di Francesca SARACENO
NON SI DILETTAVA “DE COMPOR VERSI NE VOLGARI NE LATINI”, PERÒ…
Nell’indagare le tante questioni che animano il dibattito sulla vita e l’opera del Caravaggio, capita spesso che ne emerga un identikit non certo lusinghiero. E, tra le varie “negatività” attribuite al grande maestro lombardo, dalle maglie di questa infausta profilazione, sembrerebbe filtrare anche una presunta ignoranza; particolare non certo gratificante che, però, ha corroborato e rafforzato quell’aura di turbolenta genialità che da sempre contraddistingue il pittore.
L’idea di artista incolto e, per questo, refrattario allo studio accademico, incline alla creazione “pura”, ricusatore per natura di ogni forma di idealizzazione, è però – alla luce degli studi condotti dalla critica moderna – quanto meno inconsistente. Non abbiamo certo a che fare con un teoreta o con un dotto cultore di lettere, scienza o filosofia, questo va detto; ma Michelangelo Merisi ebbe, senza dubbio, un’istruzione di base che comprendeva quanto meno nozioni di letteratura, mitologia e storia sacra. Tutte conoscenze – in prospettiva – assolutamente indispensabili a un artista che ambisse a committenze di alto livello. Conoscenze che, grazie anche alle sue autorevoli frequentazioni (lombarde prima e romane poi), egli ebbe modo, certamente, di accrescere. E le sue opere sono ancora qui, dopo quattro secoli, a testimoniarlo. Peraltro, numerosi sono gli esempi di pittori-poeti o comunque scrittori, conosciuti nella storia dell’arte; uno per tutti Michelangelo Buonarroti (cresciuto e formatosi all’erudita corte di Lorenzo il Magnifico) i cui sonetti testimoniano una indubbia capacità compositiva e dunque una altrettanto indubbia cultura. Ma, come vedremo, anche il territorio d’origine del Merisi poteva annoverare, in quel periodo, nomi importanti della pittura “prestati” alla divulgazione letteraria. D’altra parte, letteratura e arte sono, in un certo senso, figlie della stessa madre: la creatività; dote indispensabile sia per comporre (in versi e in prosa), sia per plasmare la materia e riprodurre la realtà. Parola e immagine da sempre apparentemente antagoniste eppure assolutamente simbiotiche, l’una e l’altra contendendosi il primato della comunicabilità.
La competizione virtuosa tra espressione verbale e arte figurativa era stata definita dal poliedrico Leonardo da Vinci, nel suo Trattato della pittura, quando affermava:
“La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca, e l’una e l’altra vanno imitando la natura quanto è possibile alle loro potenze”;
con ciò intendendo che entrambe le forme creative restituiscono la realtà secondo le potenzialità comunicative di ciascuna, ma chiaramente anche secondo le capacità del poeta o – nel caso della pittura – dell’artista.
Un pensiero, quello di Leonardo, che affondava le radici nell’antico principio formulato da Orazio del “ut pictura poësis”. Ciò che la poesia riesce a esprimere con le parole, la pittura esprime attraverso i colori; da cui il concetto, espresso da Simonide di Ceo e riportato da Plutarco, di pittura come “poesia muta” e di poesia come “pittura parlante”, che ancora nel Rinascimento aveva dominato la scena, vedendo primeggiare la poesia sulla pittura.
Ma Leonardo era andato controcorrente e aveva posto, invece, la pittura al vertice della “architettonica dei saperi”; con il suo armonico “dolce concento”, riteneva che essa si potesse imporre sulla poesia in quanto arte legata al “nobile” senso della vista, che riesce a lasciare traccia perpetua nella mente dell’osservatore, poiché ciò che “si vede” rimane impresso e si ricorda nel tempo molto più di quel che si “sente”. La bellezza delle forme e la magia del colore, rendevano dunque la pittura l’arte più apprezzata, talché, scrive Leonardo:
“Tolgasi un poeta che descriva le bellezze d’una donna al suo innamorato; e tolgasi un pittore che la figuri; vedrassi dove la natura volgerà più il giudicatore innamorato.” Infatti “se il pittore ne’ freddi e rigidi tempi dell’inverno ti pone innanzi i medesimi paesi dipinti, ed altri, ne’ quali tu abbia ricevuto i tuoi piaceri, appresso a qualche fonte; tu possa rivedere te amante con la tua amata, ne’ fioriti prati, sotto le dolci ombre delle verdeggianti piante, non riceverai tu altro piacere che ad udire tale effetto descritto dal poeta?”
La pittura, attraverso il senso della vista, è capace di evocare, senza parole, anche ciò che la poesia maggiormente sollecita, ossia i moti dell’anima. Ma sempre Leonardo, a tal proposito, scrive che attraverso la poesia “l’anima non potea fruire il benefizio degli occhi, finestre delle sue abitazioni”. Con la pittura, invece, si. Questo assunto trovava la sua origine in un altro concetto antico, quello di “finestra aperta sul cuore”, riportato nel “Simposio” di Platone quando, nel discorso di Socrate, Alcibiade per lodarlo, afferma:
“egli somiglia a quei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, che hanno in mano zampogne e flauti, fatti in modo che, aprendosi a metà, mostrano, all’interno, l’immagine degli dèi.”
Questa metafora troverà espressione nella tradizione poetica, attraverso l’idea del “cuore di cristallo”, a cui Francesco Petrarca attende nel suo Canzoniere, quando scrive:
“Certo, cristallo o vetro / Non mostrò mai di fore / Nascosto altro colore / Che l’alma sconsolata assai non mostri / Più chiari i pensier nostri”
Gli occhi, dunque, quali “finestre” dell’anima, lasciano vedere ciò che la materia nasconde, sia in senso fisico che in senso figurato. La pittura – ovvero l’idea fatta immagine – molto più che la poesia, riesce in questo stesso “miracolo”, in questo palpito immediato ed eterno, sia con la ritrattistica che, più ampiamente, con scene di storia o di genere, evocando emozioni e sentimenti attraverso l’abilità dell’artista; e non vi è dubbio che Michelangelo Merisi, nel rappresentare e sollecitare i “moti dell’anima”, fu un impareggiabile maestro.
Ciò che risulta chiaro, però, è che, per giungere a un tale livello di consapevolezza, efficacia e competenza figurativa, un artista come il Caravaggio dovesse per forza di cose aver ricevuto un’istruzione anche di tipo umanistico, che avesse in un certo senso, “allenato” la sua mente all’interpretazione dei pensieri e dei sentimenti per poi renderli opportunamente in forma pittorica.
La storiografia caravaggesca non ha fornito, allo stato attuale delle conoscenze, informazioni precise o comunque sufficienti a definire il percorso di formazione del Merisi, ma sappiamo di certo che il ramo materno della sua famiglia, non era estraneo a una certa cultura, annoverando tra gli avi, addirittura ben tre notai. Il nonno, Giovan Giacomo Aratori, svolgeva nel borgo di Caravaggio la professione di agrimensore (anche per conto dei marchesi Sforza Colonna); attività che, per sua stessa natura, esplicandosi nell’ambito dell’amministrazione generale (oggi diremmo “management”) dei terreni, richiedeva una specifica formazione, comprensiva di discipline come la matematica, la geometria, e perfino il disegno (sebbene inteso come disegno tecnico), nonché – certamente – anche una buona dotazione letteraria che gli permettesse di redigere per iscritto e nella forma corretta, relazioni, contratti ecc.
Non è dunque inverosimile che, proprio dal nonno materno, il piccolo Michelangelo, primogenito della figlia Lucia, possa aver ricevuto una prima istruzione di base, magari anche i primi rudimenti di disegno, di conoscenza delle strumentazioni tecniche, e aver iniziato fin dalla tenera età a sviluppare interesse verso quel genere di discipline; ma è altrettanto probabile che, come tutti i bambini del paese, avesse frequentato anche le normali lezioni per imparare a leggere, scrivere e far di conto, nonché quelle canoniche e imprescindibili di “dottrina christiana” impartite nel borgo bergamasco dalla allora quindicenne marchesa Costanza Colonna, la quale, come risulta da una lettera di san Carlo Borromeo del 18 gennaio 1570, “andava lei medesima a insegnarla” nei giorni festivi.
Possiamo quindi affermare che l’istruzione primaria del Merisi fosse stata più che sufficiente a escluderlo – quanto meno – dalla ingrata categoria degli analfabeti e lo avesse posto, anzi, nella condizione di poter allargare le proprie conoscenze, contando su una innata curiosità e su un’evidente predisposizione all’apprendimento. Talché, quando molto presto iniziò a manifestarsi la sua inclinazione verso le arti figurative, la madre – ma più probabilmente il nonno Giovan Giacomo – si assicurò di affidare l’istruzione artistica del giovane Michelangelo a un maestro di specchiata professionalità, che ne sapesse coltivare e nutrire a dovere l’innato talento.
La scelta cadde sul maestro milanese Simone Peterzano forgiato alla scuola veneta (si fregiava, tra l’altro, di essere stato “Titiani alumnus”), il quale possedeva una solida preparazione artistico-letteraria, acquisita lavorando proprio in quell’ambiente ricco di stimoli, aperto alle influenze culturali nordiche (da cui si svilupparono anche le nuove tendenze teatrali), garantendo così ai suoi allievi una formazione completa di tutte quelle conoscenze e competenze, tecniche e teoriche, indispensabili all’esercizio della professione di pittore. Dunque, pur non avendo notizie certe sul tipo di formazione specifica che Peterzano impartì al Caravaggio nei quattro anni (1584-1588) in cui lo ebbe come allievo nella sua bottega milanese, possiamo ragionevolmente presumere che, oltre alla pratica pittorica, il maestro gli avesse trasmesso anche quelle conoscenze letterarie che, in un contesto di forte fermento culturale, si imponevano come necessità imprescindibili nel bagaglio di un artista.
Questo genere di nozioni, strettamente legate all’ambito della letteratura e della mitologia, oltre che della storia sacra, avevano influenzato profondamente anche le arti figurative, dando vita – tra l’altro – a quel filone delle “scene di genere” direttamente derivate dalla commedia dell’arte, che andavano per la maggiore in quei territori compresi tra Lombardia, Veneto e bassa padana, dove la corrente naturalista si andava sempre più affermando, e che costituiranno il canovaccio delle primissime rappresentazioni pittoriche del Caravaggio a Roma.
Quello tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento fu un periodo di notevole sviluppo del pensiero e delle scienze, che ispirò la nascita di diverse accademie, tra i cui membri si annoveravano non soltanto personaggi di elevata cultura, ma anche artigiani, professionisti e – non ultimi – gli artisti.
La costituzione di queste accademie rispondeva alla tendenza sempre più diffusa negli ambienti culturali, di staccarsi da una certa omologazione del pensiero portata avanti a oltranza fin dal medioevo, da quella filosofia dogmatica di matrice cristiana detta “Scolastica”, che aveva inteso consolidare la valenza sociale (e politica) della fede, suffragando le verità religiose promulgate dalla Chiesa, attraverso ragionamenti di origine platonica, agostiniana o aristotelica. Le corti romane frequentate dal Merisi contavano personaggi della borghesia medio-alta, più o meno titolata, composta da banchieri, avvocati, medici, professionisti e funzionari di stato, che aspiravano al riconoscimento pubblico del loro prestigio e che accoglievano con entusiasmo queste nuove tendenze culturali; un anelito “libertario” che probabilmente coltivavano proprio nell’ambito di quelle particolari accademie che nascevano in quegli anni, e che forse sta alla base del largo consenso tributato a quel pittore lombardo “ribelle” che trasferiva nei suoi dipinti, attraverso uno stile rivoluzionario, il loro comune senso di riscatto, di affrancamento dalla condizione di servizio al potere ecclesiastico, che si estendeva opprimente anche in ambito culturale.
La possibilità che il Merisi avesse avuto fin da giovanissimo contatti con ambienti accademici, o comunque con circoli letterari, è supportata dalla notizia che lo stesso Muzio Sforza Colonna, primogenito della marchesa Costanza, avesse costituito una sua Accademia detta degli “Inquieti” nel palazzo di famiglia a Milano, accanto alla chiesa di San Giovanni in Conca. La fondazione ufficiale dell’Accademia è del 1594, alla quale data – a oggi – non è dato sapere, in effetti, dove si trovasse il ventitreenne Merisi, ma è più che verosimile che già in precedenza il giovane Sforza avesse iniziato a tenere riunioni e salotti letterari nel proprio palazzo, e che l’amico fraterno Michelangelo – indubbiamente frequentatore delle residenze dei marchesi, sotto la cui ala era cresciuto – ne avesse assimilato gli influssi culturali, sia di tipo letterario che artistico; senza contare che, a quanto ne sappiamo, il Merisi poteva anche essere ancora a Milano quando l’Accademia degli Inquieti venne formalmente costituita ed aver quindi assistito direttamente alla sua nascita.
Tra i più noti e frequentati sodalizi culturali, nel territorio di provenienza del Caravaggio, era certamente l’Accademia della Val di Blenio, un’associazione letteraria e teatrale a vocazione libertaria nata nel 1560, composta da pittori, poeti, musicisti, artigiani, maestranze varie nonché nobili intellettuali che, travestiti da facchini, davano vita a rappresentazioni per lo più comiche o goliardiche, in cui si declamavano versi in dialetto ticinese da essi stessi composti, forse proprio in opposizione al conformismo retorico e linguistico delle accademie più colte e tradizionaliste.
Di questa Accademia fu nominato “abate”, nel 1568, il pittore Giovan Paolo Lomazzo che, quasi certamente, il Peterzano conosceva, dal momento che proprio Lomazzo citerà il collega milanese, in uno dei componimenti contenuti in una raccolta pubblicata nel 1589, intitolata Rabish. Ispiratore delle rappresentazioni bleniesi era il dio Bacco, nelle cui vesti, sapientemente attualizzate e contestualizzate, si era ritratto lo stesso abate (fig. 1), non a caso ornato di foglie di vite, di edera e di alloro, e con in mano una tela e un compasso, a testimoniare la pluralità dei saperi che gli accademici professavano, con metodologie assolutamente “esperenziali”.
La possibilità che Peterzano e Lomazzo si conoscessero non certifica, ovviamente, che il maestro del Merisi fosse membro attivo dell’Accademia della Val di Blenio, né che l’allievo Michelangelo avesse mai assistito a qualche rappresentazione, ma sicuramente testimonia che il futuro pittore de I Bari (fig. 2) e de La buona Ventura (fig. 3), ebbe modo di assorbire la temperie culturale del suo territorio e, verosimilmente, apprenderne le influenze letterarie direttamente dal proprio maestro.
Peraltro Giovan Paolo Lomazzo fu anche autore di un importante Trattato dell’arte della pittura pubblicato proprio nel 1584, l’anno di ingresso del giovane Michelangelo presso la bottega di Simone Peterzano. In quest’opera – di cui il maestro del Merisi possiamo ragionevolmente ipotizzare, avesse copia nella sua bottega – Lomazzo si proponeva di fornire agli aspiranti artisti una sorta di vademecum in cui definiva le competenze tecniche e intellettuali indispensabili, delle quali un buon pittore dovesse dotarsi; tra queste, anche poesia e letteratura, da cui trarre elementi utili a rendere una “historia” o comunque un soggetto pittorico, nella forma più “empaticamente” comprensibile.
Come aveva dimostrato Leonardo, il dipinto era una forma di comunicazione straordinariamente immediata, spesso più di quanto non lo fosse la poesia, e per questo aveva in sé un enorme potenziale, che però poteva essere pienamente espresso solo se l’artista, oltre a padroneggiare la tecnica pittorica, avesse posseduto anche delle buone basi teoriche umanistiche. A tal proposito, nelle sezioni del Trattato riguardanti i “moti” e gli “affetti” da tradurre in pittura, Lomazzo cita specificamente Ludovico Ariosto, nell’Orlando Furioso, quando riporta l’esempio delle reazioni di Isabella che “di subito gaudio si scolora” incontrando Zerbino, o l’atteggiamento mesto di Angelica che – dice Lomazzo – Ariosto “dipinge” con le sue parole nel canto VIII. E tra le citazioni di Lomazzo, nel libro degli “affetti”, se ne trovano anche – e non a caso – da Petrarca, per quello che riguardava le questioni d’amore, riportando quale esempio letterario nella trasposizione pittorica, i versi di Quel vago impallidir che ’l dolce riso del Canzoniere, in cui Laura “chinava a terra il bel guardo gentile” negandolo al desiderio del poeta.
Le tematiche amorose petrarchesche, in quel particolare periodo storico tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, erano molto diffuse, anche nei salotti intellettuali e tra le dame dell’aristocrazia più o meno blasonata; non ultima la stessa Costanza Colonna che, proprio a causa di tali letture considerate “licenziose”, fu più volte ammonita dal suo padre spirituale Carlo Bascapè. Certi “pensieri impuri” andavano combattuti, secondo l’austerity imposta dalla Controriforma, anche attraverso l’arte, e non è forse un caso che dipinti come il Mondafrutto o il Ragazzo morso da un ramarro, appartenenti alla prima produzione pittorica romana del Caravaggio, siano fortemente intrisi di quell’aura poetica, e si inseriscano anch’essi tra le più precoci testimonianze dell’abilità del Merisi nel manipolare elementi di carattere filologico conferendo loro una connotazione pittorica, per così dire, “didascalica”.
Il Mondafrutto (fig. 4), opera che conosciamo grazie ad alcune copie (dacché il prototipo originale non sembra essere stato ancora identificato), riecheggia della già citata metafora del Sileno che nasconde in sé “la divinità”, riportata nel Simposio di Platone. Un concetto analogo, infatti, era alla base della fondazione di un’altra delle più note Accademie nate alla fine del Cinquecento, ovvero la perugina Accademia degli Insensati, della quale fu principe (dal 1605 al 1620) Cesare Crispolti, lo scrittore e collezionista nella cui quadreria compare per la prima volta documentato un Mondafrutto del Caravaggio. La denominazione dell’Accademia racchiude già un doppio significato: uno più “immediato”, cioè che essa fosse composta da personaggi fuori dagli schemi, e uno più criptico derivante dall’etimologia della parola “insensati”, che starebbe per “non sensati” ovvero liberi dai “sensi”; con essi intendendo tutte quelle passioni umane, terrene, che impediscono all’individuo di elevarsi e tendere “alla contemplatione delle cose alte, celesti, immortali ed eterne”. Alla luce di ciò, il ragazzo del Caravaggio che con il coltello “monda” il suo frutto dalla spessa scorza esterna, quella che lo fa apparire diverso da come è “dentro”, potrebbe essere stato interpretato da Crispolti, come un’allegoria dell’educazione virtuosa che, liberando il giovane dal gravame delle inutilità terrene, effimere e mortali, lo innalza verso l’eternità dell’anima.
Un simile intento moralizzante potrebbe essere rintracciato anche nel Ragazzo morso da un ramarro (fig. 5), le cui fattezze efebiche, unitamente alla rosa tra i capelli e alla spalla scoperta, rimandano a quelle tematiche romantiche di estrazione poetica e vagamente “lascive”. Il ragazzo ritratto dal Caravaggio si lascia sedurre dalla bellezza effimera, rappresentata dalla caraffa di fiori, in cui però, malignamente, si cela la brutta sorpresa del ramarro che gli addenta un dito. Quel piccolo, infido animaletto rappresenterebbe, dunque, il peccato, l’insidia che si nasconde nell’adulazione delle passioni terrene, che conducono inevitabilmente alla perdizione.
Gli stessi contenuti romantici di derivazione poetica, avevano dato origine a tutta una serie di componimenti che si prestavano ottimamente anche in ambito musicale. Che il Caravaggio avesse introiettato questo tipo di contaminazioni, si evince dalla serie dei dipinti in cui il tema di fondo è per l’appunto la musica; parliamo di dipinti come i Musici e i Suonatori di liuto, eseguiti per il cardinale Francesco Maria del Monte e per il marchese Vincenzo Giustiniani, in cui tra gli elementi di natura morta raffigurati, sono ben visibili, spesso in primo piano, degli spartiti che riportano i versi di canzoni d’amore, chiaramente derivati da metafore petrarchesche. Ad esempio, nel madrigale di Jacob Arcadelt, che Caravaggio dispiega sul pentagramma dello spartito presente nel Suonatore di liuto (fig. 6) conservato al Museo Ermitage di San Pietroburgo, possiamo leggere:
“Chi potrà dir quanta dolcezza provo” / “Se la durezza in la mia donna dura” / “Voi sapete ch’io v’amo, anzi v’adoro” / “Vostra fui e sarò mentre ch’io viva”
Il rimando alle tematiche del Canzoniere, con il dubbio d’amore, il desiderio della donna amata, il conflitto interiore, sono piuttosto evidenti, sebbene rielaborati e resi in versi adatti all’accompagnamento musicale. Ma gli stessi soggetti pittorici eseguiti dal Caravaggio in questi dipinti, riflettono la medesima impronta poetica, anche nelle fattezze delicate e leziose delle figure, nelle pose leggiadre, nelle ambientazioni auliche.
Soggetti come il Suonatore di liuto, nelle varie versioni, presentano esattamente queste caratteristiche, che l’artista riesce a esaltare maggiormente attraverso la resa naturalistica della sua pittura; i tratti delicati del viso del suonatore, le labbra socchiuse nell’atto di cantare, la presenza di fiori e frutti sul tavolo in primo piano, sono tutti elementi che testimoniano una traccia di origine poetica che, evidentemente, era molto apprezzata in ambienti colti e ricercati, com’erano appunto le corti del cardinal del Monte o quella di Giustiniani, dove quelle particolari iconografie erano certamente comprese.
Lo stesso dicasi per il quadro dei Musici (fig. 7) dove, l’eleganza dei soggetti raffigurati e l’armonia della scena, restituiscono un’atmosfera aulica e raffinata. Peraltro in questo dipinto, ma ovviamente anche in altri, troviamo l’accostamento felice tra rimandi poetici e citazioni mitologiche, con la presenza, tra i soggetti dipinti, di un Cupido.
La mitologia era un’altra delle discipline letterarie irrinunciabili nella “valigia” culturale del pittore. Molti erano, infatti, i soggetti di questo tipo richiesti dai committenti, soprattutto per quadri da cavalletto destinati alle gallerie private, dove comunque non mancavano riferimenti di carattere moralistico.
E forse non è un caso che il giovane Caravaggio, tra le primissime sue opere romane, abbia voluto ritrarre se stesso con le sembianze di un Bacco. Ma non un Bacco “canonico”, bensì una figura umana, reale, che debitamente “acconciata” e disposta (com’era stata anche quella del Lomazzo), rimandasse “all’idea” del Bacco, sebbene in una versione teneramente trasandata; parliamo, ovviamente del Bacchino malato (fig. 8) oggi in galleria Borghese. Era appunto questa una delle “novità” introdotte dallo stile del Caravaggio, riuscire a umanizzare e attualizzare soggetti mitologici classici (e poi anche sacri), per loro stessa natura “ideali”, attraverso la pittura dal naturale. Ma non avrebbe mai potuto ritrarre se stesso nelle vesti di “quel” particolare Bacco, il Merisi, se non avesse studiato la storia del personaggio, se non ne avesse conosciuto gli elementi iconografici distintivi, se – in definitiva – non avesse avuto modo, nel corso della sua formazione, di acquisire le indispensabili competenze letterarie per poterlo adeguatamente rappresentare. E non avrebbe mai potuto, tra l’altro, l’artista, essere capace di rimaneggiare un soggetto mitologico come il dio Bacco conferendogli connotazioni di impronta cristiana (l’uva bianca e nera per la morte e la resurrezione, gli acini appassiti e il memento mori, l’edera al posto dei tralci di vite a simboleggiare la purezza e l’eternità) facendone in sostanza, un’allegoria cristiana a carattere moralizzante.
E come non ricordare quel meraviglioso Amore vincitore (fig. 9) dipinto per il marchese Giustiniani: uno splendido Cupido che ride beffardo con un piede sulle passioni umane. Un dipinto che la sapiente interpretazione del Caravaggio, ha reso chiara testimonianza della sua conoscenza non solo della mitologia, ma anche delle innumerevoli commistioni tra arte, letteratura, musica e poesia; discipline di cui, peraltro, il marchese era colto intenditore, e forse non a caso strumenti musicali, libri di poesie e corone d’alloro, sono tra gli elementi raffigurati in quella grandiosa natura morta “prostrata” ai piedi di “Amore”. La stessa superba trattazione, da parte del Caravaggio, della trasformazione alchemica degli elementi naturali, rappresentata nella piccola volta del casino Ludovisi attraverso le tre divinità di riferimento (“Giove, Nettuno e Plutone” fig. 10), come allegoria della creazione biblica, denota e certifica, per l’artista, una evidente conoscenza di base dei soggetti mitologici, che la frequentazione e il “consiglio” del cardinal del Monte, colto committente dell’unica opera muraria del maestro lombardo, certamente avevano contribuito ad approfondire.
Tutto ciò dimostra anche come i collezionisti, ma più largamente il vasto pubblico che all’arte guardava in quel periodo storico, fossero abituati a decifrare i vari codici compositivi e iconografici contenuti nelle opere, e dunque saperli inserire nell’economia di un dipinto, in maniera opportuna e creativa, era sicuramente tra i virtuosismi più apprezzati di un artista. E questo era più che mai vero nel caso dell’arte sacra.
D’altra parte, in un momento in cui proprio l’arte si poneva trasversalmente, sia tra le categorie di pubblico più colte che tra le fasce sociali meno istruite, come principale mezzo di comunicazione dottrinale da parte della Chiesa di Roma, impegnata in una strenua battaglia contro il protestantesimo, un’adeguata conoscenza anche della storia sacra si imponeva come competenza essenziale per gli artisti. Peraltro, i dettati conciliari tridentini avevano posto rigidi paletti riguardo all’interpretazione e raffigurazione delle “historie” e delle figure sacre; si vedano, a tal proposito gli scritti di Gabriele Paleotti del 1582, ma senza dimenticare che il Caravaggio veniva da una regione nella quale l’influenza pauperistica e i rigidi precetti dei Borromeo (Carlo prima e Federico poi), promulgati nelle varie scuole da essi istituite sul territorio, avevano inciso profondamente anche nelle rappresentazioni di arte sacra. Precetti che ricalcavano ed enfatizzavano i dettami tridentini in cui si stabiliva, tra l’altro: «Non si collochino immagini contrarie al dogma, che offrano occasione di pericoloso errore agli incolti.». E ancora: «sia evitata ogni lascivia in modo che non siano dipinte né fornite immagini di bellezza procace».
Disposizioni, dunque, ineludibili per qualunque artista che volesse vedere esposto un proprio quadro in una chiesa. Ed erano queste le commissioni più ambite e remunerative.
Per evitare la “tagliola” ecclesiale ed eventuali ricusazioni dei dipinti da parte dei committenti, che spesso erano confraternite religiose o comunque personaggi che con gli ambienti curiali avevano rapporti, un pittore doveva conoscere molto bene le “regole” cui attenersi quando si accingeva a dipingere un soggetto sacro; e dunque, documentarsi su appositi testi o su vari trattati in circolazione si rendeva quanto mai necessario.
Ne fece dura esperienza il Caravaggio, che certamente conosceva e rispettava la “catechesi” tridentina in ambito artistico ma sempre rimanendo fedele al suo stile naturalista, con alcuni suoi celebri dipinti destinati agli altari romani, che furono oggetto di aspre critiche, non solo a livello pittorico ma anche teologico. Fino all’amaro rifiuto della Morte della Vergine (fig. 11) per Santa Maria della Scala, la cui interpretazione pittorica da parte dell’artista, si scontrò rovinosamente proprio con le intenzioni dottrinali cattoliche.
Ma se possiamo, a questo punto, affermare che il Caravaggio possedesse una cultura sufficiente – e forse anche ragguardevole – da potersi destreggiare con successo nel mercato dell’arte, non possiamo altrettanto certificare quali fossero le sue eventuali letture, i testi specifici a cui fece riferimento nel corso della sua produzione artistica. Eppure, dall’elenco dei beni contenuti nella casa-studio che nel 1604 aveva preso in affitto da Prudenzia Bruni in vicolo San Biagio, sequestrati in seguito allo sfratto per insolvenza con la locatrice, abbiamo notizia che, tra le altre poche cose in possesso del pittore, vi fosse anche una “[…] cassa con dodici libri dentro”, dei quali però, lo sbrigativo inventarista che stilò il documento, purtroppo non ci fornisce i titoli.
Quello che potremmo verosimilmente ipotizzare – intanto – è che almeno una parte di quei volumi, il Caravaggio avesse potuto reperirli dal suo amico di scorribande notturne Ottaviano Gabrielli, libraio a Piazza Navona (citato insieme al maestro lombardo in almeno due verbali di polizia), che nel 1601 aveva acquisito un gran numero di libri dalla biblioteca di Giacomo Jacobelli, tra cui spiccano opere di Bellarmino, Paleotti, Aretino, Ariosto, Dante, Boccaccio, Petrarca e, non ultimo, Lomazzo. Considerando che, per un pittore di quel periodo storico, possedere “dodici libri” potrebbe non essere cosa di poco conto, dal momento che, in inventari riguardanti altri artisti, a volte il numero dei volumi è superiore, altre minore e altre invece i libri sono del tutto assenti, possiamo anche ragionevolmente supporre che gli argomenti trattati in quei volumi avessero una qualche importanza che andasse oltre il personale “diletto” del pittore e che, magari, fossero utili alla sua professione. Dunque potremmo immaginare in quella “cassa”, alcuni testi sacri, qualche trattato di pittura, manuali di anatomia e di botanica; magari biografie (come le Vite del Vasari) e, probabilmente, anche qualche testo di letteratura e poesia.
D’altra parte lo stesso Merisi ha lasciato prova tangibile che una certa perizia nel comporre versi l’avesse acquisita anche lui. Non si tratta, ovviamente, di componimenti poetici di carattere espressamente “romantico”, come potevano essere quelli di stampo petrarchesco che si declamavano nei salotti letterari aristocratici, ma piuttosto vicini a quell’ambito accademico, dialettale e goliardico, proprio della sua regione di provenienza. Ne fece le spese Giovanni Baglione, che di quel genere di versi fu fatto oggetto nei famosi libelli infamanti che Caravaggio e suoi amici fecero circolare per le botteghe d’arte e le osterie romane. E, per quanto durante il processo del 1603, nel quale Baglione lo trascinò a difendersi dall’accusa di offese all’onore, il Merisi “Interrogatus an ipse constitutus sciat componere versus vulgari sermone” avesse risposto: “Signor non che io non me deletto de compor versi ne volgari ne latini”, è invece più che probabile che l’artista, in quel frangente avesse mentito, e che almeno una parte di quei versi diffamatori li avesse scritti proprio lui, di suo pugno e di sua invenzione. Anche perché, secondo quanto riferiscono gli atti del processo, fu proprio uno degli indagati, Filippo Trisegni, a rivelare che uno di quei libelli “l’havevano fatto detti michelangelo, et honorio [Longhi]”. I versi contenuti in quei componimenti, vergati in un linguaggio piuttosto triviale, a tratti comico, sono il riflesso di quello che doveva essere il modo di esprimersi quotidiano del Merisi, ma lasciano anche vedere chiaramente una certa padronanza del mezzo parola, da parte dell’artista, che riesce a colpire nel vivo l’orgoglio del rivale; lo punge proprio su quello a cui più teneva: le sue doti artistiche (“le tue pitture sono pitturesse”) e i riconoscimenti ricevuti (“della collana che tu porti indegno sei”).
La capacità di scrivere del Merisi (sebbene in una forma non certo erudita ma sicuramente efficace) e di sapersi quindi destreggiare anche negli aspetti più pratici e “ufficiali” della sua professione, è testimoniata anche dai pochi ma incisivi contributi documentali che ci sono pervenuti e che riportano alcune righe scritte di suo pugno. Uno di questi documenti è, ad esempio, una ricevuta di pagamento del 1602 in cui possiamo leggere:
“il di 21 maggio 1602
Io Michel’Angelo Marrisi o riceuto di più dal ill[ust]re S[igno]r Ottavio Costa a bon conto d’un quadro ch’io gli dipingo venti schudi di moneta questo di 21 maggio 1602
Io Michel’Angelo Marrisi”
Un altro documento autografo del Caravaggio si riferisce all’impegno che l’artista assume con il collezionista Massimo Massimi, e recita:
“Io Michel’Angelo Marisi da Caravaggio mi obligo di dipingere al illustrissimo signor Massimo Massimi per esserne prima statto pagato un quadro di valore e grandezza come e quello ch’io gli feci già della Incoronatione di Crixto per il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sotto scritto di mia mano questa, questo di 25 Giunio 1605 Io Michel’Angelo Marisi.”
Ancora il Merisi, circa un anno dopo, scrive:
“Io Michel Angelo da Caravaggio son contento e satisffatto dil quadro ch’io ho dipinto alla compagnia di S.ta Ana!. in fede o scritto e sotto scritto questa il dì 8 aprile 1606.”
Da queste poche righe si comprende bene come il Merisi avesse assimilato, quanto meno a grandi linee, le formule rituali di compilazione dei documenti relativi alle commissioni e alle vendite dei propri lavori, sebbene appaia evidente che l’aspetto “formale” del testo si presenti piuttosto semplice, privo di locuzioni ricercate, ma assolutamente congruo e soprattutto idoneo al contesto. Nessun passaggio in latino, a testimoniare che il percorso di studi seguito dal Caravaggio, molto probabilmente non ne contemplava lo studio in quanto non estremamente necessario alla professione; come invece era previsto – ad esempio – per la carriera ecclesiastica intrapresa dal fratello Giovan Battista. Peraltro il latino veniva utilizzato maggiormente per la compilazione di documenti ufficiali, commerciali, notarili o giudiziari, e comunque da personaggi appartenenti alle fasce sociali medio-alte, o professionisti espressamente istruiti a quelle particolari mansioni. Né pare fosse insolito, anzi sembra essere prassi assodata, che un documento ufficiale venisse stilato per iscritto utilizzando sia il latino che il volgare. Ne abbiamo chiara prova in tutti i documenti d’archivio che riportano gli interrogatori a cui fu sottoposto il Caravaggio, e gli stessi atti del processo del 1603 dove, alle domande degli inquirenti riferite in latino, le risposte del Caravaggio e degli altri indagati sono riportate in volgare. Perfino nel contratto di affitto stipulato tra Caravaggio e la sua padrona di casa, Prudenzia Bruni, nel passaggio in cui si accenna a una specifica richiesta del Merisi, possiamo leggere:
“[…] dictum dominum conductorem presentem etc. quietavit, cum pacto etc. et quia dictus dominus conductor intedit ut dicitur «scoprire la metà della sala»”
Intenzioni redatte ufficialmente in latino, richiesta specifica del locatario espressa come egli stesso la formulò, ossia in volgare. Appare chiaro, dunque, che il livello e la qualità dell’istruzione fossero specificamente orientati alla professione, o comunque al ruolo, che il singolo individuo avrebbe condotto, e che i diversi livelli di conoscenze coesistessero, nell’amministrazione della quotidianità, come normale consuetudine.
Possiamo, quindi, in coscienza affermare che il Caravaggio fosse un rozzo provinciale ignorante? Certamente no. Come molti, nel suo tempo, aveva seguito un percorso di studi finalizzato al mestiere che aveva deciso di intraprendere e, anzi, possiamo ragionevolmente desumere, che egli ebbe la lungimiranza di allargare i propri orizzonti culturali assimilando tutto ciò che lo incuriosiva e riteneva utile alla miglior riuscita della sua professione; e questo sia nelle sue esperienze di bottega sia nelle sue frequentazioni più altolocate.
Proprio nei periodi di permanenza presso i palazzi dei suoi colti committenti, il Caravaggio ebbe certamente modo di apprendere anche le nuove scoperte e gli studi di ambito scientifico, che possiamo immaginare fossero oggetto delle conversazioni che si tenevano, ad esempio, a Palazzo Madama tra il cardinal del Monte, il fratello matematico Guidobaldo e i loro illustri ospiti, tra i quali perfino Galileo Galilei. Discorsi che avrebbero potuto esprimere quella tendenza sempre più manifesta verso un metodo di indagine della natura “scientifico-sperimentale”, di cui Leonardo può essere considerato figura di spicco nel Rinascimento, e che proprio Galileo portò avanti strenuamente, scontrandosi con i dogmi ecclesiastici, fino patirne le estreme conseguenze. E sono ancora una volta le opere del Merisi a testimoniare le influenze e le sperimentazioni che, dall’ascolto di quelle dotte conversazioni, si generarono. I famosi “quadretti da lui nello specchio ritratti” di cui riferisce Baglione nella sua biografia del maestro lombardo, attestano l’interesse dell’artista per le nuove scoperte nel campo dell’ottica, che egli quasi certamente sperimentò, e con profitto, sviluppando progressivamente la sua tecnica luministica e compositiva, nella sua vasta produzione pittorica, per tutto il tempo in cui fu attivo.
Lo Scudo con testa di Medusa (fig. 12), i due Bacco, Giove, Nettuno e Plutone – e si potrebbe continuare – sono solo i primi lavori dai quali si può presumere che il Caravaggio avesse fatto uso di specchi per ritrarre le sue figure.
I dipinti del Caravaggio – inoltre – testimoniano quanto il genio del maestro lombardo, che ambiva a collocare i propri lavori nelle sale delle più nobili corti romane, avesse saputo, in un certo senso, anche “mediare” tra le caratteristiche salaci della cultura letteraria e artistica lombardo-veneta che aveva assorbito e in cui si era primariamente formato, e le esigenze “estetiche” e ricercate degli ambienti aristocratici ed ecclesiali più colti della capitale pontificia. Nei dipinti del Caravaggio, infatti, e già in quelli del primo tempo romano, si nota proprio questa intenzione specifica dell’artista di mitigare gli aspetti più “ordinari” della temperie artistica naturalista del suo territorio di provenienza, in cui immagini tratte dalla quotidianità venivano espresse in maniera spesso molto “verace” e quasi grossolana, ammantandoli di una certa raffinatezza e preziosità, anche iconografica, sia nella trattazione delle figure umane che nella interpretazione generale del soggetto o della scena dipinta. Perché il maestro lombardo sapeva bene che le sue opere, così prodotte, avrebbero incontrato sicuramente maggior apprezzamento in quei contesti colti a cui egli ambiva.
Dal Fanciullo con canestra di frutta alla Buona ventura, dal Bacco degli Uffizi alle due redazioni della Cena in Emmaus, passando per le scene più truculente del già citato Scudo con testa di Medusa o della Giuditta di Palazzo Barberini (fig. 13), il Caravaggio non cede mai al grottesco, non scade mai nel triviale, non eccede mai nell’indecoroso come spesso, invece, denunciano tendenziosamente i suoi biografi. C’è sempre un’aura “nobile” che avvolge le sue scene e i suoi personaggi, anche quelli dalle fattezze meno aggraziate, riuscendo in tal modo perfino a enfatizzare il dramma. Risulta evidente che, per quanto i modelli popolani vengano raffigurati in maniera assolutamente conforme al vero, l’abilità tecnica nell’uso del colore e della luce, le fattezze per così dire addolcite anche nei volti più sgraziati, e i palesi riferimenti letterari o mitologici sapientemente inseriti nelle scene, fa di quei dipinti del Caravaggio dei capolavori assoluti di altissima intelligenza e perspicacia artistica; nonché la prova imperitura che il maestro lombardo avesse saputo fare tesoro e mettere efficacemente a frutto, tutto il bagaglio di conoscenze che nel corso della sua breve vita aveva assimilato, ottenendone uno strameritato successo che perdura fino ai giorni nostri.
Francesca SARACENO, Catania 4 Settembre 2022
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA: