di Sergio GUARINO
Un corpo a parte
“Io sono un corpo!” (geniale frase urlata da un genio).
(la frase è del principe Antonio de Curtis in Totò sulla luna, 1958).
Nell’arte figurativa della nostra parte del globo terrestre – così ci insegnavano – il corpo perfetto lo avevano scoperto da qualche parte in Grecia nel V secolo avanti Cristo. O meglio, nel forbito linguaggio di una recente e colta definizione:
“In un cantuccio del Mediterraneo chiamato Ellade, più o meno 2500 anni fa, uno strano clinamen stava trasformando la riproduzione tridimensionale del corpo umano”
(Walter Siti, C’era una volta il corpo, Feltrinelli 2024).
Un corpo più maschile che femminile, dal momento che dee e ninfe e giovani donne si preferiva coprirle con vesti, possibilmente aderenti, e sarà necessario portare pazienza ancora per qualche tempo per vedere qualche Venere senza veli.
Da quel momento, un susseguirsi quasi infinito di riflessioni, di intuizioni, di sguardi diretti e obliqui, di alti e bassi, un vortice di Rinascimenti e Rinascenze (copyright Erwin Panofsky), di ansie per un realismo mai raggiunto, tra negazioni drammatiche e affermazioni imperiose e imperative (“Il corpo è mio ! ”). I corpi nell’arte, nudi o coperti di vari panni, si intrecciano con le nostre esistenze: ne abbiamo visti proprio tanti e non sappiamo nemmeno tanto bene cosa preferire, dai muscolari Prigioni michelangioleschi che emergono dalla materia stupendi e tragici, ai Crocifissi straziati e contorti, ai bellissimi San Sebastiani trafitti, alle Eve innocentemente nude, prossime a buttare via l’Eden per mordere un frutto e alle Maddalene discinte e pentite, per approdare al Secolo Breve (ma con lunghissimi orrori), con i corpi snodati di Egon Schiele o quelli monumentali di Diego Rivera (obbligatorio aggiungere “marito di”) nella Cappella di Chapingo e infine a questo primo quarto del secolo nr. 21 d.C., di cui stiamo cercando un senso.
Questo per la visione d’insieme, appresa dai nostri sguardi sulla realtà e poi (o prima?) sui prodotti dell’arte. Ma che succede quando si superano i fatali quindici secondi – il tempo medio che, secondo gli esperti, il pubblico dei musei e delle mostre dedica alle opere esposte (per esperienza temo sia anche minore) – e gli sguardi si soffermano? Cosa avviene quando si passa, come è giusto e doveroso e utile, ai dettagli?
Accade che le cose si complicano, o meglio si moltiplicano: perché un corpo, proprio ogni singolo corpo è fatto di parti ben distinte, ben denominate, precise, con funzioni specifiche frutto di ancestrale evoluzione.
Eccone qui l’elenco, anzi un possibile elenco (non mio), con tanto di maiuscole (mie): Capelli Occhi Nasi Orecchie Labbra Denti Schiena Tette Mani Sederi Vagine Peni (Conte Mascetti: “Gliela vogliamo dare una pennellata di sesso sì o no?”) Piedi. E’ la lista dei tredici capitoli scritti da Stefano Causa e Arabella Cifani (ordine alfabetico) in Corpo a Corpo – Una storia dell’arte dalla testa a piedi (Giunti 2024), un volume che riunisce gli scritti dei due studiosi comparsi tempo addietro online sul Giornale dell’arte nella rubrica Pas de Deux, precisando che la doppia firma è solo su titolo e preambolo, i testi sono individuali.
E’ un libro, prima di tutto, divertente. Il che non è poco, signora mia. Che si può leggere iniziando da dove si vuole (o quasi). Che si può anche sfogliare, curiosando tra le immagini, tante (a occhio oltre centocinquanta), ben impaginate e altrettanto ben stampate. Il sottotitolo è fondamentale. Perché si tratta pur sempre di una storia dell’arte, ovverossia di uno dei possibili racconti di come nel corso del tempo (secoli, millenni o solo pochi anni) le immagini abbiano “preso corpo” e siano arrivate fino a noi in questo presente che è nostro, che ci ha formato e ci forma. Non poteva essere altrimenti, poiché i due autori, malgrado adottino uno stile apparentemente leggero (non cascate nella trappola: non lo è), provengono entrambi (circostanza ben nota che si ripete solo per dovere di cronaca), per vie e geografie diverse, da un lungo e ben folto percorso di ricerche storico-artistiche nel senso più consueto e più bello: vale a dire da una lunga tradizione di riflessioni sul significato del tempo e del passato sulla nostra lettura delle opere d’arte, che diventano – è stato detto più volte – tutte contemporanee dentro di noi.
E’ su questa base che i vari testi del volume – tredici per due uguale ventisei – si snodano, scansando con abilità Scilla e Cariddi, cioè il duplice pericolo della pedante divulgazione (pardon, mediazione didattico-linguistica) e del paludamento autoreferenziale, in favore di un cammino fatto di dettagli, per l’appunto, e di memoria: Causa & Cifani ne parlano nella presentazione, ricordando di averlo fatto “spegnendo Internet”.
Uno snodo interessante è il tentativo, riuscito, di sdoganare (si può ancora usare?) immagini che in senso stretto non appartengono alla categoria Opere d’Arte Riconosciute (ancora le maiuscole) ma al nostro vissuto: il logo-lingua dei Rolling Stones (1971) o la prima foto scandalo di Oliviero Toscani, A.D. 1973 (è arrivata da poco la notizia). Anche se in preponderante maggioranza le riproduzioni sono da pitture/sculture celebri, o aspiranti a diventarlo: quelle prodotte nei secoli per una classe sociale abbastanza ricca o potente da poterle commissionare, non sempre abbastanza colta da poterne cogliere il significato. Nel senso che tutti riconosciamo facilmente un dettaglio anatomico: e poi?
Il problema è capire se si tratta solo di una bella prova di realismo figurativo o se quel tratto e quel particolare rimandino ad altro, a una visione di sé, magari a un modo di intendere il mondo reale.
Le labbra di Pino Pascali nell’Omaggio a Billie Holiday (1964) sono uno splendido omaggio, a cinque anni dalla morte, ad una spettacolare cantante di colore (ecco spiegato il nero), ma sanno farsi capire anche da chi non conosce la sua incisione di Blue Moon.
E qui si gioca tutto, qui continua ad annidarsi (ma forse è meglio dire: esistere) la differenza tra chi sa esprimersi per gli altri (l’artista) e tra chi sa comunicare maldestramente solo sé stesso, senza coinvolgere la rimanente parte del genere umano: per ripetere un vecchio concetto, per riempire sette volumi partendo dal sapore della madeleine della cara zietta devi essere Marcel Proust, altrimenti a pagina due ti fermi perché i lettori si sono già annoiati e tu hai già scritto tutto.
Ecco quindi i denti del Marsia di Ribera (quello che la mia generazione scoprì nella mostra di Capodimonte del 1984 sul Seicento napoletano), dove il preciso realismo pittorico diventa sublime. O la ripresa dal Galata morente (oggi nei Musei Capitolini) operata con sapienza da Caravaggio, per rimanere a Napoli, nella figura di spalle delle Sette opere di misericordia (in attesa di nuovi studi sui rapporti tra il Merisi e l’antico).
In entrambi i casi l’inserto anatomico si scala tra l’esercizio di stile e il desiderio (o l’urgenza) di suggerire, a chi guarda una riflessione sulla storia, che è poi uno dei modi per distinguere, almeno dentro di noi, un’opera d’arte da una illustrazione casuale.
O ancora di più, quando ad essere riprodotte sono le parti più direttamente collegate alla sessualità (come desiderio più che come ginnastica), per vedere la differenza tra erotismo (quando c’è) e pornografia. Come nel caso della perturbante ninfetta della Caccia di Diana di Domenichino che ci guarda così direttamente, e ancora siamo lì a cercare di capire se sia sfacciata o imbarazzata (in ogni caso, complimenti al coiffeur) o dell’Atleta trionfante di Francesco Hayez, così bello e così asettico, o ancora, per chiudere, con la testa fuori proporzione della Maja desnuda di Francesco Goya che finisce per attirare lo sguardo più di quanto faccia il suo corpo ostentato (concordo con Stefano Causa nel considerare L’origine del mondo di Courbet solo “un modesto close-up pseudo ginecologico”, cfr. capitolo Vagine, pp.176-177).
Altrettanto cruda la “toccatina bassa” che Marte, dopo aver deposto a terra la spada, rifila a Venere nel quadro di Lavinia Fontana (a lei riferito da Enrico Maria Da Pozzolo cinque anni or sono): molto più erotiche – in quanto evocatrici di quanto sta per accedere – le scarpette che la dea si è sfilata prima di accostarsi all’alcova.
Si arriva così alla fine del volume, o meglio alle estremità, ai piedi. Dove avviene che si voglia vincere facile (ma ci può stare benissimo), nel confronto tra i piedi del Crocifisso di Cimabue ad Arezzo e quello di Giotto a Santa Maria Novella, piazzando poi nella pagina di destra i piedi del san Giovanni Battista dipinti da Tommaso di Ser Giovanni detto Masaccio in un pannello del Polittico della Neve, sommo e smembrato, che insieme ai piedi inzaccherati del carnefice della Crocifissione di Pietro di Caravaggio sono i brani di più dirompente realismo di tutto il libro. Tanto per rimanere con i piedi per terra.
Sergio GUARINO Roma 19 Gennaio 2025