di Francesco PETRUCCI*
*Questo scritto costituisce una parte del saggio introduttivo di Francesco Petrucci alla mostra Sulle tracce del brigante Antonio Gasbarrone detto “Gasperone”, in corso ad Ariccia, Palazzo Chigi, fino al 21 novembre 2021, organizzata in collaborazione con l’Associazione Brigante Gasbarrone di Sonnino (fig. 1). Ringraziamo l’autore per aver cortesemente concesso la pubblicazione.
Il brigantaggio sui Colli Albani
È noto l’editto di Sisto V (1585-1590) che stabiliva taglie di 300 e 500 scudi a chi avesse consegnato vivo o morto un brigante, oltre al condono di ogni pena al delatore, tanto da essere ricordato come il papa che “tagliava la testa ai briganti”. Non a caso un “avviso di Roma” del settembre 1585 riportava che “Quest’anno si sono viste più teste a Ponte [Sant’Angelo] che meloni sul mercato”.[1]
Sebbene le principali bande provenissero dal basso Lazio, al confine con lo Stato Borbonico, tra i Monti Lepini e i Monti Ausoni, anche i Castelli Romani furono coinvolti in numerosi episodi di taglieggiamento. Frequenti erano gli scontri con i dragoni pontifici lungo la via Appia fino al confine dello stato, presso Terracina, illustrati emblematicamente da un celebre dipinto di Horace Vernet (Baltimora, Walters Art Gallery) (fig. 2).
Brigantaggio ai Castelli Romani tra ‘500 e ‘600
Il territorio dei Colli Albani e Tuscolani, coperto da folti castagneti e boschi misti di latifoglie che cingevano i vari borghi arrampicati sulle alture, fu ampiamente partecipe al fenomeno, soprattutto lungo la via della Faiola (attuale via dei Laghi). Molto pericolosa era anche la strada postale per Napoli, in buona parte coincidente con l’Appia antica e sue varianti locali, percorsa da facoltosi borghesi e viaggiatori stranieri che frequentavano le dimore patrizie della zona o si recavano nel meridione.
Impervi e con folte selve oscure erano in particolare il tratto ariccino dopo Albano (fig. 3), prima dell’apertura dei ponti di Pio IX (1854), e quello tra Genzano, Lanuvio e Velletri, ideali per imboscate e assalti alla diligenza.
Rocca di Papa e Rocca Priora, i borghi più alti della zona, emergenti tra estese foreste e dominanti l’intero territorio del Vulcano Laziale, erano luoghi di rifugio e protezione delle bande.
Un avviso del 6 gennaio 1594 dimostra la drammaticità della situazione e i drastici provvedimenti presi dal governo sistino:
“Per causa del banditismo sono stati questa settimana condotti prigioni la maggior parte degli huomini di Rocca Priora con le loro mogli e sino li putti piccoli in fascia poi che si è ritrovato che la detta gente teneva intelligenza di detti banditi e li somministrava quanto faceva bisogno per loro vitto e vestito”.
Le connivenze erano generalizzate![2]
Due “taglie” emanate ad Ariccia nel 1653, quando il feudo era ancora sotto la giurisdizione del principe Giulio Savelli, prima dell’acquisto da parte dei Chigi nel 1661, riportano la memoria del sanguinario brigante “Feliciotto”, rammentando l’attualità all’epoca del problema e la durezza dei sistemi repressivi in vigore.[3]
Il primo editto riporta:
“D’Ordine dell’Ill.mo et Ecc.mo Sig.r Principe Savelli
Per liberare il nostro stato e vassallaggio da un pestifero contagio e da mille altri mali che potesse in qualsivoglia modo apportare con praticare per questi territori Giuseppe Pozzi figlio di Felice Pozzi alias Feliciotto della Riccia Bandito capitalmente condannato come per sentenza e per cooperare, che il medesimo bandito pervenghi in possesso della giustizia vivo o morto; pertanto S. E. impone una taglia di scudi cento moneta da pagarsi subito di contanti à quello, che presenterà d.o Bandito vivo ò la sua testa in potere della Giustizia per tutto il 19 del presente mese di Agosto e doppo le 19 d. mese e per tutto il medesimo mese durante se li pagheranno solo scudi cinquanta subito senza alcuna rimessa.
In fede dato nella Riccia questo di 8° Agosto 1653
-
P. Alari Cancelliere”
Gli effetti della taglia si fecero sentire immediatamente se il successivo 8 settembre, ad un solo mese di distanza, comparve un secondo inquietante editto:
“Di ordine del molto illustre e molto Eccellente Signore Governatore della Riccia
Si proibisce à tutte e singole persone che non ardischino sotto qualsivoglia pretesto di levare o in qualsivoglia modo far levare, ò toccare la testa di Giuseppe Pozzi figlio di Felice alias Feliciotto della Riccia bandito capitale assassino di tre omicidi di qualità esposta nel frontespizio della Residenza di d.o Sig.r Governatore in una gabbia di ferro impressa nel muro ad esempio di facinorosi, et altri simili homicidi, et assassini, sotto la pena di cinque anni di galera e di scudi 200 moneta per ciascheduno d’applicarsi alla Camera di S. E. e si procederà contro i trasgressori ex officio per inquisizione et in ogni altro miglior modo et si crederà ad un semplice testimonio con giuramento et il presente affisso autorizzerà ognuno.
In fede nella Riccia questo di 8 sett. 1653
Francesco De Angelis Gov.re
- P. Alari Canc.e”
I briganti della Faiola
La “Macchia della Faiola”, attraversata dall’antica via Latina, tra il Maschio d’Ariano, il Monte Artemisio e il passo dell’Algido, estesa fino ai margini dei due laghi, era covo di briganti, luogo di rapine e assalti al viaggatore, spesso degeneranti in omicidi (fig. 4).
Qui la banda dei briganti della Faiola, che per un periodo sarà capeggiata dallo stesso Gasbarrone, imperversava, come testimoniano le tante pene capitali eseguite dal famoso “Mastrotitta”, meglio noto come “er boia de Roma” e al secolo Giovan Battista Bugatti, attivo tra il 1796 e il 1864.
Tra gli affiliati di Gasbarrone c’era tal Tommaso Transerici di Rocca Priora detto “il Maghetto”, suo Luogotente.[4]
È il boia stesso che racconta l’esecuzione capitale eseguita nel 1816 a piazza del Popolo, di fronte ad una folla accorsa numerosa:
“Grandissimo rumore suscitò invece l’esecuzione che ebbi a compiere ai 18 del susseguente mese di marzo, nelle persone di cinque banditi, arrestati nella celebre macchia della Faiola, dalla quale avevano preso il nome; che dura proverbiale tuttora e durerà quanto il tempo lontano: I briganti della Faiola. N’era capo Vincenzo Bellini; i compagni suoi Pietro Celestini, Domenico Pascucci, Francesco Formichetti, Michele Galletti.”
I briganti erano un’attrazione per tutti, soprattutto per gli artisti. Bellini
“Vestiva alla ciociara, come gli altri, ma non senza qualche eleganza ed in volgendo dal palco uno sguardo sulla folla, vide parecchi artisti, ed alcune dilettanti inglesi, che sbozzavano la scena e i ritratti, colla matita sui loro albums.”
Lo stesso Mastro Titta ci informa sulle modaltà della cattura:
“Come mai era avvenuto l’arresto di quella famosa banda di briganti, che avendo per base delle sue operazioni e il ricovero abituale, quasi inaccessibile, nella macchia della Faiola, aveva per tanto tempo desolati i dintorni di Roma e dei Castelli fino oltre Velletri, aggredendo viaggiatori, corriere pubbliche, diligenze, vetture private, operando sequestri di persone e ricatti d’ogni maniera? Un terribile dramma, ch’ebbe il suo epilogo ai piedi del patibolo, la mattina del 18 maggio, può solo spiegarlo. Forse, senza esso, né Vincenzo Bellini, né i suoi avrebbero mai salito le forche pontificie.”
Infatti il governo pontificio
“scosso dalle continue lagnanze che gli giungevano dalle potenze estere per le pessime condizioni della sicurezza pubblica nei dintorni di Roma, che mettevano a repentaglio la vita e gli averi dei forestieri, come e più di quella dei cittadini, si era deciso ad intraprendere una campagna brigantesca, ed a condurla con la massima energia. Furono ordinate pattuglie di soldati, guidate da esperti agenti, cogniti dei luoghi e rotti a tutte le malizie dell’arte malandrinesca e fu dato come per obbiettivo principale il bosco della Faiola. La macchia fu perlustrata palmo a palmo, senza alcun risultato […].”
Ma un giorno il brigante, nel timore di essere catturato dalle guardie giunte presso il suo rifugio, uccise in un impeto d’ira il pargolo della sua amante, “una formosissima velletrana, dagli occhi incandescenti, dalle forme piene e tondeggianti”, che piangeva. La donna per vendicarsi denunciò la banda e la fece catturare svelando il luogo ove si nascondeva.[5]
Fra’ Diavolo sui Colli Albani
Nel 1799 vediamo comparire nel territorio dei Castelli Romani una figura ben nota: Michele Pezza detto “Fra Diavolo” (Itri 1771 – Napoli 1806), già celebre brigante, riciclatosi come “comandante generale” dell’esercito borbonico, il quale iniziò ad effettuare in zona con metodi briganteschi razzie e ruberie d’ogni tipo.
Entrato in Velletri il 29 agosto 1799, ordinò confische di vino e derrate alimentari, poi stabilì ad Albano il suo quartier generale sui Colli Albani. Qui il 15 settembre dispose la fucilazione del sindaco, ordinando un saccheggio generalizzato esteso alla popolazione abbiente della cittadina: “Ogni brigante al suo ritorno ad Itri portò oro, argenterie, gioie e tele finissime, libri di gran vaglia” e persino bestiame.[6]
Il successivo 17 settembre il Pezza, fra soprusi e prepotenze, per le quali sarebbe stato successivamente arrestato dagli stessi Borboni, ordinò al possidente ariccino capitano Pietro Alberti di rendere disponibile “tutto il vino che ritiene nelle grotte di Ariccia”, pur avendole già vendute. Il 18 settembre “caricò quel generale per le sue truppe botti 5 di vino di barili 16 l’una, per forza, dicendo il tutto per ordine di S. M. Siciliana, e benché detto vino fosse già venduto agli osti di Roma al prezzo di sc. 10 il barile; e con due ricevute lo fece caricare”.
Il 24 settembre è lo stesso Fra Diavolo a convocare invece presso Palazzo Chigi in Ariccia il “pubblico e generale Consiglio delli Uomini 40” al fine di eleggere i quattro Priori. Un convegno tenuto nella Sala Maestra e presieduto dal brigante-generale[7]
Suo luogotenente era il poco raccomandabile partigiano sanfedista Antonio Caprara, insignito dai Borboni del titolo baronale nonostante il nipote del cardinal Borgia in una cronaca manoscritta veliterna lo descrivesse in termini non certo lusinghieri:
“il famoso Fra Diavolo, brigante fuoriuscito, omicidario imbastaro di professione, che davasi titolo di generale, avendo come capo dei briganti un tale Antonio Capraro, alias senza culo, uomo villano, ignorante, mulattiere e facchino di professione e si intitolava comandante”.[8]
Insomma un brigante che continuava imperterrito a fare il suo mestiere, ma con la patente legalizzata di ufficiale borbonico. Questo fino ad essere giustiziato per impiccagione a Napoli dai francesi, l’11 novembre 1806.
Brigantaggio post giacobino sui Castelli Romani
Le cadute della prima Repubblica Romana (1798-99) e della Repubblica Napoletana (1799) furono seguite da fatti delittuosi e crudeli vendette, in conseguenza anche della congiuntura economica particolarmente sfavorevole con il dilagare della disoccupazione, le carestie ed il proliferare delle tasse. La coscrizione obbligatoria imposta da Napoleone causò ribellioni in massa e le montagne del Lazio meridionale si popolarono di disertori, ricercati dalle truppe francesi di occupazione. Nella sola regione dello Stato Pontificio meridionale si contavano decine di bande, alle quali si aggiungevano migliaia di disertori e reduci dai recenti conflitti, provenienti dai vari eserciti allo sbando.
Ai renitenti alla leva si erano aggiunti comuni avanzi di galera e disoccupati, che, riuniti in bande più o meno grandi, rendevano particolarmente infido il percorso attraverso i boschi della Fajola e lungo la via Appia da Roma a Napoli.
Lo scrittore tedesco Johan Gottfried Seume (1763-1810) racconta nelle memorie del suo viaggio in Italia del 1802 di aver subito una sola aggressione, proprio ad Ariccia – tra l’altro esaltata per la bellezza del paesaggio -, ed annotò: “gli abitanti di queste parti godono però fama d’insuperabili banditi.”
Il Seume ricorda che, dopo essere sceso dalla carrozza su invito del postiglione che voleva stringere i freni, si addentrò nella selva presso il Santuario di Galloro, in fondo alla discesa della strada postale per Napoli, tra Genzano ed Ariccia. Sotto Colle Pardo l’incauto viaggiatore fu assalito da quattro banditi con finte barbe ed il viso annerito, che lo depredarono.[9]
D’altronde il 30 ottobre del 1802 il principe Agostino Chigi segnala nel suo diario:
“Questa mattina verso le 15 al fontanone di Galloro è stato assalito e spogliato un galantuomo di Maenza che se ne andava verso Roma”.
Si trattava della stessa località e certamente della medesima banda.[10]
Rapimenti e riscatti
Nel 1817 il brigante Giuseppe de Cesaris di Prossedi organizza, con la collaborazione del “Maghetto” di Rocca Priora, il rapimento di Luciano Bonaparte principe di Canino nella villa Rufinella di Frascati. L’impresa tuttavia si rivela un fallimento: per errore viene rapito Charles de Châtillon, pittore e segretario del principe, che viene poi liberato riducendo il riscatto da 3000 a 500 scudi.[11]
Uno degli eventi più clamorosi fu il rapimento il 10 maggio 1821 di otto monaci camaldolesi dell’Eremo Tuscolano presso Monte Porzio Catone, lasciandone in convento uno solo di cento anni, perpetrato da una banda capeggiata dal brigante Nicola Ridolfi di Patrica e ideata dal celebre brigante Massaroni, chiedendo un riscatto per la liberazione (fig. 5).
I poveri monaci, alcuni in età avanzata, furono costretti a seguire i rapitori in una lunga fuga, tra la macchia della Faiola, le alture sopra Montefortino, oggi Artena – altro noto centro del brigantaggio -, i Monti Lepini, gli Ausoni, fino alla loro liberazione presso Sonnino.[12]
Questo percorso, accuratamente descritto in una relazione manoscritta dell’evento nell’archivio dell’Eremo Tuscolano, era quello intrapreso dai briganti e da Gasbarrone. Un tragitto tutto montano, lontano dalle strade consolari, inaccessibile a truppe regolari.
Aspiranti briganti
A prescindere dai Briganti, i fatti delittuosi erano particolarmente frequenti, anche con delitti d’onore e d’amore. In data 7 ottobre 1816, Agostino Chigi registra nel suo diario:
“nel ritornare ieri sera da Albano due donne Genzanesi madre e figlia, giunte ai due cancelli furono ferite con molti colpi di coltello da un giovane pure Genzanese p. gelosia della figlia. Condotte all’Ariccia in casa del chirurgo vi hanno passato la notte”.[13]
Il fenomeno era talmente diffuso, che oltre ai briganti di professione c’erano però anche quelli praticanti il banditismo come attività collaterale, a tempo perso, quasi per hobby. Lo ricorda un atto processuale del 1859 conservato nell’archivio del Palazzo Chigi di Ariccia, dal titolo “Grassazione e danno del Principe Don Francesco Chigi. Sul conto di Pucci Gaspare Cimini Gioacchino”, entrambi di Genzano
Il documento riporta:
“Confessò il Cimini, che, il giorno 15 del passato ottobre esso ed il Pucci, circa l’ora di colazione, partendo dalla capitale, ov’erano stati a lavorare nelle vigne, presero la Via di Frascati, con animo di commettere qualche grassazione. Giunti che furono sopra Monte Gentile, incontratisi con un uomo a cavallo, armati ambedue di coltello, lo aggredirono, chiedendogli denaro. Ch’esso confitente n’ebbe una borsetta mezza lacera, in cui erano 11 ½ o 12 paoli […] mentre il Pucci tolse al predetto Cavaliere un oriuolo d’argento a saponella. Che indi essendo partito l’aggredito, essi inquisiti, divisa fra loro la preda, continuarono il cammino […]”.
Secondo la versione del Chigi:
“Partito egli a cavallo il 16 del passato ottobre, alle ore 2 pomer., dall’Ariccia, si diriggeva per diporto per la strada detta il capannone, entro la macchia. Giunto una mezz’ora dopo circa, in un luogo di detta macchia, e precisamente pochi passi prima di arrivare alle tre strade, l’una delle quali volge ai cappuccini di Genzano, l’altra a Nemi, la terza a Rocca di Papa, incontrassi con due incogniti. Questi come furongli presso, dicendo zitto zitto monsieur e l’un d’essi preso il cavallo per la briglia, raggiunsero ch’erano due disperati, che avevano bisogno, e perciò avesse dato loro, ciò che teneva. Mentre alle sue preghiere lasciarono il cavallo, temendo egli che non s’impennasse, l’un d’essi disse al compagno. Fategli vedere. Questi, ch’era il più alto, cavato allora un coltello a uno scrocco, lungo oltre un palmo e mezzo fra lama e manico, il quale era di osso nero, lo aprì. Ciò visto, esso aggredito soggiunse non esserne mestieri, poiché dato avrebbe quello che aveva […] Soggiunse che, tranne quel coltello, esso aggredito, niun’altra arme vide. Quanto all’orologio essere di argento, con ripetizione e sveglia, molto alto e grosso, con doppia cassa di argento, di Ginevra”.[14]
Il Brigante Gasbarrone
Il brigante più celebre era Antonio Gasbarrone, detto “Gasperone” o “Gasparone” (Sonnino, 12 dicembre 1793 – Abiategrasso, 1° aprile 1882), tanto che dopo la sua resa nel 1825, con la promessa di una falsa amnistia da parte del governo pontificio (“uno scherzo da preti!”), il fenomeno ebbe una sostanziale tracollo, con parziale e limitata ripresa nello Stato Pontificio dopo l’Unità d’Italia (figg. 6-9).
La mostra di Ariccia dedica ampio spazio alla sua leggendaria figura, attraverso documenti, incisioni e una serie di pannelli biografici […].
Francesco PETRUCCI, Ariccia, 24 ottobre 2021
NOTE