di Francesca BECONCINI
Ruggero Bacone sintetizza le caratteristiche dell’alchimia con queste parole:
“L’Alchimia è duplice: speculativa, ovvero che specula su tutte le cose inanimate e sulla generazione di tutte le cose dagli elementi. E’ anche operativa e pratica, ovvero insegna a fare artificialmente i metalli nobili, i colori e altre cose, meglio ed in maggior quantità di quanto non siano fatte in natura. Dunque questa scienza è utile di per sé; e inoltre, con le sue opere, conferisce certezza all’alchimia speculativa e di conseguenza anche alla filosofia naturale e alla medicina, come si può vedere nei libri dei medici”[1].
Baldinucci nel Vocabolario Toscano dell’Arte e del Disegno (Firenze 1681) rubrica così la voce “Calcinare”:
“Termine alchimico, e vale fare a’ metalli nel fornello, quel medesimo che si fa a’ sassi nella fornace, per farne calcina. Questo stesso si fa a diverse pietre e terre; donde si cavano bellissimi colori per dipignere”
Il senso della sublimazione è di separare la quintessenza, la matrice materiale purissima del metallo dal composto corruttibile dei quattro elementi attraverso ripetute elevazioni e discese, trasformando il composto iniziale: la rinascita alchemica si attua mediante la metamorfosi.
“Il modo per elevazione consiste nel prendere la tuzia..Sia messa poi nel suo vaso di sublimazione a sublimare; per mezzo di un eccellentissimo grado di fuoco se ne elevi la parte più sottile, che è stata trovata di fulgentissimo splendore”.[2]
“Facciamo la sublimazione per tre motivi: innanzitutto perché il corpo diventi spirituale, in secondo luogo perché lo spirito diventi corporale e si fissi con quello e diventi consustanziale. Il terzo motivo è (che il corpo) si purghi dell’impurità originaria e ne sia diminuita la salsedine sulfurea, ed (entrambi ) sublimino in l’alto come neve molto bianca”[3]
La tecnica operativa dell’Opera Alchemica, la passione dei metalli nel crogiolo, è stata accostata dagli alchimisti cristiani a quella di Gesù, al suo passaggio sulla croce che è un simbolo antichissimo comune a molte religioni; in alchimia indica anche il crogiolo così come rappresenta il simbolo elementare dell’irraggiamento luminoso che, sottolinea Fulcanelli, è fuoco rarefatto.
Raimondo Lullo (XIII sec) è stato tra i primi ad evidenziare il parallelo tra pietra filosofale e Gesù nel suo Codicillo[4] essendo entrambi vocati a realizzare un’azione di rinnovamento e purificazione della materia e dell’umanità.
Figura 1, (2 – 3 Alchimisti, Tutia, minerali di Zn)
La bianchezza dei fiocchi dell’ossido di zinco è tale che molti alchimisti hanno ritenuto che questo metallo fosse la loro Grande Opera, ed hanno con esso realizzato cose bellissime; così riferisce l’abate Pernety:
“I Filosofi dicono che quando la bianchezza sopraggiunge alla materia della Grande Opera, la vita ha vinto la morte, il loro Re è resuscitato, il Cielo e la Terra si sono sposati; e ciò perché la bianchezza indica il matrimonio e l’unione del fisso e del volatile, del maschio e della femmina. La bianchezza che appare dopo la putrefazione dimostra che l’artista ha operato bene…”.[5]
Alla voce “bianco del nero” l’abate precisa che il bianco perfetto si ottiene solo attraversando il colore nero, vero indice della completa putrefazione; la morte, la dissoluzione precedono la rinascita. Il percorso alchemico che conduce alla rigenerazione, alla vita futura promessa da Dioniso, passa attraverso la sostanza oscura ed informe ottenuta dal misto indifferenziato dei quattro elementi: il dio deve affrontare il proprio dissolvimento.
Trasposto in tecnica di laboratorio questo misto informe si ricava al termine della solutio, durante il nigredo, prima fase dell’Opera. E’ dal buio del nigredo che l’uomo inizia a cercare Dio
“a tentoni” (Atti 17,27) “Quel che tu hai seminato non vive se prima non muore” (I Cor. 15,36), “Nel profondo del mare vi sono ricchezze incomparabili ma se cerchi la sicurezza è a riva” (Saadi, XIII sec.)[6].
Nel mito di Zagreo Atena recupera il cuore di Dioniso, sbranato dai Titani,[7] lo rinchiude in una statua di gesso, nella quale soffia la vita; nelle favole egizie Osiride è smembrato da Seth, restituito alla vita, egli condivide con Iside il trono degli inferi ma si rigenera nel figlio Oro, signore del mondo superiore. Osiride ritrova in Oro la sua fedele immagine, così come Dioniso si rigenera, immortale, nella statua di gesso.
Il gesso, solfato di calcio, o il carbonato, sono stati usati quasi esclusivamente negli strati preparatori dei dipinti ad olio; raramente e solo in dipinti del Seicento, si ritrovano nell’impasto dei pigmenti della stesura pittorica (Paolo Bensi). Nell’impasto dei colori della finitura, il gesso è stato rilevato sia nel Bacco svizzero che nelle Storie di San Matteo. Le opere hanno, infatti, forti analogie cromatiche oltre che stilistiche. L’utilizzo di gesso ha conferito imponenza scultorea alle Storie di San Matteo, che sostituirono un gruppo marmoreo del Cobaert[8] nella cappella Contarelli a San Luigi, così come al Bacco, nella sua palingenesi.
Dal raffronto delle sequenze stratigrafiche dei campioni di pigmento prelevati dal Bacco e dalle “Storie” sono evidenti le analogie relative alla tecnica pittorica sia per l’inconsueto uso del calcio, sia per il numero ridottissimo di strati pittorici e di preparazione. E’ un fatto notorio che i capolavori di Caravaggio, da Roma a Malta, dai dipinti accurati nel dettaglio visivo a quelli di “tratto espressionista”, rechino tale caratteristica. Si vedano, per citarne altri, le stratigrafie delle opere della Cappella Cerasi, la Flagellazione (Napoli), i dipinti siciliani, la Madonna dei Palafrenieri, la Decollazione del Battista, la Morte della Madonna.
E’ una scelta esecutiva che ha precedenti nella seconda metà del cinquecento in alcune opere di scuola veneziana[9].
I dipinti realizzati con pochi strati preparatori assorbono meglio il legante e permettono che il dipinto conservi elasticità nel tempo. Le opere acquistano questa qualità quando non sono più separate da rigidi strati di gesso dalla tela, e quando il “gesso sottile” è miscelato con altri pigmenti che prevengono i fenomeni d’invecchiamento quali screpolature, distacchi ed assorbimento di umidità; è così facilitato inoltre il trasporto delle tele arrotolate. Michelangelo mette a profitto questa tecnica di conservazione dei dipinti che è consona alla sua tipica pennellata rapinosa.
Nel Bacco svizzero, calcio zinco, bario, che completano il pigmento bianco, richiamano il concetto di lux, prima forma del cosmo.
L’effetto massivo del colore bianco è poi potenziato dal diverso spessore dello strato pittorico, quest’ultimo visibilmente più corposo nelle parti in luce rispetto alle zone in ombra. Il risultato, se osservato in ambiente adeguatamente illuminato, è notevole. Bacco emerge dalle tenebre in un’aura divina. E’ un’ottimo impasto per conferire un impatto visivo penetrante a ciò che nella sua sintesi ermetica rappresenta l’inizio e la fine di ogni cosa. Nella parte in luce del dipinto, il busto del dio, il pittore ha steso strati pittorici più spessi che insieme alla qualità delle sostanze minerali hanno dato all’immagine un’impressione tridimensionale e realistica, un’estensione comunicativa (figure 4 e 5).
Dal sapiente utilizzo della luce/fuoco, unica causa della creazione, dipende anche il successo dell’arte di Caravaggio. Nel Bacco dipinto la qualità della luce, la sua forza informante, è resa non solo da un impasto che contiene materiali riflettenti, fosforescenti in abbondanza, ma anche magnificando il contrasto luce/tenebra col variare dello spessore dei pochi strati pittorici. La sicurezza della mano è conforme al momento capitale, all’esigenza di significare l’imperiosità della teofania, del comando che è all’origine del cosmo. “Il magistrale uso del pennello conferisce effetti ottici e materici all’opera “ (Lapucci)[10]
E’ un sofisticato e peculiare sfruttamento della preparazione e dell’imprimitura,
“Il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello, avendovi lavorato con tanta fierezza che lasciò in mezze tinte l’imprimatura della tela..Pigliando un lume alto e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza con veemenza di chiaro e di scuro (Bellori)”.
La preparazione attorno al capo ed alla spalla è leggermente velata per creare mezza ombra ed aumentare la profondità, la forza scultorea della spalla. La centralità visiva della spalla è identica a quella del carnefice del “Martirio di S.Matteo”, che, come ebbe a dire il Marangoni –1922- diviene “testa” perché in essa si risolve tutta la drammaticità del dipinto, è il fulcro del movimento, dell’uccisione. Altro movimento è quello impresso dalla spalla del Bacco, di Dioniso, è il movimento astratto e reale della luce-vita, una cosmogonia ed anche la palingenesi del rigenerato dopo la catabasi, talché
“…Colui che muore a questo mondo incontra la visione del mondo della luce senza dover compiere un movimento, perché è lui stesso nel mondo della luce” (Sohravardi)[11].
Pennellate vorticose elevano la massa volumetrica della spalla, del deltoide e con essa tutta la figura del dio, il cui nudo è scolpito in modo identico a quello del carnefice delle “Storie di S.Matteo”.
Il nero nelle carni del Bacco svizzero [12], come la “terra”, che compare sotto le unghie della divinità attestano la completa riuscita di questa fase dell’opus: la materia al bianco dopo il nigredo, l’uccisione di Dioniso e la sua rinascita immortale. La rigenerazione del dio si esprime attraverso lo zinco, il cui minerale calcinato si riforma in ossido di bianco niveo che indica il ritorno all’Olimpo di Zagreus ed, ermeticamente, il secondo Adamo, il ricongiungimento all’Anima Mundi, allo Spirito Universale.
La luminosità del dipinto, del sorgere statuario della divinità dalle tenebre, deve la sua brillantezza all’aggiunta di bario (lapis solaris). Il rosso del viso e delle mani completa infine la sequenza dei colori dell’Opera alchemica: nero, bianco, rosso; quest’ultimo attesta la maturità della Pietra Filosofale (figura 6).
Il realismo, l’immanenza di quella forza, forte in ogni cosa, di quel fuoco primigenio che è radice di ogni manifestazione, si rivela nel colore rosso che accende anche i volti dei personaggi di Caravaggio.
“Si stima aver esso rovinata la pittura, poiché molti giovani ad esempio di lui non studiano né fondamenti del disegno e della profondità dell’arte, solamente del colorito appagansi..”(G. Baglione, 1642).
Caravaggio, il primo pittore moderno, il primo pittore impressionista. Con quella “Macchia furbesca che non dà conto del buon contorno” (Orlandi, Abecedario Pittorico, 1709) Caravaggio rompe gli schemi pittorici tradizionali, intuisce la maggior efficacia espressiva del colore rispetto al disegno. Anche nel Bacco è assente una preparazione attentamente meditata della composizione.
”Dall’esame tecnico deriva la convinzione di una straordinaria sicurezza della mano, e di una superba capacità progettuale nel vedere con l’immaginazione il risultato finale complessivo, da ammirare poi alla distanza, pur avendo il pittore davanti a sé in molte zone, durante l’esecuzione, poco più della scabrosità della tela”,
riferisce il Bonsanti nella relazione di restauro della “Decollazione del Battista”. Analoga è la constatazione del Prof. Spinosa relative al risultato delle indagini stratigrafiche della “Flagellazione” (Napoli), “La presenza di un numero ridottissimo di strati pittorici a sottolineare la straordinaria rapidità di esecuzione”.
Nel 1973 Corrado Maltese scriveva:
” I metodi di Tiziano saranno fondamentali per il Barocco, ed in quest’epoca si diffonde l’uso del bozzetto… questo non è il caso di Caravaggio, che la poetica naturalistica porta a fare, già a livello di preparazione, una pittura quasi compiuta e precisa in ogni particolare, definita nei chiari e negli scuri… E non a caso nei dipinti del Caravaggio si ritrova quello spessore in profondità nello smalto della materia che non è piu’ altrove reperibile”.[13]
“Se infatti in un’opera non sussiste ritardo o passaggio attraverso gradi progressivi o pentimento, ciò significa che nell’agente non esiste ambiguità. Orbene un intuito di tal genere noi lo chiamiamo per traslato intelligenza, ma non nel senso che vi si effettui un progressivo processo conoscitivo di una in altra cosa, bensì nel senso che in essa si realizza un mutuo legame di interdipendenze fra le varie operazioni che quell’intelligenza compie. Chi non è in grado di compiere un’opera è costretto a pensarci, mentre gli artisti completi e perfetti non devono affatto pensare per creare, ma creano per conseguenza diretta della loro struttura spirituale, esattamente come la natura crea direttamente le forme” (Ficino, Teologia Platonica)[14].
Caravaggio coglie la verità della natura, suprema maestra, elabora i concetti naturalistici partendo dallo spirito umano; lo studio della natura è filosofia dello spirito sia per il Merisi che per l’alchimista. Michelangelo rifugge ogni intonazione decorativa, elimina i paesaggi di sfondo, riduce le tinte come Giorgione, rimane il modello di“terra”, l’uomo – e la luce della sua anima.
“Costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando a’ pittori l’imitazione” (Bellori).
L’alchimista imita la Natura nell’Opera, è “Simia Dei”; così è il nostro pittore che nel rossore dei volti fa ardere il fuoco primordiale,[15] sangue spirituale e simbolo della regalità dell’uomo nascosta nel realismo disadorno dei personaggi. Michelangelo deve essere apparso al cardinale come un alchimista in pectore, l’uomo che si confronta con l’esistente affrancato da sovrastrutture concettuali; la sua arte è tanto vicina ai concetti di semplicità, naturalezza, espressività che Vincenzo Galilei aveva espresso nel “Dialogo sopra la musica antica e moderna”. Certo, questo pittore lombardo è troppo impulsivo ed irascibile per dedicarsi con profitto alle “Opera” “Ciò che va tolto dai corpi imperfetti è il solfo inutile e la terrestrità impura” (Geber, Summa), ma i Baglioni, gli Zuccari, i D’Arpino non hanno alcuna attitudine per diffondere la fama del Del Monte. Dipinga Caravaggio un Bacco “da sé allo specchio” ed interpreti così il ruolo che la storia gli ha assegnato, scriva il manifesto della sua rivoluzione libero di esprimersi a Palazzo Madama, libero dal bisogno.
Caravaggio, uomo dal cervello stravagantissimo quando è abbandonato dalla sua inquietudine meditabonda, s’immerge in una realtà ancestrale, ove corpo ed anima, finito – infinito, dentro – fuori non si distinguono e le forme dell’intelletto, dell’esperienza empirica si mondano dei falsi simulacri nel calore del fuoco che alimenta l’eterna danza della vita. Qui si esprime l’arte vivente, qui è nato Bacco, simbolo eccellente che riassume le regole della Grande Opera, ne ispira il mistero, ne diventa apparizione.
Il fermento culturale e sperimentale del Cardinal del Monte e del di lui fratello Guidobaldo, dei circoli galileiani e neoplatonici sicuramente suggerisce a Caravaggio l’utilizzo di materiali e procedimenti in uso nei laboratori (figura 7) degli stessi e comunque noti nell’ambiente del collezionismo naturalistico;
Michele Mercati, direttore della Metallotheca Vaticana (figura 7 bis), la prima collezione mineralogica in Europa, collaborava con il cardinal del Monte e Ferdinando I [16] che, come è noto, sviluppavano ricerche e progetti di studio medico, naturalistico ed artistico potendo contare sull’eccellenza organizzativa della Galleria dei lavori a Firenze e di quella istituita da Del Monte a Roma ad imitazione della prima.[17]
L’artista approfitta delle risorse conoscitive dei blasonati nel tentativo di riprodurre nell’opera d’arte la visione immaginale della stessa. Come è sempre stato, dalle caverne ai computer, il supporto materiale dell’immagine dell’artista, la sua corporificazione e la sua comunicazione si sono espressi anche in ragione della disponibilità della coeva tecnologia. I progressi dell’ottica,[18] la riscoperta dei derivati dell’antica metallurgia è ciò che dalla vulcanica fonte conoscitiva e sapienziale di uomini dai poliedrici interessi è entrato nel repertorio degli “effetti speciali” di Caravaggio mentre l’intelligenza del suo cuore percepiva l’archetipo simbolico della luce.
L’attenzione che Del Monte dedicava al nuovo metodo scientifico così come alla tradizione sapienziale testimoniano l’eccentricità del Cardinale rispetto alle dottrine ufficiali della Chiesa e soprattutto sottolineano come il suo approccio allo studio ed alla conoscenza non soffrisse di alcun pregiudizio ideologico e religioso.
“Perché mai trascurare gli interessi umani? Il vero competente riesce senza difficoltà a occuparsi degli affari e dell’immortalità. Mentre in privato osserva rigorosamente la via dello yang sheng, pubblicamente è impegnato negli affari mondani. In tal modo raggiunge una grande perfezione, perché è tenuto a controllarsi…Una tale persona è eccellente. Se si riconosce viceversa di non avere forze sufficienti per dedicarsi alle cose del mondo e all’immortalità, si tralascino quelle e ci si dedichi al tao tè (la via della verità); chi fa così ha un grado minore di eccellenza”[19].
Il cardinale Francesco Maria del Monte era un vero competente.
La prima via, quella mondana, appartiene al mondo del potere che, per sua stessa esistenza e bellezza, si sviluppa tra opposti, luce e tenebre, guerra e pace, sazietà e fame, giorno e notte… Per sopravvivere in questa dimensione, è necessario classificare, separare, organizzare il molteplice in modo chiaro. Linguaggi, idiomi, devono rendere esattamente la differenza tra questo e quello. Devono dividere. La parola dividere deriva dal greco διαβάλλειν che è anche l’etimo di diavolo.
Ubi societas ibi ius. La stessa convivenza civile si fonda necessariamente sulla divisione; il diritto, che è una tecnica dei rapporti umani, non sviluppa prospettive metafisiche dell’agire, nelle società liberali. Di conseguenza, perseguire l’altra via, quella dell’immortalità, importa un impegno diametralmente contrario a quello richiesto negli affari mondani.
La via dell’immortalità, la via universale, unisce, ripercorrendo a ritroso il cammino dall’Uno al Tutto. Si esprime attraverso simboli, la cui radice è συμβάλλein, mettere insieme, riunire ciò che è disperso, separato.
“Una sola cosa è la sapienza: conoscere l’intendimento che governa tutte le cose attraverso tutte le cose” (Eraclito, fr 35).
“E quando avremo raggiunto la scala, (la scala di Giacobbe è protesa dal fondo della terra al sommo dei cieli), filosofando secondo i gradi della scala, e cioè della natura, tutto scrutando dal centro al centro, ora discenderemo lacerando con violenza titanica l’uno nei molti, quasi fosse Osiride; ora raccogliendo con forza apollinea i molti nell’uno, come le membra di Osiride, ci innalzeremo finché nel seno del Padre, che è al sommo della scala, riposeremo nella beatitudine teologica” (Pico, Heptaplus)[20].
Dioniso è l’Osiride greco-cretese. Il primo smembrato e divorato dai Titani, il secondo fatto a pezzi dal fratello Seth. Entrambi riacquistano la loro dignità divina. La y dei pitagorici, l’ermafroditismo di Dioniso orfico, vogliono significare l’unità fondamentale della Natura e le sue due vie, all’insù ed all’ingiù. “Una e la stessa è la via all’in su e la via all’ingiù’” (Eraclito fr 60). Dioniso ci affretta, in basso, verso acque tumultuose, in alto verso acque gelate, lavate con il fuoco.
Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento.
Il nostro cardinale, fortunato per nascita e lignaggio benché di salute gracile, dotato di una mente brillante, esercitò la doppia via degli antichi con le virtù cristiane. Con la Prudenza, edificò per se stesso. Prudentia, che nel mausoleo di Francesco II, duca di Bretagna, è scolpita con uno specchio convesso, specchio della Verità e materia universale, nella mano sinistra. Prudentia era, con Simplicitas, il motto favorito dei maestri di Alchimia, Basilio Valentino e Senior Zadith (Fulcanelli)[21].
Con la Carità, invece, Francesco Maria Del Monte edificò per gli altri nelle cose del mondo.
Politicamente, le cose del mondo erano in profondo subbuglio, si stavano colliquando i vecchi codici culturali. Si stava concludendo l’età del rame. I Templari, prigionieri nel mastro di Chinon, in attesa del supplizio, avevano inciso sulla pietra un cerchio con le quattro età dell’uomo[22]. Terminate quello dell’oro e dell’argento, nel 1308 si era a metà di quella del rame. Dal 1600 sarebbe iniziati i sei secoli dell’età del ferro.
Il processo, che condusse al passaggio dal Medioevo al Rinascimento con epocali cambiamenti, era iniziato, secondo Fulcanelli, nel Basso Medioevo. Questo era stato la culla di un nuovo pensiero. L’alchimia greca ed araba (figura 8) e la scienza mediorientale erano penetrate in Occidente attraverso Bisanzio, le crociate, la Spagna – in cui erano fiorite scuole di traduzione dall’arabo al latino con Gherardo da Cremona, Roberto di Chester, Giovanni di Siviglia, Domenico Gustavo, Marco di Toledo, Ugo di Santalla – e la Francia con la scuola di Chartres.
Il riformismo religioso e quello politico, con l’affermarsi delle monarchie nazionali, affrettarono l’evoluzione delle idee minando l’universalismo cattolico ed il Sacro Romano Impero.
Il sistema dottrinario della Chiesa iniziò ad essere messo in discussione proprio all’interno degli ordini monastici che si dedicarono allo studio del sapere arabo e greco. I religiosi, sia perché mediamente molto più acculturati dei laici, sia per la loro vita elettiva di meditazione e riflessione che spesso si svolgeva nel silenzio dei loro ritiri tra paesaggi di bellezza incantevole, per primi coltivarono lo studio dell’ermetismo che indicava nuove vie per accostarsi alla filosofia naturale ed alla metafisica. I Francescani, Frate Elia, Giovanni da Rupescissa ebbero interessi alchemici; Raimondo Lullo e Ruggero Bacone furono tra i primi studiosi empiristi della Chiesa, oltre che conoscitori della tradizione sapienziale, dell’Alchimia. Gli ordini monastici, soprattutto quelli mendicanti, Francescani e Domenicani (Alberto Magno, Tommaso d’Aquino), infusero energia, vero fuoco, alle membra stanche della Chiesa, degenerata nel clericalismo.
Il loro apporto non si esaurì nell’elaborazione teologica e filosofica, ma nei loro scritti è evidente l’importanza che attribuivano alla sperimentazione ed all’indagine nello studio della natura. “Nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu” (Tommaso d’Aquino, De Veritate). Precisa Michele Maier che l’Alchimia fu introdotta in Germania da Alberto Magno.
Questi … per primo, dopo gli Arabi o Mori, indagò perfettamente la chimica e la trasmise ai Tedeschi.[23]
L’Ermetismo e la nuova scienza determinarono ed accompagnarono il trapasso all’età moderna che si andava distendendo dagli sconvolgimenti politici e sociali della fine dell’età medioevale. Tuttavia, come insegna la storia, i tempi di assorbimento sociale di nuovi fondamenti ideologici sono lunghi; la massa deve assimilarli e la spinta inerziale della tradizione e del diritto, elemento quest’ultimo conservatore per eccellenza delle culture in declino, rallentano il cambiamento.
La fase di trapasso all’epoca moderna generò sia insicurezza, disagio nella collettività, che azioni violentemente reazionarie da parte del potere minacciato. Di fronte a tali problematiche di cambiamento la Chiesa si ricordò allora che solo “un vecchio parente”, il demonio, poteva aver tramato con il suo universalismo negativo contro il mondo cristiano. La risposta più esauriente della cultura dominante fu quindi l’elaborazione del paradigma demonologico. La stampa, prodotto rinascimentale, diffuse insieme l’intelligenza degli umanisti ed il Malleus Maleficarum (Il Martello delle Streghe)[24]
L’estrema difesa della visione totalitaristica e totalizzante della Chiesa spesso ottiene il consenso del popolo che può proiettare il proprio disagio psicologico, sociale, sul nuovo modello di deviante: l’adoratore del diavolo. Il rogo diventa atto terapeutico per la salvezza della società, della strega, di Dio stesso [25]; comminare la pena del rogo è, per legislatori e giudici, consequenziale applicazione del precetto biblico:
”Quelli che non credono in me saranno gettati via come rami secchi. Gli uomini li raccatteranno e li getteranno nel fuoco e saranno bruciati (Giovanni 15-16).
La reazione del popolo di fronte al capovolgimento di un codice culturale antico e consolidato è reazione al trauma, thauma in senso aristotelico, ciò che produce meraviglia, sconcerto, paura del diverso; è una grossolana terapia di gruppo. La reazione dei pontefici è invece quella di organizzare il più efficace instrumentum regni; l’interpretazione estensiva del concetto di eresia infatti fornisce, per l’estrema genericità del comportamento perseguito, una spiegazione utile e pia per tutto quello che si vuole distruggere, rilanciando in modo più deciso la politica del consenso o repressione.
L’autorità secolare della Chiesa, rafforzata dall’aver supplito ai vuoti normativi del Feudalesimo, vanta una tecnica processuale infallibile per ottenere la pianificazione del controllo delle coscienze: il processo inquisitorio, la sua istruttoria e l’inversione dell’onere della prova. Siamo ancora lontani dal tardo umanesimo giuridico che otterrà riconoscimento verso la fine del ‘700 con “Dei delitti e delle pene” del Beccaria. La legge penale in epoca rinascimentale ignora il conflitto fra morale religiosa e morale giuridica nella commistione reato – peccato.[26]
Solo la fascinazione, esercitata dall’ermetismo su principi e papi, fece sì che il numero di maghi condannati, consapevolmente eretici, fosse enormemente inferiore al numero di disadattati e derelitti saliti sul rogo a furor di popolo. Il Cardinal Del Monte ed il cattolicesimo platonico tentarono di rinnovare dall’interno l’idea cristiana, di mediare in questo sofferto tempo di trasformazione, ponendo in essere un grande sforzo sincretico, conciliativo.
Avanzando la tesi della continuità teologica della storia della religione, essi fondarono istanze liberali, pluralistiche, in cui è riposto il senso del Rinascimento. Dio stesso si compiace e delizia nella molteplicità delle dottrine di fede, unico è perciò Dio, molteplici gli occhi che Egli ha dato agli uomini per guardarlo.
Cusano (De Pace fidei), Ficino (De Christiana religione) e Pico (Libertas Credendi) aspirano ad una religione universale perché universale è l’anima dell’uomo.
”Così invero tutti i possibili modi di dire si trovano sotto la stessa teologia, mentre tentano d’esprimere in qualsiasi modo l’identico ineffabile” (Cusano – La Filiazione di Dio).
Francesco Maria Del Monte, legato a Ferdinando dei Medici da affetto ed affinità culturali, era filo-francese, contro la morsa intollerante della Spagna e dell’Inquisizione, nemici pericolosi dell’indipendenza dello spirito e del progresso dell’intelletto.
Nel centro-nord Europa, (Figura 9) la cultura ermetica, che sotto il profilo politico aveva radici protestanti, calviniste ed ugonotte, finì per confluire nell’internazionale chimica-paracelsiana.
Con fasi alterne, il messaggio alchemico era penetrato anche presso le corti cattoliche, l’imperatore Rodolfo II, le corti italiane e Venezia. Del Monte, nato a Venezia, mantenne sempre stretti rapporti con la Repubblica che aveva consolidato la sua orgogliosa indipendenza e la sua vocazione cosmopolita. Qui i filosofi respiravano un’aria alessandrina, clemente; crocevia fra Mitteleuropa, Oriente e Mediterraneo, traboccava di esuberanza nelle arti, nei mestieri. Sapienza manuale ed immaginale creativo degli artigiani mantenevano lo sfarzo della Repubblica. Eruditi, pittori ed alchimisti si scambiavano suggestioni ed idee che la serenissima editoria proteggeva dall’oblio.
A Venezia, il Cardinale non trascurò di condividere nuove esperienze conoscitive teoriche e sperimentali (non era peraltro un apporto originale l’utilizzo dello zinco come ossido e solfato in pittura, posto che già da secoli Venezia importava dalle Indie il pigmento, noto come bianco cinese, mentre i rapporti artistici e commerciali con le Fiandre e la Germania avevano, senza dubbio, suggerito ai pittori-doratori il ricorso al solfato o all’ossido per magnificare la brillantezza della doratura). Francesco Maria Del Monte rafforzò il nuovo asse della culturale artistica, scientifica ed ermetica fra Firenze, Venezia, Roma.
A Firenze, che con l’Accademia era stata il fondamentale centro di diffusione della nuova cultura umanistica-platonica, l’Ermetismo e l’iconografia mito-alchemica (Il Quartiere degli Elementi di Palazzo Vecchio, le mascherate del 1566: il Trionfo de sogni e la Genealogia degl’Iddei)[27] ebbero parte nel programma propagandistico e celebrativo del potere dei Medici sia all’interno del principato che rispetto alle corti del nord e all’impero. Antichi dei e tradizioni sapienziali costituirono la giustificazione, il crisma della sovranità del potere mediceo, oltre a fornire ai principi una protezione talismanica.
L’idea di un mistico imperialismo si era fatta strada nelle corti europee; dall’Inghilterra a Praga maghi ed alchimisti, viaggiatori instancabili, diffondevano la nuova filosofia (Agrippa, John Dee, Michael Maier, Bruno) le opere del veneziano Francesco Giorgi, di Johannes Reuchlin, di Campanella erano note in tutti gli ambienti colti. John Dee, figlio di un funzionario di Enrico VIII, dedicò la prima versione della Monas Hieroglyphica all’imperatore Massimiliano II, padre del futuro imperatore occultista Rodolfo II, nella speranza che il secondo promuovesse una riforma imperiale occulta sotto il simbolo della Monas, la monade che domina il soffitto dello studiolo del Cardinal Del Monte a Villa Ludovisi. In Inghilterra Dee si appellò ad Elisabetta I nutrendo la stessa speranza di rinnovamento profondo. Il poeta inglese neoplatonico, Edmund Spenser (The Faire Queene) di cui fu mentore Dee, presenta Elisabetta come eroina neoplatonica che sfida la Controriforma traendo la propria forza dalla filosofia occulta.
Il movimento paracelsiano incarnava la filosofia naturale dell’Accademia Platonica, il misticismo riformista tedesco combinato con un rivoluzionario approccio medico. I paracelsiani coltivavano scenari di trasformazione del mondo da realizzarsi attraverso una rivoluzione “chimica” che avrebbe condotto ad una nuova età di prosperità ed abbondanza sotto l’egida e la guida della Natura (figura 10). Il buon governante doveva ispirarsi al “cerchio” per fondare il “quadrato” ed armonizzare tutte le sue parti[28].
Saper scrutare costantemente la Misura, si chiama la virtù segreta.[29] Lo studio fisico-metafisico della natura serviva per elaborare precetti di contenuto etico-pratico: conoscere la natura per operare correttamente, essa costituiva il modello vivente che si doveva imitare. Averne cura era cultura e la virtù non consisteva in altro che nell’apprendere e mantenersi fedele alla via che il macrocosmo tracciava al microcosmo.
“Quattro cose grandi ci sono al mondo, e il re è una di queste. Il re si regola sulla terra, la terra si regola sul cielo, il cielo si regola sulla Via, e la Via si regola sul Corso Naturale”[30].[31]
Solo la legge di natura era legge divina; un’idea abbracciata con fervore anche da Tommaso Campanella che, affascinato dalle opere del sensista Bernardino Telesio e dalle correnti ermetiche, non riuscì a coltivare i suoi sogni con pazienza orientale e si affidò alla rivoluzione. Il filosofo calabrese portò a compimento, solo letterario, la “Città del Sole”, chiuso nelle prigioni napoletane.
Con la marcia inesorabile del tempo si diffondeva nel mondo la follia dionisiaca, lo sconvolgimento di fondamenti millenari. Il timore di ciò che è imprevedibile, inatteso, la confusione e l’incertezza legate alla dissoluzione dei vecchi principi, si mescolavano all’entusiasmo ebbro dei rivoluzionari. Fu un’epoca di caos politico e sociale. Si distruggeva un ordine, un sistema, per darne vita ad un altro, nelle intenzioni più elevato. Dioniso spalancava le porte all’età moderna.
Dopo la deposizione di Rodolfo II, grande protettore dei magi-scienziati, le aspirazioni di rinnovamento dei paracelsiani trovarono esaltante quanto effimera soddisfazione nell’elettore palatino; le opere degli alchimisti Oswald Croll e Michael Maier furono rivolte a Christian di Anhalt, consigliere politico di Federico V. Il movimento confluì nella nota società utopistica dei Fratelli della Rosa Croce.[32]
Con la sconfitta di Federico V, elettore palatino e della sua sposa Elisabetta II, nipote di Elisabetta la Grande ed il fallimento della rivoluzione magico-cabalistica, la Mitteleuropa fu dilaniata dalla Guerra dei Trent’anni. Le correnti del pensiero platonico, i principi di riforma del sapere e della società trovarono un porto tranquillo in Inghilterra dove si era formato un importante centro di studi scientifico ermetico che, raccolto intorno a figure come Fludd, Elias Ashmole, Samuel Hartlib, accolse non pochi filosofi tedeschi in fuga dall’imperatore e dal Papa. Da questo movimento culturale si sviluppò la Royal Society.
A Roma, il riformismo di corte del cardinal del Monte fu necessariamente moderato e diplomatico. Egli fece un uso sapiente dei suoi privilegi senza disdegnare la convivialità con i suoi amici, cardinali Montalto ed Aldobrandini ed i politici filomedicei, i Mattei, i Giustiniani, i Crescenzi.
Possiamo concludere –scrive Wazbinski- che attorno al trio, (Del Monte, Montalto, Aldobrandini) nacque un centro politico e culturale particolarmente importante intorno al 1600. Il suo spiritus movens fu senza dubbio il cardinal Del Monte il quale seppe unire in modo geniale il denaro ed il prestigio medicei con l’energia e l’intelligenza della sua famiglia [33].
“Entra, uomo che non cerchi le cose vane, fuori stia Venere, ed a voi ladri, chiudo le porte. Purificato da ogni vizio, lieto, liba il mare di vino genuino, secondo il costume di Bacco. Esulta, se vuoi, tra le uve e liberamente attingi a ciò che desideri…“
Così il marchese Massimiliano Palombara, alchimista a Roma a metà del XVII sec., salutava i suoi ospiti in una epigrafe collocata sul muro esterno del Casino della sua villa. I Platonici riproponevano il motivo del giardino come luogo letterario e fisico dell’alchimia, spazio privilegiato per l’otium, per la meditazione nell’amenità di una natura benigna che sussurra al filosofo frammenti di divini arcani[34] . Nella vigna Del Nero, al Pincio, si respirava la stessa aria. L’eterodossia degli intellettuali, nobili e prelati, si ammantava e nascondeva nell’espressione enigmatica, simbolica, mentre Il nostro porporato, per destino ed elezione, svolgeva la sua opera da cardinale progressista.
Il contributo di Del Monte al miglioramento delle cose del mondo, si espresse attraverso le numerose cariche curiali, diplomatiche ed amministrative. Difese i rivoluzionari Galilei, Campanella, protesse Caravaggio. Gli furono, soprattutto, grate e congeniali le arti, la scienza, la filosofia, la musica.
Esercitare la propria autorità ed influenza per favorire, sostenere ingegni, per migliorare l’uomo attraverso la cultura, l’arte e la bellezza era l’attività sicuramente più gradita a Del Monte. Innamorato di Dama Alchimia, impegnato tra cielo e terra, doveva essere un uomo accessibile al minimo scrupolo. L’esercizio del potere come protettore delle arti aveva un carattere propriamente katholikòs. La stagnazione intellettuale e spirituale erano per lui il vero nemico.
Francesca BECONCINI 5 Giugno 2024
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