi Gaspare Servi.
[10]    Tiberia, op. cit. 2002, p. 75.
[11]   Ho letto le due lettere in V. Golzio, RAFFAELLO nei documenti nelle testimonianze dei contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticano 1936, p. 20 (lettera a Francesco Francia); p. 35 (lettera a Marco Fabio Calvo).
[12]  Wladyslaw Tatarkievicz ha trattato la teoria dell’arte del Rinascimento classicistico, con particolare riferimento a Raffaello, Michelangelo, Leonardo, nella sua Storia dell’estetica, ed. ital. Giulio Einaudi, Torino 1980, vol. III, pp. 152–169.
[13] Sui primi artisti nella Compagnia di San Giuseppe di Terrasanta, rimando a Tiberia, op. cit., 2000, pp.39-47.
[14] Sul rapporto fra artisti e kerigma si veda S. Spinsanti, L’ARTISTA: UN CARISMATICO ECCLESIALE? in NUOVO DIZIONARIO DI SPIRITUALITÀ, a cura di S. De Fiores e T. Goffi, Edizioni Paoline, pp. 62-65, Cinisello Balsamo (MI) 1985.
[15]   Emblematica della professione pubblica di fede cattolica dei Virtuosi è stata fino al 2016 la suggestiva cerimonia della cooptazione dei nuovi soci, i quali, sull’altare di Santa Maria ad Martyres, il Pantheon, rinnovavano con una simbolica promessa, che era ideale riconferma del sacramento della loro Cresima, la fedeltà al Cattolicesimo e l’osservanza dello Statuto accademico, che, nella sua ultima versione costituita di quindici articoli, è stato concesso ai Virtuosi al Pantheon nel novembre del 1995 da San Giovanni Paolo II. Dal 2017, la promessa di fedeltà alla religione cattolica sull’altare maggiore di Santa Maria ad Martyres, celebrante il cardinale Gianfranco Ravasi, è stata sostituita da una sintetica manifestazione verbale condivisiva di generiche intenzionalità estetiche.
[16]  V. Tiberia, in G. Bonaccorso, T. Manfredi, I Virtuosi al Pantheon 1700/1758, edizioni Argos, Roma 1998, p. XV.                   
[17] Statuto, in Waga, op. cit., p. 102
[18] Sui concorsi dei Virtuosi nell’Ottocento cfr. Tiberia, op. cit., 2015, pp. 35-44. Di quei concorsi restano numerosi disegni dei vincitori nella sede storica dei Virtuosi nell’attico del Pantheon; questi avrebbero dovuto formare, su progetto già realizzato nel 2016 dallo scrivente di inventariazione, catalogazione e restauro, il II volume, non più realizzato, del catalogo generale scientifico delle opere d’arte dell’Accademia dei Virtuosi, il cui I volume, dedicato a dipinti e sculture, è uscito nel 2015: V. Tiberia, La collezione della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, catalogo a cura di Adriana Capriotti e Paolo Castellani, Scripta Manent editore, Subiaco (RM)  2016.
[19] Tiberia, op. cit., 2015, pp. 35-44.
[20] Su Amalia De Angelis, originale figura di pittrice, cfr. A.L. Genovese, in Tiberia, op. cit., 2016, pp. 210-213.
[21] A.L. Genovese, La premiazione nei Concorsi Gregoriani (1838-1874) delle pittrici Amalia De Angelis, Erminia Pompili e Luisa Bigioli, in “Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, Città del Vaticano XIV/2014, pp. 363-384.
[22] Idem, Le donne artiste nell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon, in “Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon”, Città del Vaticano, XII/2012, pp. 371-376.
[23] Genovese, in Tiberia, op.  cit., 2015, p. 305.
[24] Ibidem.
[25] Genovese, cit. in Tiberia, op. cit., 2015, p. 311 e segg.
[26] A. Schiavo, La Pontificia Insigne Accademia Artistica dei Virtuosi al Pantheon, Fratelli Palombi Editori, Roma 1985, p. 12.
[27] Ibidem.
[28] L’iniziativa del catafalco con gli esiti successivi è discussa da Genovese, op. cit. settembre 2015, pp. 99-100; Eadem, in Tiberia, op. cit. 2016, pp. 134-135.
[29] Le iscrizioni sulle litografie sono riprodotte in Genovese, op. cit. settembre 2015, p.171.
[30] A. L. Genovese, op. cit., settembre, 2015, p. 118.
[31] Ibidem, p. 120-121.
[32] Ibidem, pp.127-128.
[33] Ibidem, p. 129.
[34] Schiavo. op. cit., alla nota 15.
[35] Golzio, op. cit., supra, nota 11
[36] L’episodio della Trasfigurazione è descritto da Matteo, 17, 1–9; è il momento decisivo della rivelazione della divinità di Gesù, che, alla presenza di Mosè ed Elia, sceglie come testimoni dell’evento, Pietro, Giacomo e Giovanni, i quali saranno anche i testimoni della sua passione e morte. La trasfigurazione è dunque per i credenti la raffigurazione della gloria del Cristo che, vivente, rivela la sua divinità ed anticipa la morte del suo corpo, prefigurando dunque la Pasqua, “[…] che, per la via della croce, introdurrà Cristo nella piena manifestazione della sua gloria e della sua dignità filiale” (X. Leon-Dufour, Dizionario di Teologia Biblica, Marietti editore, Genova 1990, ad vocem Trasfigurazione, col. 1302).
[37] Sull’argomento si veda V. Tiberia, Un ricordo per Raffaello nel Pantheon, in “About Art on line”, 12 aprile 2020. Va quindi ricordato che, nell’agosto scorso, l’Accademia Raffaello d’Urbino, il Centro di antropologia molecolare dell’Università di Tor Vergata e la Fondazione Vigamus hanno fatto delle indagini non invasive perché eseguite sul calco del cranio di Raffaello conservato nell’Accademia urbinate, ricostruendone il volto in 3D, con fondate probabilità di somiglianza con quelle dell’Urbinate, e concludendo di conseguenza che il Sanzio fu senza dubbio sepolto nel Pantheon.
Segnalo infine il mio ultimo articolo sull’argomento del sepolcro raffaellesco Raffaello all’obitorio. Nuove considerazioni sui Virtuosi al Pantheon e sui resti del grande Urbinate, sempre in “About Art on line”, del 13 dicembre 2021, in cui commento la presentazione, da parte dell’arch. P. Baldi e di altri Autori, di un progetto di riesumazione dei resti mortali di Raffaello, su cui è inutile dilungarsi ancora. Rilevo tuttavia alcune imprecisioni critiche e omissioni bibliografiche essenziali negli scritti del Baldi e di A. Militello nella relativa pubblicazione presentata il 13 dicembre 2021 all’Università di Roma Sapienza, ma stampata nel 2022 (AA.VV., Enigma Raffaello. Fortuna, rivalità, contrasti: il mistero della morte del Sanzio, Skira Editore 2022),