di Paolo Erasmo MANGIANTE
La recente osannata riapparizione dell’Apollo del Belvedere dopo un lungo e accurato restauro non deve farci dimenticare che se oggi possiamo goderci appieno la strabiliante bellezza di questo capolavoro della scultura antica lo dobbiamo principalmente all’opera di Giovanni Angelo Montorsoli (Firenze, 1507 – 1563).
Spesso non si fa tanto caso ai restauri rinascimentali della sculture classiche, anche se non di rado erano opera di egregi scultori, perché distratti dalla vetustà dell’opera intera. Nell’ultima visita al Museo Thyssen Bornemisza di Madrid la Venere del Delfino, replica romana della scultura ellenistica laVenere Capitolina con la variante di un delfino appoggiato a una sua gamba, abbondantemente restaurata nella sua porzione inferiore (fig.1), ha destato la mia più viva attenzione proprio per questo suo rifacimento. (fig.2).
Al momento del dissotterramento dal sito dei Decii a Roma la statua doveva presentarsi monca delle gambe e del delfino annesso che fungeva da sostegno dell’intera scultura la cui presenza era denunciata da un avanzo della sua coda adesa alla coscia sinistra della dea come denunciano le giunture dell’opera originale con la porzione restaurata a livello delle ginocchia e della coda del delfino (fig.2), in condizioni quindi assai più precarie ad esempio dall’Afrodite Braschi in cui la funzione di supporto era sostenuta da un vaso anzicchè da un delfino (figg.3,4) e poichè in quello stato la statua non si reggeva neppure in piedi, il suo laborioso restauro fu affidato ad un valente scultore. Ma chi fu l’artista a compiere il miracolo? Perché di un artista più che valentuoso certamente si tratta e il nome che per primo viene alla mente è quello di fra’ Giovanni Agnolo Montorsoli.
Nella vita del Montorsoli tracciata dal Vasari apprendiamo infatti che quando Michelangelo fu chiamato a Roma da papa Clemente VII per approntare la facciata della chiesa di San Lorenzo, il Pontefice gli chiese di fornirgli
“un giovane che restaurasse alcune statue antiche di Belvedere che erano rotte” Per cui “il Buonarroti, ricordatosi di fra’ Giovann’ Agnolo, lo propose al Papa, che lo richiese subito al generale dell’Ordine dei Servi… che glielo concesse”.
Giunto a Roma il Montorsoli fu sistemato nel Belvedere dove si mise all’opera per restaurare opere celebri come l’Apollo del Belvedere a cui rifece il braccio sinistro e il Laocoonte a cui rifece il braccio destro e altre fra cui l’Ercole che si trovava in quel luogo. La fama procacciatasi con i restauri papalini del Belvedere assicurò all’artista altre commissioni simili, fra cui probabilmente anche quella della Venere del delfino qui considerata.
La suggestione che il restauro della Venere del delfino possa essere stata opera del Montorsoli non è legata solo alla citazione del Vasari sulla sua bravura in questa attività di restauro, così lodata anche da Clemente VII e da i suoi contemporanei, ma soprattutto al fatto che nella figura di Nettuno che capeggia la fontana a lui dedicata a Messina (fig.5) il frate, ricordandosi del restauro fatto a Roma, abbia replicato alla lettera il motivo del delfino appoggiato alla gamba della sunnominata Venere del Delfino (fig.6).
L’esame dettagliato dei particolari anatomici, occhi, narici e bocca, dei delfini appogiati alle gambe rispettivamente della Venere e del Nettuno e quel loro particolare aspetto quasi corucciato non fa che confermare la suggestiva ipotesi che essi siano opera dello stesso artista, Giovanni Angelo Montorsoli.(figg.7,8).
Nè vale obbiettare che il corpo del delfino del Nettuno messinese non sia squamoso mentre quello restaurato abbia il corpo rivestito di squame in continuità al frammento originale, perché tale caratteristica Montorsoli nella fontana del Nettuno l’ha riservata non tanto al delfino che del resto in natura ha il corpo liscio (fig,9);
quanto ai corpi di Scilla e Cariddi i due mostri antropomorfi della stessa fontana in cui andava sottolineata la natura marina (fig.10).
Paolo E. MANGIANTE Genova 20 Ottobre 2024