di Massimo MARTINI
Migranti sull’About
di M. Martini e F. Montuori
DIMENSIONE ESTETICA DI UN ORTO. L’ORTO RICCI FILESI A VASANELLO
di Massimo Martini
Parte prima: Una sciarada. Caccia agli indizi.
Sembrerà strano ma, per stare tranquillo, mi è utile andare alle parole del filosofo Bertrand Russel quando dice: Chi guarda un tavolo e crede di vedere un tavolo, è un povero illuso. Affondo dentro significati opachi. Eppure siamo ai bisogni primari. Terra, terre, terriccio, fango, fanghiglia, mòta. Organizzati in solchi. Frammenti vegetali sminuzzati, briciole secche. Un accampamento di segni. Dentro quel muoversi al vento, quel disordine che la natura tesse per potersi evolvere. Le stagioni della vita. L’effimero senza artifici che brilla nella pioggia.
L’orto è una piazzola apparecchiata per il vegetale coltivato. Con i suoi dintorni. Niente di più di una piazzola, con molti scarti organizzati. E nessun modello ideale da replicare. Si percepisce lavoro, lavoro, lavoro, solamente lavoro. Siamo dentro l’energia pura di The lightning Field (1973-77) di Walter De Maria, New Mexico (fig 1).
Non sono un critico d’arte. Sono un progettista che continua a investire nella dimensione estetica degli oggetti, l’architettura in particolare.
Vivo assediato dalla curiosità e dalla propensione a deformare le cose che osservo. Quindi, questo istinto, lo devo tenere a bada. Rifletterci sopra. Spargendo lungo la strada interrogativi, come a sbarazzarmene. Da tempo vado inseguendo il fascino dell’orto. Un luogo, infiniti luoghi ovunque ma proprio ovunque, che non godono di alcun tipo di ritualità progettuale, né antica né moderna. Dentro un dato semplice e duro, racchiuso nella formula (assoluta, intangibile, pressoché divina): un orto/un uomo – quell’orto/quell’uomo – ecce hortus/ecco homo. Proprio come immaginiamo nelle Riverlines (2006) di Richard Long quando, alla Hearst Tower di New York, dispone con ampi gesti delle mani, la fanghiglia gialla dei vicini fiumi Hudson e Avon (fig 2).
Riflessioni. La piazzola, pur essendo apparecchiata, non sembra nascere per esibire il proprio ordine, per essere osservata, goduta con gli occhi. Piuttosto sono i dintorni che vengono avanti, in un fiorire sontuoso di scarti organizzati. I frutti e i vegetali risultano oggetti tranquilli. Quasi ovvii, nella messinscena. Effetto strano, inatteso. Perché? Ci sarebbe da dire, invero, dell’hortus conclusus … ma è solo l’addizione colta di un chiostro monastico!
Negli anni ottanta mio papà Domenico, (parla Leonardo Filesi, comproprietario del campo, uomoriflessivo, sapiente botanico della Tuscia, ora prestato all’Università di Venezia) acquista un appezzamento confinante con la sua abitazione e quelle dei suoi figli, io e mia sorella Beatrice. In questa operazione riversa tutti i risparmi e tutte le energie, nella speranza di evitare che, soprattutto qualche costruttore, arrivi a edificare a pochi metri da casa. Successivamente, insieme a Sandro Ricci suo nipote, Domenico acquista un altro appezzamento confinante con il primo. Il bene viene diviso in due, cui si aggiunge una terza acquisizione su cui si costruisce una casa, in un’operazione promossa in proprio dal solo nipote. Con il risultato finale di una proprietà gestita da me, Leonardo, (un frutteto con magazzino per 1.500 mq) e una gestita da Sandro (un orto con casa per 1.000 mq). Senza soluzioni di continuità.
Siamo a Vasanello, alle pendici dei Monti Cimini, su terreni argillosi derivati da substrati vulcanici, con le ignimbriti del recente vulcano di Vico che ora ricoprono il peperino di origine cimina. Terreni argillosi (ma fertili) – lunga tradizione ceramica, un bel destino oggi spento.
Si affacciano due io. Chi scrive l’articolo. Chi cura la terra. Ora immersi, strano destino, nella fredda luce artificiale dell’Earth room (1968) di Walter De Maria all’Art Foundation di Monaco di Baviera. Dove la terra, pur essendo stessa, non è chiamata a produrre. (fig 3).
Dentro un mio rovello d’architetto, che osserva questa naturalità palesarsi senza artifici, nella primitiva assolutezza dei suoi segni. E provare un senso di sgomento nell’atto di comunicare alcunché, negli infiniti intrecci fra scienza e arte. E ancora, e nessuno me lo toglie dalla testa, tu, tu che puoi mai fare oggi quando dici, dipingi o canti di una mela?… certo non puoi dire soltanto: ecco una mela! Nessuno capirebbe. Troppo diretto. E poi. Come sciogliere il dilemma una mela/un bollino? La super identità di una mela/un bollino!
Ovviamente l’orto di cui parlo non è il giardino che ben conosciamo.
Sì, ci sono gli stessi alberi da frutto ma, là dove si passeggia lentamente, essi sono tutti ben allineati. In attesa che le rigide geometrie dalla casa padronale si sfaldino nel mistero mistico del bosco-natura. Nell’orto invece, il limone, l’arancio, l’albicocco e il melo sono protagonisti in proprio. Nell’affinità con quell’Acero campestre o quella Roverella che ondeggiano un poco più in là, grandi segnali per territori più ampi dell’orto stesso. Capitati lì per caso e per nulla intenzionati a togliersi dalla scena. E così via: cespugli, gruppi di canne incrociate a capanna, rami contorti di egual lunghezza legati in fascina, altri più lunghi e forzuti infitti di forza nella terra smossa.
Dilaga la percezione della fatica universale nel gesto violento di un Novello Zeus, intento a inseminare di piombo fuso una galleria d’arte. Mentre a chi sta nell’orto non resta che organizzare installazioni site specific. Impegnato, come è, a replicare solo se stesso. Sono assolute le immagini di Splashing (1968) di Richard Serra, alla Castelli Warehouse di New York. Implacabile l’autore quando dice: “This is this. This is not that”. (fig 4,5,6).
Io, Leonardo, che vivo in Veneto, seguo il mio appezzamento da lontano e vengo a Vasanello di tanto in tanto per le potature e la raccolta. Sandro coltiva con assiduità il suo orto ed esegue qualche lavorazione anche sul mio campo, leggere fresature e soprattutto l’adacquamento dei kiwi. Sandro inoltre si dedica ad affinare le zolle e una volta l’anno passa anche da me con il trattore, per una lavorazione leggera. Io ne farei anche a meno, amo le tranquille teorie di Fukuoka e la lavorazione meccanica la risparmierei a questa mia terra. Certo lo ringrazio sempre e comunque, lì sulla terra è nelle cose trovare un compromesso mentre, da lontano, con sporadici sopraluoghi, è pressoché impossibile gestire tecniche di non lavorazione. Oltre ai kiwi che danno un’ottima produzione per quantità e qualità, da me ci sono quattro preziosi noccioli e nove piante di olivo che, sopravvissute alla gelata del 1985, dopo un lunga incuria, solo recentemente sono state potate. Mi prendo a cuore anche di due grandi piante di fichi, i frutti più difficili da gestire a distanza perché maturano velocemente e non si mantengono a lungo, una pianta di kaki, che quando fa i frutti ne fa tanti, un paio di meli di cui uno della varietà annurca, peri, alcuni prugnoli semi selvatici, due piccoli meli cotogni e alcune piccole querce al confine.
Nel suo piccolo, il composter regge ogni confronto. Recinto del Composter (1992) di Domenico Filesi, orto Ricci Filesi a Vasanello. Laddove i rifiuti organici si decompongono, durante un processo di ossigenazione. Laddove batteri e lombrichi sudano sette camicie per trasformare le sostanze putrefatte in humus, terra fertile. L’energia di Richard Serra. (fig 7).
Sandro, dal canto suo, ha un pozzo che intercetta una falda acquifera piuttosto profonda. Un’opportunità decisiva per veder crescere un orto molto rigoglioso. Broccoli, verze, finocchi e poi, nella bella stagione, pomodori di diverse varietà, melanzane, peperoni, carciofi, fagiolini, oltre a rosmarino, salvia, prezzemolo e finocchio selvatico sapientemente trapiantato. Anche qui c’è una piantagione di kiwi che però, al suo margine, vede la presenza di un piccolo pollaio per polli e galline da uova. Sandro, di tanto in tanto, sposta alcuni dei suoi animali nel mio pollaio ora in disuso. Lo fa per evitare zuffe tra le galline. Isolandone qualcuna. Quando arrivo e trovo quello spazio di nuovo abitato provo un senso di piacere. Anche un poco di malinconia. Tra le erbe spontanee c’è molta borraggine, così utile per i fritti tipici del periodo natalizio.
Busta di terriccio, venti litri, 4 euro (2019), di Massimo Martini, Studio dell’artista, Roma. L’orto Ricci Filesi è (anche) un desiderio figurato che bussa alla porta. L’orto Ricci Filesi è in cammino verso altri sensi di lettura (fig 8).
Penso a destini più semplici, più immediati, forse più felici.
Un salto dal molto grande al molto piccolo, però familiare. Una serra che cammina per kilometri davanti al mar ligure, coltivazioni estensive di fiori. Grandi mazzi in viaggio dentro scatoloni di cartone verso un mercato del nord. Dove una gentile signora li acquista e li apparecchia in un vaso su un tavolinetto nel salotto di una casa di cura. Sapendo che Filippo De Pisis, indugiando, prima o poi da lì vorrà passare. Non c’è fretta. A lui piacciono di più se un poco appassiti. I fiori. Per dipingerli. Dentro un suo vaso. Sopra un suo tavolinetto.
Hortus conclusus laico e conflittuale (2019), di Massimo Martini, Piazzale Clodio, Roma. L’orto Ricci Filesi è (anche) una descrizione ordinata del caos emozionale che genera. L’orto Ricci Filesi è in cerca di uno specchio in cui figurarsi (fig 9).
Parte seconda: Come rimescolare le carte. Fidando nella buona sorte
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L’articolo segue in uno dei prossimi numeri della rivista
Massimo MARTINI Roma febbraio 2019