di Nica FIORI
Il Casino Giustiniani Massimo è un piccolo gioiello architettonico di Roma, al di fuori dei soliti circuiti turistici, pur essendo vicinissimo alla basilica di San Giovanni in Laterano.
Nonostante la raffinatezza dell’insieme, gli edifici di questo tipo nascevano come ville “rustiche” da contrapporre ai palazzi di città, per far riposare i ricchi proprietari nell’aria salubre di vasti giardini, oltretutto deputati a ospitare parte delle loro raccolte di antichità. In questo caso la villa venne fatta costruire nel 1605 dal marchese Vincenzo Giustiniani (1564-1637), noto soprattutto per essere stato un collezionista e mecenate di Caravaggio, dopo l’acquisto di un ampio appezzamento di terreno che si estendeva tra le attuali vie Merulana, Tasso, Manzoni e Piazza San Giovanni.
Per realizzare la palazzina, egli si rivolse ai migliori architetti del tempo: se non il Borromini, come pure è stato proposto nel passato, Carlo Lambardi, che era attivo in quegli anni per i Giustiniani. Il Casino era certamente già pronto nel 1618, perché figura in una pianta dell’epoca, quella del tedesco Matthäus Greuter. Appare in seguito nelle piante di Gregorio De Rossi del 1668 e di Giovanni Battista Falda del 1676 e in quelle successive, che mostrano le diverse sistemazioni del giardino.
L’edificio, a pianta rettangolare, si affaccia ora su via Matteo Boiardo; è formato da un pian terreno e un primo piano con porte e finestre riquadrate in travertino; sotto il balcone è presente l’aquila, motivo araldico della famiglia. La decorazione delle facciate fu voluta dal principe Andrea Giustiniani (figlio adottivo di Vincenzo, cui andò in eredità il suo patrimonio), utilizzando materiale prelevato da un’altra villa di famiglia, quella fuori Porta del Popolo (non più esistente); vennero inseriti tutt’intorno busti di età imperiale, enormi ritratti di profilo secenteschi e, specialmente tra un piano e l’altro, antiche lastre ricavate da sarcofagi (riproducenti alcuni miti, tra cui quello di Adone, il Ratto di Proserpina e Achille a Sciro), oltre ad alcuni rilievi, che sono in realtà dei pastiches realizzati con reperti archeologici di diversa provenienza. L’ornamentazione all’antica, realizzata a partire dal IV decennio del Seicento, rifletteva il gusto tardo manierista dell’epoca, che si ritrova nel celebre Casino Pallavicini al Quirinale, come pure in quelli delle ville Medici e Borghese.
Sul retro era disposto un loggiato, poi chiuso per migliorare la stabilità dell’edificio nel corso dei lavori di rimaneggiamento della metà del secolo XVIII. Nel 1742 vi veniva trasportata la colossale statua dell’imperatore Giustiniano – cui si riferisce l’iscrizione murata sul fianco dell’edificio – dal quale con molta fantasia la famiglia riteneva di discendere. La statua, ora collocata in fondo al giardino superstite, è anch’essa un pastiche: un assemblaggio secentesco di parti di epoche diverse sulla base di un nucleo scultoreo del II-III secolo (forse relativo a un Apollo) e una testa di Marco Aurelio.
Nel 1803 il complesso venne venduto al marchese Carlo Massimo che, in seguito al successo ottenuto dal gruppo pittorico dei Nazareni nella casa del console generale prussiano Salomon Bartholdy (il terzo piano di palazzo Zuccari), fece affrescare loro le tre sale a piano terra prospicienti il giardino, dando vita tra il 1817 e il 1829 a una singolare opera collettiva.
I Nazareni, così detti dal fervore religioso e dall’aspetto che li faceva assomigliare a Gesù di Nazareth, erano pittori romantici tedeschi che a Roma si erano riuniti in confraternita nel monastero abbandonato di S. Isidoro a Capo le Case. Alla base del loro rinnovamento artistico ponevano la rivalutazione del Medioevo cristiano, e quindi dei pittori cosiddetti “primitivi”, quali Giotto, Masaccio, Beato Angelico, Signorelli, e dei grandi del Rinascimento come Perugino, Raffaello, Michelangelo.
Per la decorazione del Casino, eseguita ad affresco con ritocchi a tempera, i Nazareni s’ispirarono a quella che allora era considerata la triade maggiore della poesia italiana: i poemi di Dante, Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, nell’evidente desiderio di far rivivere un mondo cristiano e cavalleresco, vicino alla loro sensibilità e ispirazione artistica, lasciandoci così la più completa e valida testimonianza del loro soggiorno romano. Proprio per il carattere collettivo dell’esecuzione del lavoro, le stanze non presentano unità di stile, ma sono tutte interessanti esempi di alta letteratura traslata in pittura. Nella sala centrale troneggia più volte lo stemma dei Massimo, mentre alcuni componenti della famiglia compaiono nelle vesti di guerrieri cristiani.
La stanza sulla sinistra è dedicata a Dante ed è quella più impressionante per la rappresentazione dell’Inferno sulle pareti nord (con Dante nella selva oscura, tratto in salvo da Virgilio) e ovest, con Dante e Virgilio affiancati a Minosse, a diavoli dall’aspetto terrificante e ad alcuni dei più noti dannati, come il Conte Ugolino, raffigurato in basso a sinistra mentre morde l’arcivescovo Ruggieri. Pure a sinistra appare in alto una figura femminile, identificabile in Francesca da Rimini. Purtroppo il suo amante Paolo è stato sacrificato quando Cristina di Sassonia, cognata del marchese Massimo, dopo aver ereditato la villa, fece ritoccare alcune pitture che riteneva troppo scandalose.
Queste scene, come pure quelle sulle pareti sud ed est dedicate al Purgatorio (La navicella delle anime e ingresso di Dante e Virgilio al monte del Purgatorio – Penitenza dei sette peccati capitali), sono state realizzate da Joseph Anton Koch (1768-1839), un pittore particolarmente preparato sul poema dantesco e sulle precedenti raffigurazioni del Giudizio universale, non solo quelle celebri di Luca Signorelli nel duomo di Orvieto e di Michelangelo nella Cappella Sistina, ma anche quella trecentesca del Camposanto di Pisa, dalla quale aveva tratto alcuni disegni.
La volta è opera di Philipp Veit (1793-1877) e presenta al centro l’Empireo, entro un ovale delineato da una corona di testine angeliche rese alla maniera del Perugino. Vi è collocata superiormente la Trinità, al centro la Madonna, e, inginocchiati ai suoi piedi, Dante e Bernardo di Chiaravalle, il santo che nel XXXI canto del Paradiso supplica la Vergine perché il poeta possa avere il sommo piacer della visione divina. Intorno all’ovale sono raffigurati gli otto cieli del Paradiso, con una narrazione simultanea che vede una schiera di santi e beati, riconoscibili dai loro attributi, disposti a gruppi e in colloquio con Dante e Beatrice.
La stanza di Ariosto (quella centrale più grande) è stata interamente decorata da Julius Schnorr von Carolsfeld (1794-1872), che “raggiunse esiti originali poiché seppe trattare con naturalezza, vigore e sensibilità cromatica il poema epico, in particolare gli episodi più lirici e fantastici dell’Orlando Furioso”, come si legge nella guida di Monica Minati (Il Casino Giustiniani Massimo al Laterano, Edizioni Terra Santa, 2014). Una delle scene più significative è quella dell’idillio tra Angelica e Medoro. Proprio al di sotto è raffigurato Orlando, il paladino cristiano innamorato della bella Angelica che, dopo aver scoperto di trovarsi nel luogo dove erano precedentemente stati i due amanti, i cui nomi sono stati incisi in un albero, perde il senno (senno che verrà poi ritrovato sulla Luna da Astolfo), si strappa l’armatura e infierisce contro chi incontra sul suo cammino.
Altre scene raffigurano personaggi vari, tra cui quelli femminili di Fiordiligi, Bradamante, Marfisa e le maghe Melissa e Alcina.
Al centro della volta è la grande rappresentazione del Matrimonio di Ruggiero e Bradamante alla presenza di Carlo Magno, matrimonio da cui avrà origine la stirpe degli Este, cui Ariosto dedica il suo poema.
Le quattro vele maggiori della volta raffigurano le battaglie dei cristiani dell’esercito di Carlo Magno contro gli infedeli (Il combattimento di Rinaldo, La battaglia di Lipadusa, La battaglia navale di Dudone e La presa di Biserta), mentre in una lunetta è raffigurato l’arcangelo guerriero, San Michele, con i suoi attributi.
Ricordiamo ancora, sulla parete di fronte all’entrata, le scene con Agramante e l’esercito dei Saraceni davanti Parigi (a sinistra) e Carlo Magno e l’esercito dei Franchi a Parigi (a destra). Sono evidenti le citazioni dall’Incendio di Borgo di Raffaello, come nella giunonica donna di profilo che sale le scale con gli abiti svolazzanti.
Nella stanza di Tasso, al centro della volta è dipinta l’Allegoria della Gerusalemme liberata, opera di Johann Friedrich Overbeck (1789-1869), che realizzò gran parte degli affreschi della sala tra il 1819 e il 1827. La donna che personifica Gerusalemme è seduta entro un’edicola di stile rinascimentale e regge in mano un libro aperto: evidentemente il capolavoro ariostesco. Gli episodi affrescati intorno all’Allegoria raffigurano l’amore tormentato di Armida e Rinaldo, Olindo e Sofronia, Tancredi e Clorinda, ed Erminia tra i pastori.
Particolarmente felice appare il grande affresco della parete nord con al centro Pietro l’Eremita che invita i principi a scegliere Goffredo di Buglione quale loro capo; pure memorabile è la scena sulla parete ovest con i valorosi guerrieri Odoardo e Gildippe (marito e moglie) che vengono uccisi da Solimano.
Questo episodio è l’ultimo raffigurato da Overbeck, che, in seguito alla morte del committente, nel 1827 abbandonò il ciclo pittorico, in quanto riteneva che non fosse più rispondente ai valori propugnati dai Nazareni. Gli subentrò, pertanto, il giovane boemo Joseph von Führich (1800-1876), che completò la parete con uno stile più tendente al barocco, dipingendo al centro Rinaldo nel bosco incantato e sulla destra L’incontro di Rinaldo e Armida sul campo di battaglia. Sulla parete sud Führich raffigurò I Crociati al Santo Sepolcro, con Goffredo di Buglione inginocchiato in adorazione e Pietro l’Eremita con le braccia al cielo per invocare e ringraziare la provvidenza divina.
Le tre stanze affrescate sono veramente affascinanti e, per quanto di dimensioni ridotte, hanno affreschi talmente ricchi di dettagli che senza una adeguata preparazione si rischia di non cogliere il senso di ciò che si vede. L’ideale sarebbe munirsi di una buona guida e poi ricercare nei tre poemi ispiratori i passi relativi agli episodi raffigurati.
Nel 1848 la proprietà passava ai principi Lancellotti, che sul finire del secolo cedettero il vasto parco come area fabbricabile e donarono al Comune di Roma nel 1885 il monumentale portale di accesso, posto ora all’ingresso di Villa Celimontana.
Il portale, attribuito a Carlo Lambardi, stilisticamente sembra appartenere a un momento diverso rispetto all’architettura del Casino e in effetti nell’iscrizione sull’architrave è riportata la data dell’anno giubilare 1625, che non concorda con l’anno di morte dell’architetto, che è il 1619. Non si può escludere, però, che egli avesse fatto disegni relativi al portale, che poi altri hanno forse modificato.
Tra le vicende novecentesche del Casino si ricorda che, durante l’occupazione tedesca di Roma, data la vicinanza con la caserma della Gestapo di Via Tasso, ospitò la mensa dei loro ufficiali. Nel 1947 ciò che restava della villa venne acquistato dai Francescani di Terra Santa, che nel 1951 fecero edificare due basse ali laterali poggianti su un porticato a colonne e congiunte sul fondo da un muro ad andamento semicircolare; il giardino è venuto così ad assumere una forma più regolare trasformandosi in una specie di chiostro.
Al centro, davanti alla statua di Giustiniano, è posta una fontana rustica contornata da qualche capitello, are funerarie, frammenti scultorei antichi, miseri avanzi della ricca raccolta messa insieme da Vincenzo Giustiniani e in seguito progressivamente dispersa per controversie testamentarie.
Nica FIORI Roma 23 gIUGNO 2024
Casino Giustiniani Massimo, via Matteo Boiardo, 16 Roma
Orario: martedì e giovedì ore 9-12 e 16-18; domenica ore 10-12