di Claudio LISTANTI
Successo a Liegi per il Don Carlos parigino di Giuseppe Verdi
Il 30 gennaio scorso è andata in scena all’Opéra Royal de Wallonie di Liegi una nuova produzione del Don Carlos di Giuseppe Verdi con uno spettacolo costruito da Stefano Mazzonis di Pralafera con la direzione d’orchestra di Paolo Arrivabeni ed una apprezzabile compagnia di canto. Il pubblico ha accolto con straordinario favore la proposta applaudendo a lungo, al termine della recita, tutti gli interpreti e gli artisti impegnati.
Mettere in scena un Don Carlos, come tutti gli appassionati d’opera e gli addetti ai lavori ben sanno, è sempre impresa titanica, vuoi per le caratteristiche strutturali del capolavoro di Giuseppe Verdi -che richiede estrema attenzione per la realizzazione scenica e per le difficoltà insite nella stupenda partitura-, vuoi per la scelta dell’edizione musicale da adottare, in quanto l’opera ha avuto un ‘excursus’ particolare nell’ambito di tutta la prodizione verdiana.
Iniziamo la nostra disamina parlando dall’edizione utilizzata. Come è noto Don Carlos occupò più o meno venti anni della vita artistica di Verdi a partire dal 1866 fino a giungere al 1886, iniziando da una partitura originale scritta in francese che è passata attraverso ripensamenti, aggiustamenti, riduzione e sviluppi. Concepito originariamente per le scene parigine, Don Carlos, è strutturato nella forma del grand opéra, un genere che in quell’epoca stava esaurendo la spinta propulsiva ma che servì a Verdi per realizzare la sua idea di opera dopo i trionfi della giovinezza, conclusasi con quelle opere che, impropriamente, vengono definite con il nome di ‘Trilogia popolare’ (Rigoletto, Trovatore e Traviata). Egli dunque aveva individuato come rinnovamento della sua arte la necessità di proporre personaggi dalla personalità ‘poliedrica’ ben inseriti in un contesto storico che definisse con precisione i caratteri per giungere a veri e propri ‘affreschi’ grandiosi che, con la terminologia odierna potrebbero essere definiti ‘kolossal’. Insomma il grand opéra fu per il nostro musicista ‘humus’ ideale per coltivare la sua idea di teatro musicale.
Per capire l’evoluzione di Don Carlos occorre conoscere l’iter delle varie edizioni alle quali Verdi partecipò attivamente. Seguendo la descrizione dei vari stadi della composizione che la musicologa tedesca Ursula Günther utilizza nella prefazione all’edizione critica,sette sono le edizioni da prendere in considerazione. Si parte con quella del 1866, definita ‘versione completa delle prove’ con la quale iniziò la realizzazione della prima assoluta in cui ancora non appare il balletto, elemento indispensabile per una rappresentazione di grand opéra. Poi c’è la ‘versione della prova generale’ del 24 febbraio del 1867 dove compare per la prima volta il balletto ma iniziano a verificarsi tagli che continuarono anche con la terza, quella della prima rappresentazione, avvenuta al Théâtre de l’Académie Impériale de Musique l’ 11 marzo 1867 alla quale segue la quarta scaturita dopo la seconda rappresentazione del 13 marzo 1867. Fin qui furono espunti 8 pezzi; operazione dovuta ai capricci dei cantanti ma anche a problemi temporali di durata con dei ‘paletti’ che stabilivano che l’opera non poteva iniziare prima delle 19 per consentire al pubblico di cenare e che doveva terminare entro le 24 per consentire al pubblico di tornare a casa visto che l’ultimo treno delle linee suburbane partiva a mezzanotte e 35.
Poi si passa alle versioni italiane a partire da quella del San Carlo di Napoli del 1872 (la numero cinque) che raccoglie varie aggiustamenti per passare alla numero sei, la versione della drastica riduzione in quattro atti andata in scena alla Scala il 10 gennaio 1884 che ha il grave inconveniente della mancanza del primo atto, quello cosiddetto di Fontainebleau, operazione che ne limita fortemente la contestualizzazione storica, approdando poi alla settima con il ritorno ai cinque atti ma senza balletti, altrimenti conosciuta come ’edizione di Modena’ la città dove andò in scena del dicembre del 1866.
L’edizione francese per un certo periodo passò in disuso a favore di quelle italiane titolate Don Carlo tra le quali ebbe ampia fortuna quella in quattro atti che, pur essendo realizzata da Verdi stesso, perde irrimediabilmente le caratteristiche di grand opéra. Ma a partire dall’ultimo quarto dello scorso secolo, sicuramente per una diversa sensibilità, non solo degli interpreti ma, anche, del pubblico resisi consapevoli che l’edizione francese fosse il vero punto di riferimento per questo capolavoro, proprio perché concepito in francese, lingua che Verdi peraltro conosceva molto bene, riconquistando progressivamente i palcoscenici di tutto il mondo giungendo anche a edizioni praticamente integrali che accoglievano anche il recupero di quei tagli che Verdi operò a monte della prima assoluta, restituendo così all’opera quello smalto e quel fascino dati dalla monumentalità di un tale capolavoro.
Il libretto di Don Carlos fu scritto da Joseph Méry e Camille du Locle prendendo ispirazione dal poema drammatico Don Carlos. Infant von Spanien di Friedrick von Schiller. La trama dell’opera è particolarmente difficile da sintetizzare. Si può solo dire che in essa si incrociano le vicende personali e sentimentali di quattro personaggi, Don Carlos, Philippe II, Elisabeth de Valois e la Princesse Eboli, sullo sfondo del periodo intorno al 1559 e seguenti, storicamente corrispondente alla Pace di Le Cateau-Cambrésis, che riconosceva la Spagna e la Francia protagoniste assolute dello scenario europeo e che fornisce all’opera di Verdi la scintilla che fa nascere il dramma, cioè il matrimonio forzato tra Elisabeth de Valois e Philippe II che costringe la principessa a rompere il fidanzamento con l’infante di Spagna Don Carlos. Assieme a Rodrigue, Marquise de Posa, l’infante sposa le cause indipendentiste delle Fiandre provocando il pesante intervento de Le Grand Inquisiteur ponendo così sotto i riflettori anche il rapporto Stato-Chiesa.
A Liegi gli organizzatori hanno scelto di adottare integralmente la versione del 1866 quella ‘delle prove’, che però è priva del balletto optando, molto opportunamente, per una realizzazione scenica di carattere esclusivamente ‘tradizionale’.
Per quanto riguarda la parte visiva, lo spettacolo è stato costruito sulla regia di Stefano Mazzonis di Pralafera, che del teatro di Liegi è anche direttore generale e artistico, avendo il valido contributo di Gary Mc Cann per le scene, Ferdinand Ruiz per i costumi e di Franco Marri per le luci. Una messa in scena risultata suggestiva ed efficace sotto ogni aspetto basata sulla fedeltà al momento storico rappresentato con dei costumi molto ben confezionati ed ispirati a grandi opere pittoriche coeve all’azione scenica con un impianto complessivo che ha reso molto bene quel senso di necessaria ‘grandeur’.
L’impianto scenico è stato costruito tramite elementi mobili spostati ed orientati a vista per realizzare con facilità, efficacia e rapidità la cornice indispensabile alla realizzazione delle otto scene previste evitando le chiusure di sipario e rendendo felicemente snella la rappresentazione permettendole, così, di essere interrotta da un solo, fisiologico, intervallo collocato al centro temporale dell’opera, a metà del terzo atto tra le scena dei giardini della regina e quella cosiddetta dell’Autodafé. Anche i movimenti scenici sono stati realizzati seguendo, quasi, alla lettera le indicazioni del libretto con una efficace particolarità voluta dal regista, quella di rendere costante nelle varie scene la presenza del monaco (Un Moine) a materializzare con forza la figura di Carlo V come una sorta di ‘tutore’ delle gesta del nipote Carlos che poi, alla conclusione dell’opera, salverà dall’Inquisizione.
Prima di parlare della compagnia di canto, soprattutto per comprendere la valenza che deve possedere nell’ambito dell’esecuzione, vogliamo citare alcune parole tratte da una lettera che Verdi scrisse a Tito Ricordi il 18 novembre 1866 a proposito di Don Carlos evidenziando che il cast richiedeva l’ingaggio di due ”prime donne di gran cartello” (Elisabeth e Eboli), un “gran tenore” (Don Carlos), un ”gran baritono” (Rodrigue), due “primi bassi” (Filippo II e Inquisiteur) e un “buon comprimario” (Moine) .
Nel parlare della compagnia di canto dobbiamo innanzitutto dire che gli organizzatori hanno onorato questi ‘desideri’ di Verdi scegliendo interpreti di ottima levatura che hanno interpretato al meglio le loro parti. Ad iniziare dal Don Carlos di Gregory Kunde, tenore di grandissima esperienza che ha esibito una linea di canto potente e sicura, attenta agli abbellimenti, una voce ‘fresca’ e giovanile (a dispetto della sua età anagrafica) che denota estrema facilità nel frequentare il registro acuto così come accurato nella dizione che gli ha permesso di eccellere nelle numerose parti ‘declamate’.
Brave anche le due donne principali: il soprano spagnolo Yolanda Auyanet una Elisabeth de Valois elegante e raffinata vocalmente e scenicamente, alla quale la piccola indisposizione annunciata all’inizio della recita non ha in nessun modo compromesso la sua resa vocale, sempre efficace durante lo svolgimento dell’opera dalla parte passionale del primo atto fino alla tragedia finale. (Fig. 7)
Il mezzosoprano statunitense Kate Aldrich ci ha regalato una Princesse Eboli incisiva nell’azione; in possesso innanzitutto del physique du rôle adatto alla rappresentazione del personaggio ha evidenziato, parallelamente, una vocalità sicura e priva di forzature, come a volte si verifica in altre interpreti di questa parte realizzando con sicurezza la specifica parte vocale, dagli abbellimenti della Chanson de voile del secondo atto alle parti più drammatiche ed appassionate del quarto. (Fig. 8)
Il baritono belga Lionel Lhote ha realizzato un Rodrigue, Marquise de Posa credibile scenicamente dalla vocalità incisiva ed appassionata riuscendo ad emozionare il pubblico in maniera incontrovertibile. (Fig. 9) Trascinanti i due bassi principali, entrambi italiani. Ildebrando D’Arcangelo è stato un Philippe II pienamente appagante in possesso di una voce possente, diremo quasi nel solco della tradizione di grandi bassi italiani come Giulio Neri e Cesare Siepi, che ha caratterizzato la regalità e la spietatezza del grande personaggio storico non trascurando le parti più liriche ed intime come la grande scena dominata da ‘Je dormirai dans mon manteau royal’ uno dei punti ‘simbolo’ di questo grande capolavoro (Fig. 10).
Le Grand Inquisiteur era un efficacissimo Roberto Scandiuzzi, eccellente per cantare questo personaggio (ricordiamo la recita di Lione di due anni), una ottima prova che ha confermato anche in questa occasione riuscendo a dare connotati di solennità e di crudeltà. (Fig. 11)
Tutti bravi anche per le altre parti. A partire dal basso Patrick Bolleire, Un Moine efficace e suggestivo, così come il tenore Maxime Melnik valido Comte de Lerme e Héraut royal, il mezzosoprano Caroline de Mahieu un raffinato Thibault ed il soprano Louise Foor brava nel breve ma difficile intervento affidato a Une Voix d’en haut. (Fig. 12)
Vista l’importanza dello spettacolo vogliamo citare anche gli altri interpreti: Patrick Delcour, Roger Joakim, Emmanuel Junk, Jordan Lehane, Samuel Namotte, Arnaud Rouillon (Députés Flamand), poi Alexei Gorbatchev (Coryphée) e Pauline Maréchal nella parte muta, ma per la scena importante, de La Comtesse d’Aremberg.
Il Coro dell’Opéra Royal de Wallonie guidato da Pierre Iodice è stato di valido supporto a tutta l’esecuzione eseguendo con sicurezza quanto riservato dalla partitura di un’opera monumentale come questa.
Concludiamo con la direzione musicale di Paolo Arrivabeni, direttore di notevole esperienza esecutiva che ha guidato con la necessaria autorevolezza ed incisività tutta l’opera adottando apprezzabili tempi musicali che hanno contribuito a rendere scorrevole, e teatrale, l’esecuzione mettendo in evidenza i colori e i ritmi musicali contenuti in questa splendida e raffinata partitura che, all’ascolto, ci si rende conto essere stata concepita per complessi artistici di particolare importanza; una chiamata ai quali i complessi dell’Opera di Liegi hanno risposto efficacemente.
La recita si è conclusa con un buon successo senza contestazioni di sorta da parte di quel pubblico di stampo ‘intellettualista’ che, a volte, disdegna e demonizza rappresentazioni teatrali di carattere ‘tradizionale’. Forse un buon segno di cambiamento dei tempi? Chissà. Tutti gli interpreti sono stati chiamati continuamente al proscenio da un pubblico per nulla affaticato dalla visione e dall’ascolto di un ‘monumento’ musicale come Don Carlos.
Per approfondire alcuni aspetti dello spettacolo questo articolo è accompagnato da alcune interviste concesse espressamente ad aboutartonline.com da Stefano Mazzonis di Pralafera, da Paolo Arrivabeni e da Gregory Kunde.
Segnaliamo che l’ultima recita in programma sarà trasmessa in streaming il prossimo 14 febbraio alle 19,30 su http://francetvinfo.fr/culture.
Claudio LISTANTI Liegi 9 febbraio 2020