di Nica FIORI
La Galleria Borghese conclude brillantemente la sua ricerca sulla pittura di paesaggio e sul rapporto tra arte e natura con una mostra inedita, dedicata a un grande protagonista del Rinascimento ferrarese, qual è Dosso Dossi, diverse opere del quale entrarono a far parte nel primo Seicento della collezione del cardinale Scipione Borghese, nipote di Paolo V.
Mentre è ancora in corso a Roma una mostra archeologica intitolata “Il viaggio di Enea. Da Troia a Roma”, ospitata nel Parco archeologico del Colosseo, la Borghese propone “Il Fregio di Enea” di Dosso Dossi, rendendo così possibile un dialogo a chilometro zero tra l’arte antica e la narrazione del mito da parte di un artista cinquecentesco, il cui estro pittorico salta subito agli occhi. La sua raffinata resa del colore, che deve molto a Giorgione e alla pittura fiamminga, va di pari passo con l’invenzione fantastica che si ispira in questo caso all’Eneide di Virgilio, ma allo stesso tempo riflette le atmosfere ariostesche della corte estense, con i costumi fastosi, i cortei cavallereschi e i paesaggi favolosi animati da vivaci scene figurate.
Il fregio era composto da dieci tele, lunghe e strette, realizzate da Dosso tra il 1518 e il 1520 per il Camerino d’Alabastro di Alfonso I d’Este, che, secondo quanto scrive la direttrice della Galleria Borghese Francesca Cappelletti, era “una delle stanze più sontuose e leggendarie del Rinascimento europeo”: una sorta di piccolo museo privato. Tre delle tele del fregio sono disperse e delle sette che si conoscono, cinque sono state riunite per la prima volta in questa mostra, curata da Marina Minozzi, accanto ad altre tele del Maestro appartenenti alla Galleria. L’esposizione, frutto delle ricerche su Dosso degli ultimi anni, è stata dettata dall’entusiasmo per la recente ricomparsa di alcuni dipinti, che si credevano perduti, ed è stata possibile grazie alla collaborazione con il Louvre di Abu Dhabi (proprietario di due tele), con la National Gallery of Art di Washington D.C. e il Museo del Prado di Madrid. La quinta tela proviene da una collezione privata romana.
I dipinti più celebri del Camerino di Alfonso I (duca di Ferrara dal 1505 al 1534), quali i Baccanali (Il festino degli dei di Giovanni Bellini e Tiziano, oggi a Washington, il Bacco e Arianna di Tiziano ora a Londra, gli Andrii e l’Offerta a Venere, entrambi di Tiziano e conservati al Prado), erano arrivati a Roma subito dopo il 1598 in seguito alla devoluzione di Ferrara, ovvero al passaggio del governo della città dalla dinastia estense allo Stato Pontificio, quando Pietro Aldobrandini, cardinal nepote del pontefice Clemente VIII allora regnante, aveva costituito un’importante collezione, mentre le tele del Fregio di Enea, che in origine erano disposte sopra i Baccanali, entrarono a far parte della collezione di Scipione Borghese nel 1608, insieme ad altre opere dello stesso Dossi. Fu proprio grazie a Ferrara, e attraverso Ferrara anche Venezia, che Roma si arricchì in quegli anni non solo di opere eccelse, ma anche di concetti e di idee nuove, come quella del racconto mitologico su più tele, al posto del fregio ad affresco o a stucco che si praticava all’epoca.
La scelta del “pius” Enea, in quanto eroe positivo che porta in salvo i troiani superstiti dopo l’incendio di Troia tra tempeste, epidemie e varie prove, era stata probabilmente suggerita e guidata iconograficamente dall’umanista Mario Equicola, ma certamente Dosso Dossi ha reso a modo suo quelle scene che, così come avevano affascinato Alfonso I per il loro rifarsi a una mitica ascendenza eroica, acquistavano anche per il cardinale Borghese un significato allegorico legato alla fondazione dell’Urbe, e quindi alla sede del pontificato di suo zio Paolo V e al suo rapporto con la città. Del resto la sua predilezione per Enea lo spinse anche a commissionare nel 1518 al giovane Gian Lorenzo Bernini il gruppo scultoreo raffigurante Enea, Anchise e Ascanio in fuga da Troia, che sembra riprendere lo stesso tema della grande tela Fuga da Troia dell’urbinate Federico Barocci (firmata e datata 1598), documentata nella collezione Borghese sin dal 1613.
Il Fregio di Enea rimase nella collezione Borghese probabilmente fino agli inizi del XIX secolo, quando venne acquistato dal pittore neoclassico e direttore del Prado Josè de Madrazo (1781-1859) per la sua collezione privata. Nel suo inventario, redatto nel 1856 e pubblicato nel 2010, vi è la descrizione di tutte e dieci le tele, che dovevano comprendere anche le scene iniziali dell’Eneide e il racconto della fuga da Troia, ma non gli episodi relativi alle guerre in Italia e nemmeno la storia d’amore con Didone, che si conclude con il tragico suicidio della regina cartaginese. Evidentemente di Enea interessava soprattutto il suo ruolo di fondatore di città e, pertanto, la sua storia venne edulcorata eliminando le scene di violenza.
Il primo dipinto in mostra, prestato dal Louvre di Abu Dhabi, è intitolato La peste cretese. Raffigura un episodio del III libro dell’Eneide, quando i troiani sbarcano a Creta, perché Anchise, interpretando male l’oracolo di Delo che invitava a cercare l’antica madre, aveva indicato quell’isola come il luogo deputato a costruirvi una nuova patria, ma lì un’epidemia di peste decima uomini e animali, come si vede in primo piano. Alcune immagini drammatiche sembrano essere state ispirate da un’incisione di Marcantonio Raimondi, “La peste di Frigia” (o il “Morbetto”), a sua volta ispirata a un disegno di Raffaello.
A sinistra sono raffigurati probabilmente Enea, riconoscibile dall’elmo piumato, e il padre Anchise nel momento in cui incontrano il re Anio, sacerdote di Apollo a Delo (episodio precedente allo sbarco a Creta), mentre sullo sfondo a destra è un’altra scena, che forse allude a un momento di serenità.
Il racconto prosegue nel dipinto, proveniente dal Prado di Madrid, raffigurante L’arrivo dei Troiani alle isole Strofadi e l’attacco delle Arpie, episodio narrato nel III libro dell’Eneide. Nella metà sinistra è raffigurato il banchetto allestito dai troiani appena giunti sul luogo, mentre le Arpie, mostruosi uccelli con teste di donna (non molto dissimili dalle Sirene, ma più brutte), li attaccano insudiciando il loro pasto, perché si erano resi colpevoli di aver ucciso il bestiame sacro dell’isola. Mentre Enea e il trombettiere Miseno cercano di reagire, la più crudele delle Arpie, posata su una rupe all’estrema sinistra, profetizza loro orrende sventure. Sulla destra è un’altra scena: il gruppo è intento a rifocillarsi in un boschetto (sono arrivati in Epiro) ed Enea incontra Andromaca, la vedova di Ettore, con il nuovo sposo Eleno, che gli predice che arriverà senza affanni in Italia.
La rappresentazione mitica prosegue in un altro dipinto proveniente dal Louvre di Abu Dhabi, raffigurante i Giochi siciliani in memoria di Anchise e fondazione di una città in Sicilia. Si tratta di una tra le tele più complesse, le cui scene non sono così facili da interpretare: sulla sinistra il riferimento è al V libro dell’Eneide quando i troiani, sbarcati in Sicilia, commemorano Anchise, che era morto nell’isola un anno prima, con giochi in suo onore, secondo le usanze dell’epoca. Se tra i giochi è riconoscibile il tiro con l’arco, più incerte sono le altre gare disputate, tra cui probabilmente caroselli equestri. Sullo sfondo si alza il fumo dell’incendio delle navi causato dalle donne troiane, istigate da Giunone, raffigurata a destra in cielo, mentre manda Iris come sua messaggera: una visione questa che rimanda alla Madonna di Foligno di Raffaello. All’estrema destra è raffigurato Enea mentre traccia il perimetro di una nuova città: Acesta (corrispondente a Segesta). La presenza di un bue allude, probabilmente, al futuro rito di fondazione di Roma, il cui solco verrà tracciato da Romolo servendosi di un aratro trainato da buoi.
La tela successiva, proveniente dalla National Gallery di Washington, era stata tagliata nel Novecento ed è stata ricomposta in occasione della mostra. Raffigura episodi del V libro, tutti ambientati in Sicilia: La riparazione delle navi troiane, la costruzione del tempio di Venere a Erice e offerte alla tomba di Anchise. A sinistra si vedono figure intente a riparare le navi che erano state incendiate dalle donne troiane, mentre due armigeri in primo piano, da identificare probabilmente con Enea (quello col cappello rosso piumato) e il re Aceste, assistono alla scena.
Il tema s’intreccia, quindi, con quello della tela precedente e con la fondazione di Acesta. Il paesaggio è fantastico e richiama costruzioni ferraresi trasfigurate e riflesse nel mare. Sulla destra il paesaggio prosegue con la straordinaria visione di Erice, che sembra un miraggio nel cielo al di sopra delle nuvole. A Erice Enea costruisce e dedica un tempio alla divina genitrice Venere, come racconta Virgilio:
“Quindi vicino agli astri, in cima all’Erice un tempio / viene fondato a Venere Idalia e alla tomba di Anchise / un sacerdote e un bosco sacro assai ampio si aggiungono”.
Dosso, prendendo alla lettera i versi virgiliani, ha inserito nel dipinto anche la tomba di Anchise, presso la quale si affollano piccole figurine di troiani che recano offerte e fanno sacrifici.
L’ultima tela esposta, proveniente da una collezione privata romana, rappresenta Il viaggio agli Inferi, descritto nel VI libro del poema, quando la Sibilla Cumana deve condurre l’eroe nell’Ade, ma Enea, in quanto “pio”, non deve accedervi ed è per questo che vede solo da lontano il Tartaro, le cui scene di supplizio gli vengono però descritte. Nel cupo ambiente, illuminato solo da fiamme ardenti, mostruosi carnefici vessano i dannati con pene atroci, come quella dell’aquila che divora il fegato di Tizio, il gigante che aveva cercato di violentare Latona ed era stato ucciso da Artemide e Apollo. All’estremità destra si riconosce Caronte, intento a traghettare le anime dei defunti. Nel dipinto si nota sulla sinistra una figura ripresa dall’Incendio di Borgo di Raffaello, ma l’insieme rimanda soprattutto alla pittura fantasiosa di Hieronymus Bosch.
In seguito Enea raggiunge i Campi Elisi dove incontra Anchise, ma questo è raffigurato in una tela di Ottawa che non è stato possibile portare a Roma.
Nonostante la visione delle tele superstiti del Fregio di Enea non sia completa, il colpo d’occhio è notevole, anche perché le tele sono state inserite nella cosiddetta Loggia di Lanfranco, insieme agli altri dipinti di Dosso appartenenti alla Galleria Borghese, e cioè I Santi Cosma e Damiano, Apollo (scambiabile per un Orfeo, se non ci fosse sullo sfondo a sinistra la figura di Dafne che si sta trasformando in alloro) e la misteriosa Melissa, la maga buona dell’Orlando furioso.
Questo dipinto sontuoso e poetico, dall’intenso colorismo di matrice veneta, databile al 1518 circa, ci affascina particolarmente per la sua ambientazione in un paesaggio fantastico, ricco di simboli arcani che vanno ammirati, più che interpretati. Il simbolo è qualcosa che non deve essere penetrato, sembra suggerirci Dosso, così come il cerchio magico, disegnato ai piedi della donna, non deve essere oltrepassato.
La prima menzione di quest’opera si trova in una guida di Villa Borghese del 1650, che la definisce una “maga che sta facendo incantesimo”; divenuta poi la Maga Circe nell’inventario del 1790, è attualmente conosciuta come Melissa, in seguito all’identificazione con l’incantatrice benigna dell’Orlando Furioso, descritta dell’Ariosto come “una donzella di viso giocondo”, abbigliata riccamente. Nel poema (VIII, 14-15) Melissa, approfittando dell’assenza dal suo palazzo della crudele maga Alcina, distrugge i vari strumenti di magia e fa ritornare nella loro primitiva forma “gli antiqui amanti ch’erano in gran torma / conversi in fonti, in fere, in legni, in sassi”. Quindi restituisce ai cavalieri le armi e li rimanda nei loro paesi.
Questa identificazione potrebbe spiegare la presenza nel dipinto di un’armatura, di un cane e soprattutto delle curiose figure legate all’albero sulla sinistra, che potrebbero indicare un rito di legamento, oppure una metamorfosi appena compiuta. L’identificazione con Melissa ha un senso poi se si pensa che è lei che profetizza la discendenza gloriosa degli Este da Ruggero e Bradamante, eroi ariosteschi, e quindi è un soggetto particolarmente adatto per un quadro destinato al duca Alfonso.
Cronologicamente il dipinto si colloca immediatamente prima del Fregio di Enea e in effetti il paesaggio è assolutamente simile a quello delle tele iniziali, sia nelle chiome degli alberi, sia nei personaggi in secondo piano. Successivamente il paesaggio dai colori vibranti del fregio si anima ancora di più, raggiungendo un affascinante lirismo nella tela proveniente da Washington e una verve visionaria nella cupa visione dell’Ade.
Nica FIORI Roma 16 Aprile 2023
“Dosso Dossi. Il Fregio di Enea”
4 aprile – 11 giugno 2023
Galleria Borghese, piazzale Scipione Borghese, 5
Orario: dal martedì alla domenica 9-19. Al museo si accede con prenotazione obbligatoria: tel. 06.32810, www.galleriaborghese.it