di Francesca SARACENO
A 53 ANNI DALLA SCOMPARSA DEL GRANDE STORICO DELL’ARTE: IL CARAVAGGIO DI ROBERTO LONGHI. UNA LETTURA MAI “SUPERATA”.
Se oggi Michelangelo Merisi da Caravaggio è la stella incontrastata, oggetto del desiderio, croce e delizia degli storici dell’arte italiani e non solo, lo si deve in gran parte e senza dubbio alla passione e alla lungimiranza di Roberto Longhi (Alaba, 28 dicembre 1890 -Firenze, 3 giugno 1970, fig. 1); uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento, nonché pietra miliare e colonna portante dell’intera storiografia caravaggesca moderna.
La Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi allestita a Palazzo Reale a Milano e inaugurata il 21 aprile 1951, di cui Longhi fu curatore nonché coordinatore tecnico del Comitato per la scelta delle opere, fece da volano alla fortuna critica che il maestro lombardo riuscì finalmente a ottenere, con unanimità di consensi, dopo i quattro secoli di ingiusto oblio a cui era stato costretto da una lettura falsata e preconcetta della sua vicenda personale e professionale. La grande mostra di Milano (che inconsapevolmente – dacché il Merisi si credeva nato nel 1573 – celebrò i 400 anni dalla nascita del pittore) fu anche occasione per fare il punto sulle conoscenze storiografiche fino ad allora acquisite, rispolverare biografie e documenti, riconsiderare attribuzioni e addirittura inserire nuove opere nel corpus dell’artista (la Salomè oggi a Madrid, inserita poco dopo l’inaugurazione, e la Giuditta di Palazzo Barberini, che venne riconosciuta autografa da Longhi e inserita in mostra, fuori catalogo, proprio in extremis nel luglio del 1951). Un lavoro enorme che però diede il via, con rinnovato entusiasmo e consapevolezza, a una nuova era di ricerche che si protrae fino ai giorni nostri e che, mattone dopo mattone, costruisce a ogni scoperta, a ogni nuovo contributo critico, una storia umana e artistica affascinante come poche.
Sulla scorta dell’enorme successo di quella magnifica esperienza espositiva Longhi concepì il volume “Il CARAVAGGIO” che, pubblicato nel 1952 da Martello, e poi in seconda edizione ampliata nel 1968 dagli Editori Riuniti, divenne il fondamento teorico e metodologico per la successiva attività critica e per gli studi sull’artista lombardo in generale. La monografia seguì lo studio di Longhi su I caravaggeschi, pubblicato nel 1928, e soprattutto gli Ultimi studi su Caravaggio e la sua cerchia del 1943, dal quale il percorso espositivo della mostra milanese prese forse la traccia strutturale. E da entrambe le pubblicazioni già emergeva in tutta la sua portata innovativa una visione profonda e analitica del “fenomeno Caravaggio” e di ciò che aveva rappresentato per l’arte del Seicento; visione che si rifletterà nell’organizzazione della mostra milanese nel cui allestimento, non a caso, furono predisposte ben 11 sale con opere di artisti che del maestro lombardo avevano assimilato e rielaborato la lectio stilistica.[1]
Chiunque si accosti al genio di Michelangelo Merisi, ancora ai giorni nostri, non può prescindere dalla visione lucida e insieme appassionata di Roberto Longhi; oggi, più che mai ne sono convinta. Perché, se lo sguardo dello storico piemontese, alla luce delle conoscenze odierne, può essere ritenuto “datato”, o addirittura superato, è pur vero che quando si inizia uno studio bisogna cominciare dalle basi; e per quel che riguarda la lettura “moderna” del Caravaggio, quella scevra dai condizionamenti della critica crociana, la “base” è assolutamente Roberto Longhi.
A chi scrive, invece, è capitata “l’anomalia” di leggere Longhi (ed. 1968) ben oltre l’inizio dei propri studi caravaggeschi, e l’approccio è stato quello di chi si mette davanti a un gigante della storia dell’arte, a testa bassa e con un enorme senso di colpa: quello d’averlo letto in ritardo. Con il timore, peraltro, di non cogliere interamente il valore del suo lavoro, proprio a causa del possibile involontario preconcetto indotto dagli studi più recenti e aggiornati. Per poi scoprire, con mia enorme meraviglia, che quelle pagine così lontane nel tempo, non solo erano tutt’altro che “superate”, ma avevano in serbo soprese non indifferenti che, senza il filtro delle conoscenze fin qui acquisite, probabilmente sarebbero sembrate irrilevanti. Invece oggi so che una lettura critica del testo di Longhi può – ancora adesso – offrire spunti di riflessione e rendere più chiare le origini e le cause di questioni che, a tutt’oggi, animano il dibattito sulle vicende del maestro lombardo.[2]
Quello che, fin dalle prime righe del testo di Longhi, colpisce il lettore è certamente la sua scrittura. Qualcosa di meravigliosamente spavaldo, ricercato ma senza mai risultare stucchevole, e per questo decisamente significativo. Una padronanza di linguaggio che fa impallidire la più colta narrativa moderna. Quella di Longhi è una lingua italiana d’altri tempi, “creativa” eppure eloquente, che fa rimpiangere una scuola e una programmazione didattica ormai prosciugate del loro valore culturale e sociale. Ma questa è un’altra storia… o forse no. Forse no, perché proprio la profonda conoscenza e padronanza della lingua italiana di Longhi, e la sua capacità di espressione narrativa, non sono e non possono essere responsabili delle tante distorsioni che, nel tempo, si sono prodotte dalla lettura del suo testo (come di altri). Ma ci arriveremo.
Insieme all’esposizione particolarmente ricercata, il racconto di Longhi è disseminato di metafore e accostamenti frutto di ampia cultura che, lungi dal risultare ridondanti, hanno invece il pregio di esaltare – e in qualche caso rivelare – l’unicità e la modernità della pittura del Caravaggio. Basti pensare a come – in maniera acutissima – lo storico piemontese avvicini l’invenzione, o meglio la mise en scene, del Bacco degli Uffizi, a una “tanto più vicina a noi, la Barista di Manet al banco di zinco delle Folies Bergère” (fig. 2).
Oppure quando paragona la scena della Presa di Cristo nell’orto, costruita “entro l’orrore notturno”, a certe atmosfere del Macbeth shaekspeariano. Fino a un’apoteosi concettuale che evoca addirittura “La partita a scacchi” di Thomas Eliot per descrivere il contesto psicologico e “l’appello creato dalla folata di luce radente, che penetra nello stanzone” della Vocazione di San Matteo.
Come accennavo, nell’ambito degli studi caravaggeschi odierni, è facile cedere alla logica di ritenere Longhi “superato”, perché scrisse la sua disamina sul maestro lombardo in un momento in cui non erano ancora state fatte tutte quelle scoperte storiografiche e documentarie, nonché i progressi tecnico-scientifici, che oggi hanno chiarito non pochi dilemmi sulla vita e l’attività artistica del Caravaggio; dunque non sono certo da biasimare – ad esempio – alcune attribuzioni dubbie, omissioni o datazioni errate, a partire dalla data di nascita dell’artista che per Longhi era il 1573, o il suo arrivo a Roma intorno al 1590, e con esse la collocazione del pittore presso le varie botteghe e l’esecuzione delle sue prime produzioni artistiche, per forza di cose cronologicamente arretrate.
Ma un grande merito dell’analisi longhiana è, a mio parere, l’arguzia con cui ha saputo esaminare particolari delle maggiori biografie del Caravaggio (quelle di Baglione e Bellori su tutte, ma anche le considerazioni di Mancini e Giustiniani, ad esempio, come di altri autori europei), cogliendone non solo le contraddizioni e l’evidente faziosità, ma traendone non pochi guizzi di intelligente lettura critica.
Tra le tante osservazioni longhiane che si sono consolidate nel tempo c’è quella, per buona parte condivisibile, che vede il giovane Caravaggio giungere nella capitale pontificia in non floride condizioni economiche, che si protrassero almeno per il primo periodo di servizio presso benefattori e bottegari di non troppa fama; ma mentre riporta le condizioni miserrime dell’artista, tal quale narrato nelle maggiori biografie, Longhi non tralascia però di rilevare, con estrema lucidità, che le produzioni pittoriche di questo periodo, eseguite spesso per pagare soggiorni e cure mediche, dovevano mostrare una consapevolezza stilistica già evidente nel Caravaggio, se – ad esempio – il priore dell’Ospedale della Consolazione decise di portare con sé in Spagna i dipinti di un giovanissimo, sconosciuto e squattrinato pittore lombardo. Segno che la qualità esecutiva e concettuale di quelle prime tele risultava già fortemente d’impatto.
E oggi noi sappiamo (allo stato attuale delle conoscenze documentarie) che quelle tele avevano già uno spessore artistico evidente perché il pittore, verosimilmente, le eseguì non prima del 1595-1596, cioè quando aveva circa 25 anni, e alle spalle una gavetta di almeno otto anni, dalla fine del suo apprendistato presso Simone Peterzano. Il che spiega come quelle prime opere romane presentassero già una maturità tecnica ed espressiva notevole e, in un certo senso, ridimensiona – seppur in minima parte – quell’aura di “misteriosa” genialità che anche la presunta giovanissima età del pittore contribuiva a nutrire.
D’altra parte Longhi ha appena finito di individuare i motivi di tale subitaneo apprezzamento, elencando – a ragione, sebbene senza considerare il ragionevole lasso di tempo necessario per assimilarle – quelle che erano state le prestigiose radici artistiche del Caravaggio: Savoldo, i fratelli Campi, Figino e perfino un Annibale Carracci non ancora “romanizzato”, quello della Pietà con i santi Chiara, Francesco e Maria Maddalena (fig. 3), oggi alla Galleria Nazionale di Parma che, secondo lo storico piemontese, tornerà in mente al Caravaggio quando sarà il momento di mettere in posa la sua Vergine per la pala d’altare di Santa Maria della Scala (e osservando il dipinto non si può che convenirne)[3].
E nonostante neghi un possibile soggiorno veneziano con annessi studi dei maggiori artisti locali – oggi invece grandemente rivalutato – non si può rimanere indifferenti, meno che mai dissentire, quando riferisce le attinenze con alcune scene del Moretto, le cui rimembranze devono, in qualche modo, essere rimaste nei cassetti della memoria del Caravaggio, se è ancora possibile rilevarne i segni in opere celeberrime, che Loghi, con il suo incedere linguistico sublime, può anche fare a meno di citare esplicitamente:
“Chi rientri, poniamo, nella cappella di San Giovanni Evangelista a Brescia dove i santi del Moretto si schermano dai colpi di sole o, a maniche rimboccate, sono in atto di pescar le idee nel calamaio (fig. 4); oppure salga a Paitone, a riveder la Madonna paesana che appare, chiara e vicina, al contadinello fidente (fig. 5); o ricollochi in San Francesco a Bergamo il San Pietro martire che vi figurava quando il Caravaggio se ne ficcò in mente qualche tratto (fig. 6); o, in Santo Spirito e in San Bernardino, gli angeli del Lotto lucidi e vivi con le ali di rapace (fig. 7); […] o a Milano giunga per riguardarsi, del Moretto, il cavallone che occupa quasi tutto lo spazio della Conversione di San Paolo (fig. 8) […] si troverà ad avere raccolto un piccolo museo immaginario» […] ”[4]
Ricordare le radici culturali artistiche del Caravaggio è utile a Longhi per sottolineare il carattere assolutamente nuovo della sua pittura in un contesto artistico bigotto, come quello romano, in cui “non si richiedeva verità alla pittura, ma «devozione» o «nobiltà» […]”, e che l’una e l’altra potevano spaziare tra “la tetraggine della stretta controriforma” e la “volante ma vacua fantasia degli ultimi manieristi” (come il cavalier d’Arpino)[5].
Per tale motivo, afferma Longhi, le tele Contarelli, ad esempio, dovettero sembrare “eretiche” ai cultori del tempo. Se a questo si aggiunge la particolare tecnica di ritrarre le scene riflesse in uno specchio, risulta chiaro quanto la novità che la pittura del Caravaggio rappresentava, fosse difficile da digerire. Ma, senza mitizzare qualcosa che lo storico piemontese percepisce per quello che è, ovvero l’interesse puramente artistico da parte di un giovane pittore d’avanguardia nei confronti di una nuova tecnica esecutiva, Longhi sottolinea giustamente come forse essa costituisse una sorta di risposta artistica al modo in cui Caravaggio avvertiva la realtà intorno a lui, ovvero – dice – “in pezzi”, scollata da fortissimi contrasti.
Per tale motivo costruire le scene allo specchio doveva tornare utile al Caravaggio per poter dipingere figure e oggetti anche separatamente, uno per volta, senza per questo inficiare “l’unità del frammento”[6]. Una metodologia che doveva averlo affascinato proprio perché, sottolinea Longhi, lo specchio non smetteva di riflettere ciò che gli era posto davanti anche se uno o più elementi venivano sottratti dal contesto; intendendo, tra gli elementi, anche le figure umane. In tal modo inaugurando, secondo lo storico, “la rubrica, per Roma affatto nuova, della «natura morta» per sé sola”[7], che Longhi esprime evidenziando – cosa che spesso non viene abbastanza considerata – il valore concettuale dell’invenzione dell’artista:
“Uscito che sia il Bacco dal vano colmo dello specchio, vi restano ancora il vassoio di frutta, il nastro dimenticato; receduto il suonatore o il commensale dal tavolo, vi rimangono ancora […] la caraffa smezzata, l’anguria e il melone affettati, la pera intatta e la mela mezza, le mosche saltano sulla propria ombra. […] una forma d’incanto quasi autonomo che sembra portato dalle cose lasciate a se stesse, ma che pure riflettono lo sguardo inclinato dell’uomo e, in primis, di colui che l’ha prodotto, quell’incanto.”[8]
Ritengo sia di particolare rilievo l’accuratezza con cui lo storico sottolinea che la natura morta “per sé sola” era “affatto nuova” per Roma, lasciando intendere così che – invece – nella zona da cui proveniva l’artista, essa non fosse esattamente una novità. Ma è chiaro che dipinti di tale fattura irruppero come una ventata di aria fresca nell’ambiente artistico capitolino che arrancava compiaciuto nei belletti manieristi; talmente nuova, rileva Longhi, che quei primi lavori del Caravaggio risultavano alieni al punto da trovare difficoltà nel dar loro un titolo. Nascono così il “fanciullo che monda una pera col cortello” o il “putto morso da un racano”. Ma, sebbene semplicisticamente la perplessità suscitata da quei dipinti si possa imputare – come s’è fatto largamente – all’evidenza di una realtà quotidiana e popolare, in breve tempo fu chiaro che essi celavano simbolismi ben più elevati da ciò che la mera apparenza poteva mostrare; e fu già allora che, secondo Longhi, cominciò a serpeggiare quel sentimento diffuso di biasimo nei confronti del Caravaggio, il quale iniziò a essere accusato di dipingere i suoi rozzi “simili”[9].
Peraltro, intuizione notevole di Longhi, è quella di immaginare che, oltre all’aspetto indecoroso dei soggetti ritratti, un altro motivo di critica più strettamente artistica, fosse probabilmente che essi venissero percepiti alla stessa stregua delle nature morte che li circondavano; figure umane ritratte come elementi statici, tanto quanto gli oggetti con cui condividevano lo spazio pittorico. Nulla di più lontano da ciò che, in quel momento, era considerato di maggior valore, ossia le cosiddette “historie”, recanti una gran quantità di personaggi spesso in pose fortemente dinamiche.
Insieme alle critiche che arrivarono molto presto rispetto alle opere del Merisi, iniziarono a serpeggiare anche accuse alla sua moralità, e si posero così le basi per quella che diventerà la “leggenda nera” che ancora oggi nutre e infarcisce le pagine di innumerevoli pubblicazioni. E spesso si legge che, proprio da alcuni riporti di Roberto Longhi, si siano generati e tramandati nel tempo, fatti e circostanze di cui il pittore sarebbe stato protagonista, e che hanno finito per consolidarsi come “verità”. Leggendo bene alcuni passaggi del testo di Longhi, il cui stile narrativo – è bene ribadirlo – risulta assolutamente chiaro e scorrevole, oltre che splendidamente esposto, ci si rende conto che quelle “verità” probabilmente sono nate da un fraintendimento delle sue parole (resta da stabilire quanto “incolpevole”).
Mi riferisco, ad esempio, alle tante pubblicazioni in cui si racconta che Caravaggio avrebbe “sicuramente” assistito ad alcuni eventi che accadevano a Roma in quel particolare periodo. Uno dei più noti e citati è la decapitazione di Beatrice Cenci e della sua famiglia (11 settembre 1599), tragico evento che suscitò grande partecipazione popolare e che, secondo la letteratura più “infervorata”, avrebbe ispirato e dato il via a quella che viene definita “l’ossessione dell’artista per le teste mozzate” (fig. 9).
Il tutto nasce, credo, dalla errata interpretazione di un passaggio del testo di Longhi in cui possiamo leggere:
“A Roma egli poté dunque affacciarsi sullo scadere del papato, insieme ferreo e fastoso, di Sisto V. Forse ancora in tempo per vedersi chiudere la cupola di San Pietro e il vecchio pontefice passare cavalcando a fianco del suo architetto lombardo Domenico Fontana […]; così come più tardi potrà, per sorte, assistere ai funerali del Tasso; o vedere, o sentir narrare, da chi l’ha visto […] il ritrovamento del corpo incorrotto della martire Cecilia; ove non abbia preferito assistere, negli stessi giorni, alla decapitazione, anche più autentica, di Beatrice Cenci; o di lì a poco, meditare sui capolavori di pittura Veneziana che arrivano da Ferrara […]; per citar soltanto qualche evento più significativo nell’àmbito di una stretta verosimiglianza.”[10]
Ebbene, checché se ne dica, la lingua italiana è una macchina magnificamente costruita che, con un po’ di perizia, chiunque può governare; ma anche travisare. A parere di chi scrive, qui Longhi non sta affermando che il Caravaggio abbia “certamente” assistito alla decapitazione della Cenci. Mi sembra abbastanza ovvio che, convinto del suo precoce arrivo a Roma tra il 1589 e il 1590 (Sisto V, peraltro, muore proprio il 27 agosto del 1590), l’autore stia semplicemente descrivendo il momento storico in cui ritiene si sia trovato il giovane artista giunto nella capitale pontificia.
È un modo per inserire il Caravaggio nel contesto sociale e culturale romano di quel tempo e, per illustrarlo al lettore, Longhi descrive alcuni degli eventi a cui avrebbe potuto assistere perché accadevano proprio in quel periodo, ma non afferma affatto che vi assistette con certezza. Eppure, le citazioni di quell’evento sanguinoso in riferimento a certi dipinti del Merisi, ormai non si contano più. Ma non è finita.
Un altro travisamento dei fatti che ha originato e inzeppato pagine e pagine di succosa narrativa, ha origine probabilmente dalla errata datazione della nascita del Caravaggio che, come già detto, per l’ancora ignaro Longhi (il documento del battesimo dell’artista, che ne attesta la nascita al 1571 verrà scoperto solo nel febbraio 2007) cadeva nel 1573. Di conseguenza, arrivando a Roma intorno al 1589 – 90, per Longhi Caravaggio aveva appena 18 anni quando si affacciò sulla scena artistica della capitale pontificia: era poco più che un adolescente. Per tale motivo, quando lo storico piemontese, ripercorrendo quel primo periodo romano tra indigenza e servizio di bottega in cui il Caravaggio ritrae soggetti molto giovani, riferisce dei suoi “amichetti coetanei, figli di scalpellini lombardi o di affittacamere romani, garzoni d’osteria, ragazzi di strada” che probabilmente gli facevano da modelli, non sta certo insinuando rapporti omofili; sta solo rimarcando la giovane età dell’artista che, com’era normale accadesse, aveva trovato tra i coetanei i suoi primi amici romani. E se fosse vero che abbia usato proprio costoro come modelli, probabilmente – riflette Longhi – era perché, in quanto amici, posavano per lui gratuitamente. Non solo. Prima ancora di esporre il suo pensiero rispetto ai possibili motivi per cui il Caravaggio usasse modelli così giovani, e senza menzionare alcun nome in particolare, Longhi tiene a “prevenire e confutare storture di interpretazione”, tant’è vero che poco dopo scrive:
“E, data quella «certa età», non c’è neppure da strologare sull’apparenza naturalmente un po’ ambigua del Bacco o del Suonatore di liuto (fig. 10), talora, infatti, detto Suonatrice.”[11]
Ma i sostenitori del Caravaggio trasgressivo a tutti i costi – e dunque anche omosessuale – han fatto evidentemente orecchio da mercante… e hanno continuato a dar retta alle velate insinuazioni del Susinno e a quelle precedenti dell’inglese Richard Simmonds. Quando Longhi, invece, dando prova una volta di più della sua larga conoscenza, individua sulla questione motivazioni anche in questo caso più oggettivamente artistiche, attribuendo le scelte del Caravaggio a una sorta di moda pittorica del tempo che lui definisce “angelismo”[12]. Tutti a Roma dipingevano angeli, e i volti delicati degli adolescenti si prestavano perfettamente a quelle figure dalle fattezze tradizionalmente un po’ efebiche. E però, a quanto pare, la trasgressione ha avuto la meglio sulla trascendenza…
Un’altra intuizione grandiosa di Longhi, che si lega a doppio filo alla questione dei modelli, riguarda l’abilità del Caravaggio ritrattista e apre – a mio avviso – a una serie di considerazioni non indifferenti. Longhi riporta, senza citarla espressamente, l’opinione del Mancini, secondo il quale Merisi fosse incapace di dipingere ritratti somiglianti. Questo, ovvero che il pittore fosse annoverato nella schiera di “altri che sono pittori valentissimi, che non han fatto assomigliare, come il Caravaggio, senza colorito simile al naturale” (al contrario – ad esempio – di Ottavio Leoni “goffissimo senz’arte e disegno” ma capace di eseguire “retratti somigliantissimi”)[13], può essere indicativo – riflette Longhi – ma non costituisce di per sé prova certa della imperizia ritrattistica del Caravaggio. Il marchese Vincenzo Giustiniani, altro grande intenditore ed estimatore delle opere del maestro lombardo, nel suo Trattato sulla pittura aveva scritto:
“IV: saper ritrarre bene le persone particolari, e specialmente le teste che siano simili, e che poi anco il resto del ritratto, cioè degli abiti, le mani e i piedi, se si fanno interi, e la postura, siano bene dipinti, e con buona simmetria, il che non riesce ordinariamente, se non a chi è buon pittore.”[14]
Ebbene, secondo gli elenchi inventariali, Giustiniani aveva nella sua collezione diversi ritratti di mano del Caravaggio; ma non li avrebbe acquistati, come ritiene il Baglione, sol perché si era “invaghito” dello stile del pittore e come un fan dei nostri giorni trovava acriticamente bello e perfetto qualsiasi dipinto uscisse dal suo atelier solo in quanto eseguito da lui, che era il pittore più in voga del momento. Se li aveva voluti nella sua collezione, verosimilmente, li trovava anche di grande prestigio, ovvero realizzati “da chi è buon pittore”, secondo la sua stessa teoria su come si dovesse eseguire un buon ritratto.
D’altra parte, è sempre Giustiniani, a riferire – non a caso – il ben noto pensiero del Caravaggio secondo il quale “tanta manifattura gl’era à fare un quadro buono di fiori, come di figure”[15], nonostante il marchese avesse posto le pitture di naturalia al quinto posto della sua classifica dei dodici migliori generi pittorici; giusto uno in più rispetto alla ritrattistica che poneva addirittura al quarto posto.
Peraltro, per quanto non siano arrivati fino a noi, la storiografia caravaggesca riferisce di una grande quantità di ritratti eseguiti dall’artista, fin dai suoi esordi, quando – letteralmente – ci viveva, producendo “teste” nella bottega di Antiveduto Gramatica e addirittura ci si pagava le cure mediche, come abbiamo già accennato; ma di certo gliene furono anche commissionati, di ritratti (e il più importante fu quello di papa Paolo V), e non sarebbe accaduto se non fosse stato considerato un buon ritrattista. Esplicativi, in questo senso, sebbene da accogliere col filtro dell’amicizia che legava i due personaggi, i versi che gli dedicò il poeta Giovan Battista Marino come tributo al ritratto che di lui aveva realizzato l’artista:
“Vidi, Michel, la nobil tela, in cui / da la tua man veracemente espresso / vidi un altro me stesso, anzi me stesso, / quasi Giano novel, diviso in dui. 7 Io, che ‘n virtù d’Amor vivo in altrui, spero or / mi fia (la tua mercé) concesso, in me non vivo, or ravivarmi in esso, / n me già morto, immortalarmi in lui. / Piacemi assai che meraviglie puoi / formar sì nòve, Angel, non già, ma Dio: / animar l’ombre, anzi di me far noi. / Che s’or scarso a lodarti è lo stil mio, / con due penne e due lingue i pregi tuoi / Scriverem, canteremo, ed egli, ed io.”[16]
Ora, che il Caravaggio avesse una lunga e consolidata esperienza nella ritrattistica, impone che egli avesse anche progredito nella qualità esecutiva. Dunque i riferimenti di Mancini andrebbero visti – credo – come opinioni personali esternate secondo un modello ritenuto migliore e, allo stesso modo, quelli di Giustiniani come indicazioni di carattere puramente artistico. Ma va considerato pure che, quando Caravaggio dipingeva i volti, lo faceva giustamente in funzione del soggetto da raffigurare, dandone la sua personale interpretazione anche stilistica, dove si possono rilevare dei topos ricorrenti, come ad esempio la forma delle sopracciglia o quella delle labbra, in alcune figure; inoltre, molto probabilmente, proprio dalla pratica, l’artista aveva sviluppato una certa capacità di diversificazione esecutiva.
Talché, è verosimile ritenere che quando si fosse trattato di effigiare personaggi sacri, soprattutto se destinati alla visione pubblica, difficilmente li avrebbe ritratti “dal naturale” con gli esatti lineamenti del modello o modella che li interpretavano, evitando in tal modo di incorrere nell’infrazione della norma che vietava di raffigurare i santi con fattezze ravvisabili di persone comuni[17]. Proprio il motivo che, ricorda Longhi, costò a Scipione Pulzone l’onta del rifiuto di un suo dipinto per la Chiesa del Gesù dove aveva raffigurato
“alcuni d’essi Angioli in piede assai belli: ma perché erano ritratti dal naturale, rappresentanti diverse persone da tutti conosciute, per cancellare lo scandalo, furono tolti via”[18].
Mentre al Caravaggio, nonostante il polverone sollevato dai suoi detrattori circa l’identità – e conseguente identificabilità – della modella che posò per la Madonna di Loreto, non fu rifiutato il dipinto per infrazione dell’obbligo agiografico (e nemmeno per mancato decoro); il che vuol dire che quel volto di donna era stato opportunamente caratterizzato affinché non recasse segni evidenti di riconoscibilità. Peraltro, la stessa Madonna dei Palafenieri (fig. 11, il cui rifiuto è tutt’altro che comprovato), dove effettivamente sembra tornare il volto della Vergine nella pala di Sant’Agostino, non poteva incorrere nello stesso problema, per il medesimo motivo.
E dunque, se possiamo perdonare a Longhi d’aver negato l’autografia dei Musici oggi a New York (fig. 12),
o quella del Ritratto di Paolo V in collezione Borghese (fig. 13), la cui trattazione dei volti egli considera piuttosto “feriale”,
dobbiamo però sottolineare che, sulla stessa linea “feriale”, lo storico annovera anche il “ritratto così semplice, ma intimamente episodico, della Sposa romana perdutosi a Berlino nel 1945”[19], riferendosi evidentemente a quello che nel tempo, è stato indicato invece, come Ritratto di cortigiana, e più precisamente Ritratto di Fillide (fig. 14).
Considerando quanto fin qui argomentato, e cioè che il Caravaggio avesse il suo modo di risolvere un ritratto (così come Longhi aveva il suo di attribuire i dipinti), è chiaro che lo storico piemontese non si sogna neppure di affibbiare un nome certo e una professione particolare alla modella di quel dipinto, il cui soggetto – non per niente – indica come la raffigurazione, peraltro “così semplice”, non certo di una cortigiana d’alto bordo com’era la Melandroni, ma di una “Sposa romana”, forse per via di segni quali la pettinatura, l’abbigliamento e il fiore d’arancio che la donna nel dipinto tiene tra le mani, e senza tener conto del velo giallo (allora rappresentativo e obbligatorio per le cortigiane) che le ornava la scollatura. In ogni caso non rilevando alcuna evidente aderenza di carattere ritrattistico tra il soggetto effigiato e un’eventuale modella. È chiaro che non possiamo prendere per oro colato l’opinione di Longhi; ma, tanto meno, quella di chi – per puro opportunismo – continua a strumentalizzare le opere del maestro lombardo per poter favoleggiare sulle tresche, vere o presunte, con i suoi modelli.
Procedendo per somiglianze, vere o presunte per l’appunto, e producendosi in passi di strepitoso virtuosismo linguistico, Longhi definisce la Giuditta di Palazzo Barberini come la “Fornarina del naturalismo” (fig. 15), cogliendone in tal modo: da un lato l’imponente carica di sensualità che accomuna la bellissima eroina biblica effigiata dal Caravaggio, alla misteriosa donna ritratta da Raffaello, e dall’altro la portata di grande realismo che da entrambi i dipinti emana, intendendo probabilmente anche in termini di resa psicologica.
Poco dopo Longhi riferisce una certa similarità tra la modella della Giuditta e quella della Santa Caterina; ma, senza alcuna certezza né pretestuosità, si limita a scrivere:
“La stessa modella della Giuditta, o una simile, sembra tornare anche nella Santa Caterina che fu in casa Barberini.”[20]
“O una simile”, dunque. E sarebbe il caso – da questa parte dell’orizzonte temporale – che si prendesse nota; anche perché rileverà la stessa somiglianza tipologica poco più avanti:
“É quando il modello (non LA modella) della Santa Caterina «minente» torna forse (forse!) da lui a posare per la nuova invenzione della Maddalena rimproverata da Marta.”[21]
Da questo passaggio dobbiamo annotare l’ennesima stortura delle parole di Longhi che, lette senza il faro della sua potente scrittura creativa, possono aver originato le semplicistiche deduzioni che si sono sedimentate nel tempo, sull’uso di una stessa modella per tutti e tre i dipinti (fig. 16), e relativa sua individuazione nella cortigiana “designata”. Longhi, in realtà, sta solo registrando un’affinità fisiognomica in quei soggetti, infatti parla di “modello” inteso come tipologia; diversamente avrebbe scritto “modella”. Inoltre esprime anche il dubbio che sia stato proprio questo modello/tipologia di volto quello utilizzato per la Maddalena rimproverata da Marta, e per l’appunto scrive “forse”.
Bene. Tralasciando l’argomento modelli, che non è certo l’unico da tenere in conto nell’analisi longhiana, ho trovato particolarmente interessante la sua visione dell’evoluzione dello stile del Caravaggio dagli esordi, ancora legati al chiaro e a rimandi di maniera, alla maturità degli “oscuri gagliardi”. Che non servivano all’artista solo per dare rilievo ai corpi ma, ritiene Longhi, anche per indagare la sostanza dell’oscurità che li inghiottiva nelle parti che lui non dipingeva. A tal proposito lo storico fa notare come la leggiadria dei primi lavori volga – a un certo punto – al dramma, che si riversa nei dipinti di storia sacra, risolti con raffigurazioni sintetiche, ovvero cogliendo l’attimo in cui la storia si compie, e con forti contrasti di chiaro scuro che enfatizzano il pathos.
Inoltre, secondo Longhi, l’oscurità che prende sempre più spazio nei dipinti del Merisi, avrebbe la velleità – ancora e sempre – di scalzare il ruolo primario della figura umana in cui è il corpo che produce l’ombra; mentre, invece, immergendo quel corpo nell’oscurità, l’ombra che produce si perde in essa, e la figura umana che l’ha prodotta perde il suo valore centrale simbolico e dominante. Si può essere d’accordo o dissentire sulle reali intenzioni dell’artista, che sono davvero difficili da indagare. In fondo potrebbe non esserci una motivazione precisa, potrebbe essersi trattato solo di una naturale evoluzione del suo stile e della sua tecnica pittorica, alla ricerca della migliore resa espressiva ed empatica, dove la figura umana è si centrale, ma come oggetto di indagine artistica. Ma, dal punto di vista dei cultori classicisti dell’epoca, ancora legatissimi ai codici umanistici rinascimentali, il ragionamento di Longhi sarebbe plausibile, e anche questo aspetto potrebbe essere diventato motivo di biasimo nei confronti dell’artista. Inoltre, è singolare che, riflettendo sulle possibili ragioni che portarono via via a quel mutamento luministico in cui progressivamente le ombre iniziarono a prevalere sulla luce, Longhi tenda a escludere le vicissitudini personali dell’artista:
“Meglio non indagare in quel mare di miseria che gli cresceva attorno, anche doppiato il capo della povertà materiale.”[22]
Con ciò forse riferendosi alle maldicenze che montavano nell’ambiente a causa dei suoi detrattori, e che si moltiplicavano in maniera direttamente proporzionale al successo che l’artista otteneva. Mentre una ragione più logica, secondo Longhi, e che trovo anche più verosimile, potrebbe essere di carattere più strettamente artistico; ovvero il sentimento di opposizione al manierismo estremo, che da sempre animava la sua spinta di innovazione pittorica, e che – una volta a Roma – si precisava nel superamento dei vagheggiamenti del d’Arpino, e nell’affermazione fiera del proprio stile “macinando carne”, sul “compromesso” del Carracci che si limitava a “macinare colori”.
Se “La chiesta era allora del quadro di evento sacro e patetico”, scrive Longhi, “questo è a spingere il Caravaggio sulla nuova via.”[23]
In questo solco di propensione innovativa, va inserita l’analisi di Longhi rispetto alla genesi dei dipinti Contarelli. E sorvolando opportunamente sulla questione delle date e sull’esecuzione delle due versioni del San Matteo e l’angelo, chiaramente trattate senza il bagaglio di studi e di scoperte successive, resta comunque notevole la sensibilità dello storico piemontese nella lettura critica dei dipinti. Nel rilevare, ad esempio, l’audacia dell’artista che si impone con le sue tele lavorate a olio in un ambiente artistico che prediligeva l’affresco; o la genialità inventiva con cui Caravaggio risolve la scena della Vocazione di San Matteo sul modello dei Bari (fig. 17), evocando con il gioco d’azzardo – già trattato dallo Holbein – un “tema di vita dissoluta che si cangia ad un tratto per forza di un destino che sopravviene”[24].
E che sopravviene con la forza della luce “incidente” e dell’ombra della campitura: la prima investe, la seconda nasconde; non manichini da studio ma persone vere, e la storia che stanno vivendo in quell’istante. E sebbene Longhi individui il San Matteo della Vocazione nel personaggio barbuto al centro, come da consolidata tradizione, tradisce forse il dubbio – sebbene di un attimo – rispetto a quel “giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nell’ombra lurida della propria perplessità.”[25] Riguardo al Martirio, di cui sottolinea l’estrema attualizzazione da parte del Caravaggio, in un “fattaccio di cronaca nera entro una chiesa romana dei suoi giorni”, non manca di individuare acutamente un possibile modello compositivo della scena nel San Pietro Martire del Moretto, che l’artista avrebbe potuto vedere a Bergamo da ragazzo (fig. 18).
Procedendo dall’autoritratto del Caravaggio contenuto nel Martirio di san Matteo, Longhi medita, a mio parere senza velleità alcuna, sulla psiche del pittore, accostando a quell’autoritratto le descrizioni fosche che di lui avevano riferito i biografi e le raffigurazioni del suo volto eseguite da altri artisti; notando come, in realtà, il volto del Merisi autoritratto nel Martirio, sembri distante dai tratti marcati con cui più volte era stato descritto, e invece più tendente alla tipologia del ritratto eseguito da Ottavio Leoni. E ritiene quel volto “segnato piuttosto di mortale tristezza che di violenza”; condizione che rivede proprio nell’autoritratto del Martirio (fig. 19).
A differenza di molti “profilers” moderni (i cui studi sono tanto ambiziosi quanto legittimi), senza negare le evidenti asperità caratteriali del Caravaggio, saggiamente Longhi non ardisce indagare “quant’altro non resterà per sempre celato nelle pieghe inscrutabili dell’animo”. E quasi commuove la delicatezza dello storico nel comprendere la naturale fragilità umana dell’artista, che non poteva restare indifferente alle amarezze della vita; poiché, se fosse vero – ad esempio – che rifiutò di incontrare il fratello prete “venuto da così lontano sol per rivederlo”, Longhi non manca di far notare che costui si era fatto vivo solo dopo che di suo fratello aveva sentito “vantar la fama crescente”[26].
Un uomo di siffatta natura, che trascorreva le sue giornate tra il lavoro in atelier sfruttando le ore di luce e le serate con gli amici in giro per taverne, non poteva che scontrarsi con il moralismo ipocrita di quel tempo; che non era proprio solo del contesto ecclesiale, ma anche dell’ambiente artistico romano, sempre più tendente all’elitarismo, e al culto – quasi di stampo cavalleresco – della reputazione degli artisti. Ed è forse in questo clima che, secondo la visione di Longhi, va inquadrata la questione dei “rifiuti” delle opere del Caravaggio, indotti probabilmente anche dalle aspre critiche che arrivavano ad ogni dipinto esposto in pubblico.
Tralasciando, anche in questo caso, le limitate conoscenze di Longhi (rispetto alle attuali), come accennato, lo storico piemontese, smentendo le fonti biografiche, nega il rifiuto del primo San Matteo e l’angelo, ne evidenzia le differenze stilistiche con la seconda versione (fig. 20) ma lo pone ugualmente sull’altare di San Luigi fino a che – dice – fu lo stesso artista, poi, a volerlo sostituire[27].
E fa lo stesso ragionamento anche per i dipinti Cerasi, ovvero che fu l’artista a voler eseguire le due seconde versioni dei laterali di Santa Maria del Popolo. Però: se nel primo caso la teoria di Longhi, che pure intuisce il mancato rifiuto, non tiene conto di elementi importanti, come ad esempio le misure dei due dipinti, o la possibilità che la prima versione fosse stata eseguita fin dall’inizio per Vincenzo Giustiniani e magari mai posta nella cappella, nel secondo caso dei laterali Cerasi, inizialmente eseguiti su tavola di cipresso, probabilmente centra il bersaglio immaginando che l’idea di rifare i dipinti su tela e a olio sia stata del pittore; benché Longhi, per spiegare questo, non tenga conto delle ragioni più verosimili, ovvero la sopravvenuta morte precoce del committente e il conseguente subentro dei delegati dell’Ospedale della Consolazione – che il Caravaggio conosceva da tempo – come esecutori testamentari, né – in ultimo – il cospicuo sconto sul prezzo delle opere, concordato a suo tempo, che potrebbe aver agevolato l’esecuzione dei nuovi dipinti su tela invece che su tavola, ma ritenga l’artista “autorizzato” ad agire da se stesso. Bellissimo resta, comunque, il passaggio in cui Longhi trova rimembranze della statuaria classica nella Conversione di San Paolo (fig. 21); ne rileva addirittura nelle palpebre chiuse del cavallo che gli ricordano gli occhi delle statue antiche, e considera questo “il dipinto forse più rivoluzionario di tutta la storia dell’arte sacra.”[28]
Percorrendo i sentieri creativi del Caravaggio, così invisi agli accademici del suo tempo, Longhi sembra quasi farsi un dovere di confutare i riporti faziosi dei critici che si sono occupati del maestro lombardo; come quando riferisce il pensiero di Franz Kugler, del 1837, che commentava la Deposizione vaticana (fig. 22) come un dipinto della “più alta maestria di rappresentazione […], soltanto troppo simile ai funerali di un capo di zingari.”[29]
Ed è qui che, deplorando con la consueta eleganza il giudizio sprezzante dello storico tedesco, Longhi torna su una sua precedente riflessione, sostenendo che in realtà l’artista non dipingesse né i “peggiori” (come potevano essere considerati gli zingari, ma i popolani in generale), né i “migliori”, e Longhi scrive “sappiamo chi fossero” probabilmente intendendo figure umane esteticamente perfette. Caravaggio dipinge semplicemente i suoi “simili”, persone normali che serbavano intatta quella spontaneità dei gesti e delle emozioni che ben si confaceva al carattere realistico delle sue pitture.[30]
Sulla scorta di questo pensiero si inserisce l’analisi di Longhi sulla Madonna di Loreto (fig. 23).
Ne parla come di un “ex voto”. Il che può sembrare un’affermazione semplicistica, ma allo storico di Alba è utile, anzitutto, come figura retorica da opporre all’iconografia tradizionale che poneva la Vergine sulla “rustica casarella dal tetto di cedro” portata in volo dagli angeli[31]. È il suo modo per palesare, dal punto di vista narrativo, la distanza abissale tra l’invenzione del Caravaggio e le precedenti raffigurazioni del soggetto e, in tal modo, esaltarne il valore non solo pittorico ma anche concettuale.
D’altra parte Longhi sa che l’artista, probabilmente, aveva fatto quel viaggio nelle Marche nel gennaio del 1604, e non esclude che, visitando il Santuario di Loreto, possa aver visto le tante immagini lasciate come ex voto dai pellegrini, e da quelle aver tratto ispirazione. Oppure, che l’idea dell’ex voto possa avergli indotto la composizione del dipinto come una scena di preghiera/supplica. E credo non fosse lontano dalla realtà, se si considera che lo scopo del dipinto di arte sacra, in quel momento storico, era proprio consolidare la fede nei credenti attraverso la sequela dei precetti, di cui la preghiera era parte integrante.
Meraviglioso il passaggio in cui Longhi, sottolineando la plasticità imponente della Vergine, la descrive come una statua “che si stia rincarnando”, ovvero che si stia trasformando in corpo vivo intenerita dallo sguardo supplice dei due pellegrini. Peraltro è notevole che non citi la Tusnelda per la postura delle gambe, ma la Irene di Cefisodoto (fig. 24), per l’espressione e la posa del volto e, probabilmente, anche in quanto personificazione greca della pace. Inoltre, a differenza di quanto accadrà in seguito da più parti, Longhi interpreta correttamente il senso e il valore di quegli “schiamazzi” dei popolani, riferiti dal Baglione, entusiasti e ammirati davanti a un dipinto in cui potevano certamente riconoscere se stessi, umili e supplici quanto i due pellegrini davanti alla Vergine; fino ad attribuire proprio all’ammirazione del popolo il merito di aver evitato il rifiuto del dipinto per mancato decoro.
Ma se il successo della Madonna di Loreto poteva aver segnato un punto (o anche più di uno) a favore dell’inventiva rivoluzionaria del Caravaggio, Longhi però rileva come, con un po’ di masochismo, l’artista avesse forse iniziato a eccedere in quelle sue trovate così pittoricamente esaltanti ma decisamente indisponenti per chi, inevitabilmente, poi giudicava il suo lavoro; e immagina che la critica, e la conseguente rimozione della Madonna dei Palafrenieri (fig. 25) dall’altare di San Pietro, si fosse prodotta proprio a causa di uno di questi eccessi di fiero ma crudo realismo.
E, per quanto non sia certo una critica di Longhi ma un passaggio che serve a fissare nel lettore tutta la portata impattante del mancato decoro nella pala oggi in Galleria Borghese, resta bellissima la descrizione del dipinto in cui Sant’Anna è “una vecchia ciociara; la Madre in veste rimboccata da lavandaia, il Bambino nudo come Dio l’ha fatto.” Per finire con le aureole, che Longhi, in quel suo meraviglioso italiano desueto, chiama “nimbi”, inserite dall’artista forse per forza più che per voglia, dal momento che il dipinto sarebbe dovuto andare in San Pietro; ma per non abiurare a se stesso, li riduce “ad anellucci dorati, come la fede della povera gente”[32].
Più o meno lo stesso ragionamento induce Longhi a motivare con il mancato decoro il rifiuto della Morte della Vergine per Santa Maria della Scala (fig. 26).
E citando i probabili motivi addotti dai biografi, sembra rivolgersi direttamente agli esegeti moderni quando invita a non perdersi in teorie fantasiose di amanti cortigiane e donne morte gonfie: il mancato decoro, ritiene lo storico (e certamente non a torto), era motivo più che sufficiente per un rifiuto. Peraltro, sebbene non faccia riferimento a possibili ragioni teologiche (il tema della Dormitio Virginis, ad esempio), e senza cogliere l’importanza che forse ebbe nella questione del rifiuto, Longhi sottolinea nel dipinto il dolore profondo degli apostoli “che sembra prender senso e autorità infinita dal chiarore devastante.” Un dolore ancor più evidente nella meravigliosa descrizione della Maddalena in pianto, che la luce rende “un solo massello luminoso”, e la sua mano sul ginocchio “un grumo solo di luce rappresa”[33].
A questo punto Longhi riflette sullo stato d’animo del Caravaggio, certamente esacerbato da una serie di amarezze inanellate una dopo l’altra, e immagina che, per uno spirito altero come il suo, non sia stato facile gestire con giudizio la rabbia e la delusione; soprattutto vedendo, nel frattempo, che i suoi antagonisti calunniatori, pur senza il suo talento, ottenevano successi importanti e croci d’oro. Dal che, è verosimile immaginare che la vita già abbastanza sregolata dell’artista, dovette risentirne ulteriormente: l’aggressione al notaio Pasqualoni, le settimane a Genova e poi la “pace” da firmare con ammissione di colpa, lo sfratto dalla casa-studio di vicolo San Biagio, per finire a quel fatidico 28 maggio 1606 quando la situazione precipita del tutto con lo scontro alla pallacorda e la morte di Ranuccio Tomassoni.
Ma è importante rilevare che Longhi, a differenza delle tante deduzioni apparentemente “ovvie” che si sono generate e susseguite nel tempo, esclude decisamente influenze dirette e fattive di questa difficile situazione emotiva sull’arte del Caravaggio:
“E non che la vita più disordinata incida sul grado della sua pittura, ma sono ormai a impedirlo le vicende esterne e talora sanguinose.”[34]
Lo storico scrive “sul grado della sua pittura”, con ciò intendendo, probabilmente, non soltanto la qualità dei dipinti ma anche lo stile e la sua evoluzione che, evidentemente, secondo Longhi, non viaggiavano di pari passo con le sue vicissitudini personali in caduta libera. Piuttosto, ritiene che siano stati i casi contingenti – nella loro materiale urgenza – a cambiare il corso della storia del pittore e impedirgli di lavorare agevolmente come avrebbe voluto. La fuga da Roma e l’approdo nei feudi laziali dei Colonna era il male necessario dal quale bisognava ripartire proprio lavorando. La Cena in Emmaus oggi a Brera (fig. 27) e una Maddalena riferita dalle fonti biografiche, che Longhi individua apparentemente in quella che oggi è conosciuta (in diverse versioni e copie) come Maddalena in estasi (fig. 28), sono i primi frutti di questo momento di transizione.
Di quest’ultimo soggetto, in particolare, Longhi fornisce una descrizione potente quanto opinabile:
“la Maddalena in disperata penitenza che la luce arrovescia e inchioda come un violento negativo”[35]
Le impetuose parole di Longhi, che come sempre colgono il forte impatto delle opere del Merisi, ci parlano quindi di una Maddalena “in disperata penitenza”, non “in estasi”; ma va tenuto conto che egli non vide dal vivo la tela (dunque non possiamo esser certi nemmeno di quale versione si trattasse), bensì da una foto che gli era pervenuta; e forse, interpretando la forza comunicativa dell’immagine dove è presente una fascina di verghe (Longhi non fa alcun riferimento al teschio presente in diverse copie del soggetto), il rimando alla penitenza dev’essergli arrivato più immediato. In questo caso, però, trovo più corretta la titolazione corrente, ovvero Maddalena in estasi, che ritengo descriva pienamente la circostanza in cui il soggetto è ritratto.
L’ampia visione di Longhi introduce il Caravaggio – e con lui tutti noi – in una Napoli “spagnolesca e orientale […] disperatamente popolare” dove l’artista trova ispirazione per le Sette opere della misericordia (fig. 29) “in qualche crocicchio famoso, rimescolato tra ricchi e poveri, tra miseria e nobiltà”.
E ancora una volta, quasi a voler sconfessare sistematicamente i giudizi faziosi dei biografi, è un accostamento al sommo urbinate a esaltare la bellezza e la potenza espressiva dell’opera, quando lo storico parla di una Madonna e di un Bambino belli come in un “Raffaello senza seggiola”. Longhi inoltre rileva giustamente come, nonostante la latitanza e il bando capitale, Caravaggio probabilmente si sentisse molto più libero di esprimersi a Napoli che non a Roma; e questo nonostante il temibile rigore dell’Inquisizione spagnola che nella città partenopea dominava più che altrove. Qui l’artista non sente il fiato sul collo dei colleghi invidiosi e ostili, anzi; la novità del suo realismo viene accolta con entusiasmo e fa proseliti[36].
Ma Napoli doveva essere solo una sosta breve (che in realtà poi si protrasse per diversi mesi) prima di imbarcarsi alla volta di Malta, per una croce da cavaliere, dice Longhi, “che ebbe infatti ad usura”[37], intendendo probabilmente che se la dovette guadagnare a suon di dipinti. Tra questi, però, è singolare che lo storico piemontese non riconosca autografo il “Ritratto di Alof de Wignacourt” oggi al Louvre (fig. 30), il cui volto effigiato dal Caravaggio, ritiene “buono ma generico”[38];
e questo perché trova invece meglio tratteggiati quelli che lui reputa essere due ritratti “veri”, ossia l’oste delle Sette opere della misericordia e il committente della Madonna del Rosario (il famoso uomo con la gorgiera bianca presente nel dipinto, a cui non si è mai riusciti a dare un nome).
Al di là del giudizio un po’ frettoloso di Longhi nel negare l’autografia al dipinto del Louvre, del quale insieme – ad altri ritratti – aveva già in precedenza evidenziato il “carattere feriale” nella trattazione dei lineamenti del volto, è utile ricordare che anche la critica moderna ha nutrito qualche dubbio sulla “autenticità”, non tanto del dipinto, quanto proprio del viso del Gran Maestro; una tipologia, in effetti, ricorrente in alcuni quadri maltesi del Caravaggio, come il San Girolamo scrivente, o il Ritratto di cavaliere, e in qualche caso, anche il carceriere della Decollazione di San Giovanni Battista.
Ma giustamente, Sybille Ebert-Shifferer (2010) faceva notare come il ritratto in armi di Wignacourt sia una raffigurazione “convenzionale”, ovvero tipologica dell’uomo di potere (perfino l’armatura è quella forse più rappresentativa ma non certo la più nuova da lui posseduta), e probabilmente voluta così proprio dal Gran Maestro[39]. Dunque, se letto in questo senso, ed esteso all’intero dipinto, il giudizio di Longhi potrebbe avere il valore, quanto meno, dell’ennesima notevole intuizione.
Gli onori ottenuti sull’isola dei cavalieri non risparmiano, però, al Caravaggio un ulteriore guaio; e, vista la sua situazione giudiziaria, dover fuggire anche da Malta non faceva che aggravarne la posizione. Nondimeno, Longhi argutamente riscontra una certa facilità di adattamento dell’artista ai repentini mutamenti della sua vita se, nonostante lo stress della reclusione e della fuga da Forte Sant’Angelo, pochi giorni dopo lo ritroviamo in Sicilia, con la leggerezza del “uomo di mondo e di cultura”, che se ne va in giro tra le rovine di Siracusa antica in compagnia di una personalità come Vincenzo Mirabella[40]. Inoltre nota una volta di più, come i pericoli che egli avverte comunque seguirlo costantemente, non sembrino influire sulla qualità dei suoi dipinti che anzi, scrive Longhi, “non dimostrano che aumenti per l’arte”. E se possiamo dirci sostanzialmente d’accordo sul fatto che il nuovo rapporto tra spazio e figure, tra “primi piani e campo lungo”, siano evoluzioni stilistiche evidenti che pongono il Caravaggio quale antesignano di regie teatrali e cinematografiche, appare invece per lo meno “frettoloso” che Longhi ritenga la Resurrezione di Lazzaro (fig. 31) un dipinto “non finito”, senza tener conto della velocità con cui l’artista già da tempo eseguiva i suoi lavori che, peraltro, anche in Sicilia gli vennero commissionati in gran quantità; nonché di quella “urgenza” di realizzare che ormai sentiva cronica ovunque andasse, quasi un modus vivendi a questo punto, prima che qualche altro evento lo costringesse a spostarsi. Non ultimo l’agognato perdono papale.
Del secondo soggiorno Napoletano Longhi ricorda subito l’aggressione al Cerriglio che attribuisce a emissari dei cavalieri di Malta. Poi, enumerando i dipinti eseguiti in questo periodo, rileva una possibile vicinanza cronologica tra il David Borghese e la Salomé di Londra, nel gesto del braccio teso presente in entrambi i soggetti (fig. 32).
Ma è interessante, sebbene impossibile da verificare, il pensiero dello storico piemontese rispetto alla perduta Resurrezione della cappella Fenaroli in Sant’Anna dei Lombardi, per descrivere la quale riporta le parole del francese Nicolas Cochin:
“C’est une imagination singuliere, le Christ n’est point en l’air, et passe en marchant au travers des gardes; ce qui donne une idée basse, et le fait ressembler à un coupable qui s’échappe de ses gardes. D’ailleurs le caractére de nature est d’un homme maigre, et qui a souffert.”[41]
Questo commento del pittore d’oltralpe, il solo che ci possa dare qualche indicazione sulla pala d’altare distrutta dal terremoto del 1805, induce Longhi a ipotizzare che, nel ricordo della recente fuga da Malta – ma direi della condizione di fuggiasco in generale – il Caravaggio abbia in un certo senso immaginato per il Cristo una situazione simile alla sua, umanizzando in tal modo, in maniera estrema, un evento che doveva essere, invece, del tutto trascendente. Se davvero l’artista avesse guardato alla propria condizione, sarebbe stato probabilmente per un’esigenza artistica, forse un estremo richiamo di naturalismo per rappresentare un evento del quale nessuno poteva immaginare lo svolgimento.
Longhi conclude l’excursus sulla vita del Caravaggio con una sintesi degli ultimi giorni convulsi, e con molta naturalezza, riferisce che l’artista “si avvia da Napoli verso Porto Ercole”; quindi immaginando lo scalo toscano come approdo previsto della feluca, essendo presidio spagnolo. Il che, in effetti, renderebbe logico e verosimile quanto riferiscono alcuni documenti, ovvero che, rilasciato dal carcere di Palo Laziale dov’era stato forse ingiustamente trattenuto, Caravaggio subito si metta in viaggio verso nord, dove sapeva essersi diretta la feluca, e non subito di nuovo verso Napoli.
Analizzando la fortuna, ma in effetti più la “sfortuna” critica del Caravaggio, con estrema lucidità e oculatezza Longhi si sofferma sulla figura chiave rappresentata da quel “maestro Valentino” citato da Baglione e che noi, oggi, sappiamo essere Costantino Spada, attribuendogli già nel 1951 un ruolo determinante (anche più di Prospero Orsi) nelle vicende professionali dell’artista. Non tanto perché lo storico “creda” ciecamente a Baglione, ma perché comprende l’importanza strategica di un commerciante di opere d’arte esperto (tra i primi a valutare i quadri del Caravaggio), e dunque assolutamente in grado di riconoscere il valore di un dipinto.
E questo, secondo Longhi, è tanto più importante proprio e soprattutto in riferimento alla lettura critica dei quadri che, per suo tramite, l’artista riuscì a vendere nei suoi esordi romani (verosimilmente i Bari e La buona ventura, prima versione). Il fatto che Spada li avesse proposti a un cultore d’arte come il cardinal del Monte è segno, per lo storico, che il “rivenditore di quadri a San Luigi dei Francesi”, avesse più acume di quanto non ne abbiano dimostrato i critici nel tempo[42]. Lo stesso dice dei tanti collezionisti e mecenati che evidentemente avevano apprezzato tantissimo il nuovo stile proposto dal Caravaggio, sebbene – riflette Longhi, ed è questo un altro spunto da tenere in conto – forse non ne fecero mai pubblica attestazione per non compromettere le loro “aristocratiche” reputazioni osannando apertamente un artista così socialmente controverso e turbolento. Il che, credo, non sia del tutto inverosimile.
Lo storico piemontese ritiene addirittura che il marchese Vincenzo Giustiniani, decisamente e fattivamente ammiratore del Merisi, nel suo Trattato sulla pittura, in qualche modo abbia dovuto ridimensionare il suo reale giudizio sull’artista, inserendolo sì al grado più alto dei generi pittorici da lui classificati in dodici punti, ma facendogli condividere il podio con due colleghi che più distanti dal suo stile non si poteva, ovvero Annibale Carracci e Gudo Reni. I quali, peraltro, al caravaggismo avevano pure guardato, ma solo per abiurarvi poco dopo, in nome di un compromesso stilistico e di un opportunismo professionale che avrebbe assicurato loro lavoro e gloria.
Inoltre Longhi opportunamente osserva che quello del Caravaggio è un caso particolare, perché la critica accreditata, per più di due secoli, si era rifatta alle biografie del pittore chiaramente falsate nel giudizio negativo e preconcetto che esprimevano. Longhi si spinge a dire che avrebbe dato addirittura “al macero, senza troppo rimpianto, tutte le biografie principali dell’artista”[43]. Anche perché, ritiene, ad esempio, che quanto di negativo scrive Baglione su Caravaggio, serva solo a nascondere che egli stesso per un certo periodo “si era provato a parlare in caravaggesco” senza troppa fortuna e meno che mai per questo considerato dal pittore.
Ed è fantastica la leggerezza con cui Longhi smaschera, poi, l’ipocrisia del Bellori che, proprio nell’edizione del 1642 delle Vite del Baglione, aveva addirittura inserito un’ode per esaltare le qualità artistiche del Caravaggio, in un poemetto intitolato “ALLA PITTURA. Per le Vite del Cavalier Giovanni Baglione”; mentre poi nella biografia che pubblicherà lui, trent’anni dopo (1672), lo svaluterà del tutto.
E lo farà, sostiene Longhi, un po’ perché nel tempo aveva visto crescere la stella di Poussin, proprio colui che, del Caravaggio aveva affermato fosse “venuto al mondo per uccidere la pittura” (e anche perché – aggiungo io – saltare sul carro del vincitore, è sempre stato più conveniente); e poi perché, avendo previsto un certo schema per la struttura delle sue Vite, il “becero” naturalismo di Caravaggio si prestava come perfetto contrapposto all’altrettanto criticato manierismo del d’Arpino (anch’egli in precedenza osannato nello stesso poemetto di cui sopra) per poi poter mettere sul podio il re della sintesi stilistica “virtuosa”, sua maestà Annibale Carracci. D’altra parte, se anche un fondo di verità ci fosse nell’analisi di Longhi, è da valutare che Bellori, nel tempo intercorso tra “l’ode” al Caravaggio e il disprezzo poi manifestato, aveva visto prevalere, in generale, i valori del classicismo, quelli a cui egli stesso era legato e che assicuravano una “credibilità” e una autorevolezza maggiore a chi, come lui (e Baglione prima di lui) si fosse cimentato in un’opera letteraria che aveva velleità di emulare quella celeberrima del Vasari.
Non manca, Longhi, di manifestare tutto il suo biasimo verso la critica moderna che per i due secoli successivi era rimasta a “gracchiare contro l’artista fino ai tempi neoclassici”, e ride sarcastico della “moda fantasiosa e lussureggiante”, originata proprio da queste biografie, con cui si prese a costruire la leggenda romanzesca sul Caravaggio uomo, “già pronta per la novellistica del romanticismo”[44]. E anche per quella successiva, aggiunge chi scrive, perché quella leggenda – purtroppo – è più viva e “prolifica” che mai ancora oggi.
E come spesso accade, osserva Longhi, l’artista nostrano ebbe più visibilità all’estero che non in patria. In Spagna, nonostante le bordate del Carducho, o nei paesi nordici grazie a Sandrart, o in Francia dove Félibien, quantunque nel biasimo generale, non potrà che lodare moltissimo la Morte della Vergine appena arrivata alla corte di Luigi XIV. In sostanza, sebbene l’arte del Caravaggio fosse ormai malvista e deplorata ovunque, nessuno poteva ignorare la potenza delle sue creazioni. Tuttavia le quotazioni del maestro lombardo scendevano progressivamente con l’affermarsi della pittura del Settecento, e anche oltre, tanto che – rammenta Longhi, e forse non è un caso – le razzie napoleoniche quasi snobbarono i dipinti del Caravaggio (l’unica opera portata in Francia fu infatti la “classicheggiante” Deposizione vaticana) in favore di quelli dei bolognesi. Il tutto mentre il corpus delle opere dell’artista veniva messo a soqquadro da inventaristi poco accorti o peggio incompetenti; e attribuisce a questi ultimi parte delle opinioni negative espresse dalla critica ottocentesca, confusa anche da attribuzioni probabilmente riportate con troppa leggerezza, che avrebbero danneggiato l’immagine del pittore. Per tale motivo cita Luigi Lanzi che, a suo dire, in certi suoi giudizi critici, si era fatto irretire proprio da queste opinioni falsate.
Mentre esalta lo stupore di Stendhal che dopo aver visto la Madonna di Loreto si meravigliò che l’artista di cotanto splendore potesse essere un assassino, come ormai ovunque la cultura del romanticismo lo andava etichettando, aprendo la strada ai primi romanzi da cappa e spada il cui protagonista era proprio Caravaggio, E infatti dopo il 1834 si ha notizia
“di un romanzo di un anonimo del 1842, edito da Pirola a Milano, e del dramma in cinque atti, pubblicato a Napoli nel 1848 Michelangelo da Caravaggio, del pittore Luigi Marta. Caravaggio diviene così l’Idealtypus dell’artista maledetto.”[45]
Ed è così, rileva Longhi, che il caravaggismo pian piano scompare dalla scena europea pur avendo tracciato i percorsi che avrebbero fruttato onori a Velàsquez, a Rembrant, o a Veermer. Solo l’Italia rimase inchiodata a quello che Longhi definisce “quel carico di Rinascimento” che da solo bastava a fare la gloria di un paese.
Proprio per questo ritengo che un grande merito di Longhi sia stato quello di aver dato una scossa a un ambiente artistico comodamente adagiato sugli allori rinascimentali, per far scoprire all’Italia e al mondo, un nuovo e altrettanto prezioso tesoro; e non è un caso che lo abbia fatto puntando il dito contro la faziosità palese con cui si è tramandata la vicenda umana e artistica del Caravaggio, perché da questa consapevolezza si è originata anzitutto la necessità di una rilettura critica delle fonti biografiche, utile ad avvicinare – se non raggiungere – la verità storica su molte delle notizie in esse riportate. Sebbene, lo stesso storico fosse cosciente che ciascuna di queste fonti si fosse sostanzialmente rifatta alle precedenti, con minime varianti personali in base all’autore, ma rimanendo comunque saldamente nel solco del “pensiero omologato”. E questo perché, la motivazione primaria di ciascun autore era per lo più di carattere autoreferenziale; scrivere le biografie degli artisti sembrava il coronamento letterario – e dunque prestigioso – alla fine di una carriera. E certamente, discostarsi dal “sentire comune” non pagava quanto mostrarsi opportunamente allineati.
Ma è evidente che, procedere oltre da questo ragionamento, per la critica, necessitava di un tempo storico specifico, nonché di una motivazione culturale comune; e il Novecento era il secolo giusto, quello delle lotte di classe e dell’affermazione dei diritti sociali, delle rivoluzioni ideologiche in cui un artista “di rottura” come il Caravaggio trovava la sua collocazione ottimale. D’altra parte, solo con le nuove metodologie di ricerca, che proprio nel Novecento si sono sviluppate, la vita e l’opera del maestro lombardo si sono potute studiare e scandagliare, così da rivalutarne, col supporto di prove scientifiche e documentarie, il valore assoluto.
C’è un tempo per tutto e Caravaggio ha dovuto attendere quattro secoli di progresso, tecnico e culturale, per veder riconosciuti i propri meriti artistici, e ridimensionate nell’opinione comune, le sue asperità caratteriali; e siccome il tempo è galantuomo, ha ripagato con gli interessi quei lunghi anni di indifferenza colposa e ingiusta. E se oggi Michelangelo Merisi da Caravaggio è forse il più osannato tra gli artisti del Seicento, lo deve – ma direi meglio, dobbiamo – certamente a Roberto Longhi.
©Francesca SARACENO Catania, 4 giugno 2023NOTE