Il fenomeno del  Collezionismo e libero mercato nel Seicento nell’indagine di Antonella Pampalone attraverso la personalità di Marcantonio De Marchis.

di Rita RANDOLFI

Il nuovo libro di Antonella Pampalone, dal titolo Collezionismo e libero mercato nella Roma del Seicento. La quadreria del mercante di sete Marcantonio De Marchis, per i tipi di Campisano indaga  a tutto tondo  un fenomeno complesso, allora come oggi, quello del collezionismo, inscindibilmente legato alla domanda di mercato, che vede come protagonisti diverse tipologie di personaggi, con interessi spesso opposti, se non del tutto inconciliabili almeno dal punto di vista deontologico.

La figura del collezionista si rivela affascinante ed inquietante al contempo. Chi era il collezionista, cosa lo spingeva a compare, cosa desiderava dimostrare con la propria raccolta? Era un intellettuale con  lo scopo di godere e preservare la bellezza o era una vittima di quello che oggi si definirebbe “lo shopping compulsivo”, oppure era qualcuno, che semplicemente aspirava ad un riconoscimento sociale?  Le domande, come le risposte possono essere infinite, ma nel Seicento, le categorie di persone che fondamentalmente spendevano sostanze ed energie per mettere insieme una raccolta di oggetti d’arte si potevano ridurre a tre specie-campione: le grandi famiglie blasonate,  che si tramandavano di padre in figlio nuclei artistici che venivano ampliati o dilapidati a seconda dei casi e dei momenti; le personalità “di passaggio”, che si imponevano sulla scena politica, condizionandola in qualche modo, per un periodo più o meno lungo, come cardinali, curiali, ambasciatori, e infine un nuovo ceto sociale in cerca di riscatto, costituito da notai, medici, banchieri.

I più eruditi selezionavano gli artisti ai quali indirizzare le commissioni, divenendone indiscussi mecenati, altri, per raggiungere i propri scopi,  si servivano di agenti, altri accumulavano  gli oggetti più disparati, in preda ad una smania incontrollabile di possesso, altri ancora seguivano  solo le leggi del mercato.  Possedere un’opera significava aver raggiunto un certo status sociale, ma anche aver accumulato un capitale non indifferente, a cui ricorrere in caso di necessità. Essere in grado di far circolare gli oggetti, cui si attribuiva un valore estetico e morale, voleva dire anche creare curiosità, decretare il successo di un genere o di un artista, arricchirsi all’inverosimile, perché nel momento in cui si generava una domanda,  subito si proponeva un’offerta per soddisfarla. Marcantonio De Marchis, su cui si concentra lo studio rigoroso e attento della Pampalone,  non era un collezionista stricto sensu, quanto un imprenditore,  che concepiva il quadro come un investimento,  una merce di scambio.

In una Roma vivace, abitata da nobili, prelati, ambasciatori, intellettuali, l’industria legata alla produzione tessile, nelle sue innumerevoli declinazioni, era decisamente prolifica e redditizia.  Lo aveva perfettamente capito Maurizio de Marchis, che dalla natia Novara, aveva aperto la propria attività di mercante di stoffe a Tor Sanguigna, centro nevralgico della città papalina. La sua bottega decretò la fortuna del figlio Marcantonio, che furbescamente aveva adibito i locali del pianterreno alla vendita dei tessuti e, parallelemente  quelli dei piani superiori, all’esposizione di quadri, dando vita ad un fiorente commercio, che poteva contare anche sull’esperienza del fratello Giovanni, di professione pittore e quadraro, in contatto con una clientela internazionale, in particolar modo spagnola. In casa di Marcantonio l’allestimento dei  dipinti non era casuale, seguiva i criteri delle dimensioni delle opere e dell’importanza dei nomi degli autori, in modo da solleticare l’attenzione dei possibili acquirenti.  La Pampalone non manca di sottolineare come i dipinti più importanti venissero  ospitati nei  piani più bassi e,  quindi più raggiungibili  dell’appartamento, mentre quelli di anonimi erano relegati ai livelli superiori. Era questione di marketing e Marcantonio ne conosceva bene le regole.

Benedetto Luti, Autoritratto

Giovanni de Marchis, detto anche “Mazzasette”, per il suo atteggiamento un po’ sbruffone ed arrogante,  risiedeva,  invece, nella zona di San Rocco, frequentata per lo più da barcaioli, facchini, portuali e si dedicò, in particolare dopo la morte del fratello, alla vendita dei propri quadri, di modeste misure e di valore ordinario. Suo figlio Tommaso, di professione pittore, che ereditò la bottega paterna, allargò decisamente il volume degli affari, smerciando dipinti di colleghi più accreditati, tra i quali anche il cognato Giovanni Paolo Castelli, divenendo il più importante quadraro dell’Urbe e anche l’ultimo della famiglia, che con lui si estinse, dedito ai traffici in materia d’arte. I pochi dipinti rimasti  alla sua morte in bottega furono acquistati da Benedetto Luti.

Alla scomparsa di Marcantonio, sopraggiunta il 6 ottobre del 1684, i nipoti, figli del fratello Pietro, unici eredi rimasti, nominarono loro procuratore lo zio Giovanni, ma  dovettero fare i conti con una situazione finanziaria estremamente compromessa, gravata dalle richieste di numerosi ed insistenti creditori, nobili, artigiani, detentori di banchi di cambiavalute, sui quali l’autrice fornisce notizie estremamente interessanti ed illuminanti, frutto dei suoi anni di studio e di una conoscenza approfondita della compagine sociale di fine Seicento, una conoscenza che le permette agevolmente di relazionare ed intrecciare  notizie desunte da fonti diverse, per restituire un affresco d’insieme quanto mai vivace e veritiero.

Francesco Trevisani, Ritratto del cardinale Pietro Ottoboni, Bowes Museum di Barnard Castle

Tra i creditori del De Marchis assume una posizione di spicco Girolamo Palazzeschi, che con il fratello Francesco, gestiva la contabilità del cardinale Pietro Ottoboni ed era titolare di un banco di deposito e prestito. Questi si assunse il compito di valutare i dipinti del defunto, spingendo la commissione, costituita  da familiari e azionisti,  a stilare un elenco delle persone con le quali il De Marchis aveva contratto i debiti più ingenti,  al fine di calcolare le cifre da corrispondere. Vennero dunque esaminati i casi più urgenti e, ancora una volta, le opere furono considerate beni di scambio in mancanza di liquidità, problema cronico che attraversò l’intero secolo e quello seguente. Palazzeschi ricevette una ricompensa irrisoria, ma da ottimo affarista, sfruttò la mostra di San Salvatore in Lauro del 1694, per rimettere in circolazione i quadri appartenuti al De Marchis, alcuni dei quali comparvero dietro il prestanome del duca di Fiano, Marco Ottoboni.

Pur non essendo uno del mestiere Palazzeschi, nell’inventario del 14 ottobre 1684, si  rivelò un conoscitore scrupoloso e l’incertezza su alcune  autografie lo spinse a fornire descrizioni dettagliate dei soggetti raffigurati, delle misure e persino delle cornici. I dati ricavabili da queste carte,  messi a confronto con quelli di un altro elenco di quadri,  stilato a un mese di distanza dal primo da Giovanni De Marchis, hanno permesso all’autrice del volume di rintracciare con certezza almeno una trentina di opere e fornire ipotesi più che plausibili per le restanti.

La raccolta era costituita essenzialmente da quadri del XVII secolo di maestri attivi nella città pontificia. Consistente la presenza di paesaggi, di scene di genere, di nature morte e di copie  di dipinti famosi. Assenti, al contrario,  i ritratti, che non interessavano la clientela del De Marchis, più propensa a collezionare quadri  da poter rimettere facilmente in vendita, in quanto  svincolati da quel tipo di rapporto personale legato al personaggio effigiato o alla casata.

Tra gli autori maggiormente presenti, Mola, Codazzi, Cerquozzi, Giacomo Borgognone, Ribera, Salvator Rosa,  ma soprattutto Giacinto Brandi, del quale i documenti registrano una cinquantina di tele. Il successo dell’artista si doveva, come giustamente osservato dalla  Pampalone, più che ad una questione di gusto, alla diversificazione  dei soggetti rappresentati e  alle dimensioni dei dipinti, fattori determinanti per  soddisfare i clienti più esigenti e di conseguenza  più facoltosi. Anzi, poiché l’Accademia di san Luca vietava ai professori di dedicarsi al traffico di opere d’arte, è plausibile, come la stessa autrice suppone, che il Brandi stesso si fosse rivolto all’amico per piazzare le proprie tele sul mercato.

Degno di nota è il constatare che le opere erano in conto vendita. Forse, come avanza l’autrice,  i rapporti tra il pittore e il De Marchis erano regolati da un contratto, secondo il quale Brandi doveva eseguire un certo numero di quadri all’anno, in cambio di uno “stipendio”. Del resto un patto simile era stato stipulato tra Girolamo Troppa e il celebre trafficante Pellegrino Peri, ampiamente studiato da Loredana Lorizzo. Ogni mercante del resto si rivolgeva a un target di committenti e quindi a determinati autori, per non praticare una concorrenza sleale: a Roma c’erano spazio e opportunità per tutti, motivo per cui, ad esempio, i maestri che affidavano le loro produzioni al  De Marchis non avevano contatti con il Peri e viceversa.

Per tornare al Palazzeschi, questi  incaricò il rigattiere Francesco Brocchi della stima degli oggetti. I dipinti di minor valore e le copie furono i primi ad essere alienati, quelli rimasti invenduti vennero acquisiti dal  Palazzeschi stesso.

La Pampalone passa in rassegna tutte le opere ricordate nei documenti, ripercorrendo per ciascuna di esse  la storia collezionistica e proponendo convincenti confronti con le altre illustri raccolte delle famiglie nobiliari romane.  Incrociando i dati, laddove talvolta le dimensioni non possono costituire un criterio sicuro per l’identificazione delle opere, a volte registrate con o senza cornici, a volte misurate in maniera piuttosto arbitraria, la studiosa riesce ad individuare i vari passaggi di mano: come nel caso dei Cinque giocatori di carte di Salvator Rosa che De Marchis vendette ai Sacchetti, attraverso i quali probabilmente giunsero  ai Corsini.

Tra i diversi quadri del Brandi con cui fu saldato il debito nei confronti di un altro creditore storico del patrimonio di De Marchis, il Sinibaldi, noto collezionista del pittore,  particolare attenzione merita il San Francesco in meditazione finito, dopo varie peripezie, tutte sapientemente documentate dalla Pampalone, nella  collezione Koelliker di Milano.

L’autrice trova anche il modo di dedicare pagine dense di preziose informazioni ad argomenti solo apparentemente collaterali, come quelle che illustrano l’arte del ricamo, ritenuta nel Seicento una nobile disciplina al pari della pittura.

La corposa appendice documentaria, affiancata da una bibliografia aggiornata e puntuale, costituisce il fondamento di questo volume scientificamente rigoroso, in cui l’autrice si dimostra, ancora una volta, come ci ha da sempre abituato, un’abile interprete del dato storico, giuridico, artistico.

Il libro, corredato da tavole a colori ed immagini in bianco e nero, costituisce dunque un pregevole contributo alla conoscenza di un secolo denso di contraddizioni e sorprese. Attraverso la figura di  Marcantonio de Marchis la Pampalone  restituisce la giusta dignità ed importanza ad un uomo  che altrimenti sarebbe rimasto nell’ombra, ma che invece svolse un ruolo rilevante in campo artistico, permettendo alle opere di transitare da una raccolta ad un’altra, per giungere fino a noi.

Rita RANDOLFI  Roma 30 Giugno 2024