Il “Laocoonte” (e i piccioni …). Il capolavoro 500esco di Vincenzo De Rossi torna a Roma. M. F. Apolloni: “E’ una delusione per me ma soprattutto per Firenze dov’era stato creato”

redazione

-Dunque, Sig. Marco Fabio Apolloni, il Laocoonte – la grande scultura di Vincenzo De Rossi- è rientrato in Galleria, qui in via Monterone, dopo esser transitato, mi pare di ricordare con buone speranze di rimanervi, a Firenze, che sarebbe per molti aspetti la sua destinazione naturale. Che cosa è accaduto?

R: E’ accaduto che quando esponemmo il capolavoro di Vincenzo De Rossi (Fiesole, 1525 – Firenze, 1587) l’allievo di Baccio Bandinelli autore della scultura, alla XXXII Biennale Internazionale dell’Antiquariato, l’evento suscitò grande clamore e altrettanta attenzione tra gli appassionati e tra i media, italiani e non solo.

Vincenzo de Rossi Laocoonte marmo, cm 210-x-160-x-80

Per noi, devo confessarlo, era come se si chiudesse un cerchio, perché la scultura, commissionata dalla nobile famiglia fiorentina dei Della Sommaja e descritta da Raffaello Borghini ne “Il Riposo” era poi scomparsa dai radar, nonostante fosse stata celebrata in versi e componimenti italiani, latini e greci. Questa versione si differenzia da quella antica scoperta nel 1506 e oggi in Vaticano ma anche da quella di Baccio Bandinelli, realizzata negli anni Venti del ‘500 per il re di Francia ma poi rimasta ai Medici, e oggi esposta in fondo al corridoio di Ponente degli Uffizi e si distacca da entrambe per un movimento più accentuato, drammatico, violento, parlerei di un manierismo molto prossimo al successivo barocco.

Baccio Bandinelli, Laocoonte, Firenze, Uffizi

Si può dire che De Rossi abbia voluto differenziarsi da Bandinelli, suo maestro?

R: Il Bandinelli realizza una copia fedelissima dell’originale (anche se poi si vanterà di aver superato il modello antico), qui invece l’artista si prende le sue libertà e lo vediamo da tanti aspetti, in primo luogo il movimento laddove la statua sembra andare oltre il modello vaticano, quasi sviluppasse il senso della tragedia in essere, come se i tre personaggi fossero davvero in movimento, ed in effetti è come se De Rossi mostrasse di andare oltre l’esempio del suo maestro.

Ma come ne eravate entrati in possesso?

R: E’ stata ritrovata fortunosamente in Francia sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso in un castello della Charente, a La Mercerie (nei dintorni di Angoulēme), sorto per la passione davvero eccentrica di un deputato gollista e di suo fratello (entrambi ricchissimi), ma poi rimasto come una sorta di guscio vuoto; solo poche sale erano state completate (ora è stato restaurato) e nel frattempo loro avevano comprato di tutto in giro per il mondo: fontane belle epoque, addirittura monumenti smontati e rimasti lì impacchettati ecc. Tutta roba messa in un’asta di cui eravamo venuti a conoscenza da un piccolo annuncio sulla Gazette dell’Hotel Drouot, rivista settimanale delle aste di Francia; così mio padre ed io partimmo e arrivammo il sabato e mi ricordo come fossimo in molti a seguire l’asta ma quasi tutti passavano davanti alla scultura senza neppure guardarla. A me invece attrasse subito moltissimo, tanto che dissi a mio padre che avevo l’impressione che non fosse propriamente una copia pedissequa di quella famosa in Vaticano.

Il Laocoonte, 40-30 a.C., Musei Vaticani

-Quindi fosti tu ad avere l’intuizione?

R: E’ così, tant’è vero che mio padre quasi mi rimproverò, dicendomi ma che dici? chi credi di essere? Nonostante questo lo convinsi a cercare una pubblicazione dove ci fossero immagini e notizie sul Laocoonte; capitò che trovammo un’unica cartolibreria aperta che per fortuna aveva un librone intitolato Settemila anni di scultura, proprio quello che ci voleva dato che riportava note e immagini del Laocoonte.

-Puoi dirmi, se puoi e se lo ricordi, quanto spendeste per aggiudicarvi la scultura.

R: Se ricordo bene tra i 100 e i 130 milioni di lire.

-Beh, una signora cifra per quel tempo, avete dovuto combattere con altri antiquari?

R: Vero, una bella cifra, ovvio che evidentemente non solo noi avevamo avuto contezza del valore dell’opera, ma il gioco valeva la candela. Infatti la scultura venne studiata dall’esperto tedesco di scultura cinquecentesca Detlef Heikamp che oltre a trovare la citazione dal Riposo del Borghini immediatamente l’accostò allo stile di De Rossi; e d’altra parte tutto torna se pensi alle opere di questo maestro, a partire dai gruppi delle Fatiche d’Ercole nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, o al Teseo e Elena a Bolboli, oppure ancora all’Adone morente del Bargello, non a caso per molti anni creduto di Michelangelo, anche in questi casi si nota bene la capacità di drammatizzare tutto in modo perfino esagerato, come una sorta di prebarocco, come dicevo prima.

Vincenzo De Rossi, Adone Morente, Firenze, Bargello

-Viene da chiedersi come avete fatto a riportare l’opera a Roma.

R: Si, è una storia che va raccontata. Allora, tutto il blocco era poggiato su una base cementata ovviamente non d’epoca, a un certo punto arrivano i trasportatori francesi con una sorta di bagnarola di plastica dove v’erano delle zeppe di legno di quercia a mollo; i trasportatori allora fanno delle piccole tacche con un cacciavite dove inseriscono quei piccole zeppe che incominciano a gonfiarsi sollevando letteralmente la scultura che quindi potè essere sistemata in modo sicuro per il trasporto successivo.

-Dopo di che, dopo qualche anno, tu hai avuto l’idea di esporla a Firenze, dove avevi pensato dovesse ritornare laddove era stata concepita e creata, è così?

R: Esattamente così, portarla in esposizione alla XXXII Biennale fiorentina era per me come la giusta fine di un percorso, dopo Monaco di Baviera e il museo d’Arte occidentale a Tokyo, cosa non agevole se consideri che il peso si aggira intorno alle due tonnellate. A Firenze accade che il sindaco Nardella, che aveva visto la scultura nella sua visita alla esposizione, intervistato da un giornalista del Corriere della Sera dichiara di essere molto interessato – considerata l’importanza dell’opera e la sua origine fiorentina- ad averla, ovviamente in comodato d’uso per esporla per un anno. Ne rimasi molto soddisfatto, si poteva anche immaginare che poi una qualche cordata di mecenati sarebbe intervenuta per intavolare un discorso sulla compravendita così da trattenere per sempre il Laocoonte a Firenze e in ogni caso, al di là di ciò, immaginare che la nostra scultura rimanesse esposta magari nel cortile del Verrocchio di Palazzo Vecchio costituiva già di per sé una sorta di prestigioso riconoscimento al nostro lavoro e alle nostre competenze.

-Dunque, la massima istituzione cittadina cioè il Sindaco mostra effettivo interesse quanto meno ad esporre la scultura; insomma l’avventura era iniziata bene.

R: Si, tanto più che lo stesso Nardella si ripete in conferenza stampa, ossia coram populo, così che nel corso del pranzo di gala per gli espositori che si tiene a Palazzo Vecchio mi avvicinai a lui presentandomi e sottolineando che ero assolutamente ben disposto a concedere il Laocoonte in comodato d’uso per esporlo a Palazzo Vecchio; mi rispose soddisfatto che da lì poteva nascere una grande amicizia.

-E invece?

R: Aspetta. Prendiamo un appuntamento per il sopralluogo e succede però che lui non si presenta e al suo posto interviene l’allora direttrice delle collezioni d’arte di Palazzo Vecchio e dei musei comunali con un atteggiamento che mi apparve piuttosto diffidente.

-E perché scusa? Avrebbe dovuto far piacere anche a lei il fatto che si riconducesse un’opera d’arte di quel significato laddove era stata realizzata.

Giambologna, Sansone e il Filisteo, 1560 – 62, Palazzo Vecchio

R: Evidentemente non era così, mi accorsi subito infatti che con ogni probabilità le scocciava dover essere chiamata a gestire una operazione del genere come non protagonista, mi parve evidente che le interessasse ben poco acquisire l’opera, e che contava di più la circostanza che fosse stata scavalcata. Cominciò a muovere tutti i pretesti possibili. Quando le indicai nel cortile del Verrocchio il luogo perfetto da ogni punto di vista per esporre il Laocoonte, obbiettò che i piccioni avrebbero potuto insozzare la scultura, ma oltre al fatto che anche il Sansone e il Filisteo sta lì alla mercé degli scacazzi dei piccioni, risposi che non me ne fregava niente se gli escrtementi dei piccioni sporcavano la testa al mio Laocoonte! Fatto sta che dopo quel primo e unico sopralluogo non venni più contattato. Insomma non se ne fece nulla.

-E tu non hai contattato il sindaco, non hai cercato un nuovo abboccamento?

R: Il Sindaco? Sparito: altro che se ho scritto, chiamato, cercato di riprendere i contatti, niente da fare, nessuna risposta. Calcola che abbiamo tenuto a Firenze in deposito il Laocoonte per quasi due anni e che tutta l’operazione, diciamo così, cioè il trasporto, il magazzino, l’assicurazione, l’allocazione e quant’altro è stato tutto a nostre spese, e ne siamo usciti con le pive nel sacco.

-Non hai pensato a metterti in contatto con l’allora Direttore degli Uffizi, Eike Schmidt per capire se fosse stato lui interessato in qualche modo alla scultura?

R: Non ho avuto contatti diretti con Schmidt, tuttavia certamente lui ebbe modo di ammirarla alla esposizione ma non mi pare abbia mostrato interesse o attenzioni particolari.

-Quindi grossa delusione suppongo da parte tua, anche se devo dire che avere di nuovo in Galleria qui in via Monterone la scultura che ne è stato per anni il simbolo stesso può essere in qualche misura consolatorio.

R: Sarà pure vero questo che dici, ma io resto profondamente deluso al tirar delle somme, io la vedo come una sconfitta sicuramente per me ma anche per Firenze, una città con quella storia e quella cultura conosciuta da tutti, se pensiamo a come si sarebbe potuto gestire il riposizionamento di un capolavoro laddove era nato.

-Ma pensi di fare la Biennale quest’anno e magari ripresentare l’opera?

R: No, quest’anno non andrò alla Biennale, in primo luogo perché non ho un progetto che sia all’altezza del mio precedente che aveva al centro il Laocoonte, e pensa che sia prima mio padre e poi anch’io a Firenze abbiamo sempre partecipato.

-Se mi consenti di tornare un po’ indietro nella discussione volevo capire che rapporto ci fosse tra te e tuo padre che è stato tra coloro che hanno fatto di Roma una meta anche di grande interesse antiquario, intendo rapporto di tipo professionale ovviamente.

R: Che dire? Io sono stato allevato fin da piccolo come un cane da tartufo; certo, mio padre per me ha speso molto, mandandomi a studiare a Londra e in ogni caso ho iniziato a lavorare nel campo dell’antiquariato da giovanissimo; avevo solo 15 anni quando facevo il facchino a Londra alla Christie’s e poi mi toglievo il grembiule verde andavo in sala a battere alle aste.

-Qualche contrasto con lui c’è mai stato’?

R: No perché si è sempre fidato di me, magari qualche volta mi faceva notare che un certo lotto lo avevo pagato troppo, o che quell’altro era più da storici dell’arte e sarebbe stata dura rivenderlo, ma non più di questo; non ho mai ricevuto rimproveri seri, mai che mi abbia detto “hai fatto una sciocchezza”.

-E tra le tante cose che hai ricercato e poi ottenuto ce n’è una che ti ha dato particolare soddisfazione?

R: Ce ne sono tante, ma in particolare Bernini, il quadro che raffigura Sansone che uccide il leone e mi ricordo che Italo Faldi quando lo vide alla Biennale di Roma poco prima che morisse mi disse “Guarda che di quadri così nella tua vita te ne capita uno solo”.

-E, al contrario, se dovessi dire di una qualche delusione, di un’opera che credevi giusta ed invece poi hai scoperto che non lo era?

Giuseppe De Nittis La Place des Pyramides 1875 Huile sur toile H. 92,3 ; L. 75,0 cm. Don Giuseppe De Nittis, 1883
© RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski

R: Sinceramente non me ne viene in mente nessuna, o forse si, a Parigi, dove infatti la mantengo come una sorta di “memento” per non ricascarci un’altra volta; conosci il quadro di De Nittis raffigurante Place des Pyramides. beh ebbe così gran successo che lo stesso artista disse che i mercatini nel Lungosenna erano pieni di copie; accadde che in un’asta minore, sempre a Parigi, intravidi tra le opere esposte per l’asta un altro di questi dipinti però con la dicitura “signè GD”, lo comprai e poi vidi che di copia si trattava; ma non l’ho dato via, come ti dicevo lo tengo a Parigi come monito !

Insomma tu ti muovi in vari ambiti e contesti, dall’antiquariato al moderno, ma se dovessi indicare quali periodi della storia dell’arte ti affascinano di più, quale diresti.

R: Intanto posso dirti che attualmente sto seguendo da vicino quello che sta facendo mia moglie Monica che da tempo studia, pubblica e fa esposizioni su opere ed artisti anche non del tutto famosi del primo ‘900 figurativo, fino a Leoncillo, cioè anni Cinquanta, periodo che deve essere rivalutato perché presenta personalità di estremo interesse.

-Per finire, concludendo sul Laocoonte da cui abbiamo iniziato ti chiedo come intendi muoverti, al di là di Firenze e degli Uffizi.

R: Che dire? Si tratta di un’opera particolare per storia, importanze e qualità, che è rientrata in Italia grazie al nostro attaccamento all’arte e all’idea che abbiamo sempre avuto che occorre conservare il bello della nostra italianità che in primo luogo si fonda principalmente sui valori estetici trasmessi dalla grande arte di cui siamo depositari. Dunque far uscire nuovamente dal nostro paese una scultura come il Laocoonte per venderla ad un mercato estero forse più conveniente sarebbe il contrario di quello che crediamo sia giusto e che abbiamo sempre cercato di fare; non posso che auspicare che la vicenda nata dentro un  castello francese si concluda dentro l’Italia.

Roma 23 Maggio 2024