di Nica FIORI
Sekhmet, la dea leonessa
Tra le dee egizie, una delle più rappresentate nei principali musei del mondo è la temibile Sekhmet, dalla testa di leonessa: una dea che regna su una schiera di suoi geni emissari, che percorrono la terra, portando carestie e malattie, specialmente nei periodi critici di transizione tra particolari momenti del calendario (per es. alla fine dell’anno, del mese e anche del giorno). Secondo il credo egizio, per placare Sekhmet, definita come “colei la cui potenza è tanto grande quanto l’infinito“, bisognava ricorrere a particolari amuleti o statuette che la raffiguravano, e così la sua forza malefica veniva trasformata in bene.
A un faraone della XVIII dinastia, che disponeva di enormi risorse, si devono centinaia di statue di Sekhmet giunte in parte fino a noi. Parliamo del grande Amenhotep III, noto anche con il suo nome ellenizzato in Amenofi III, durante il cui regno (1391 – 1353 a.C.) la dea godette di un ampio culto. Le iscrizioni presenti nelle statue dell’epoca formano una lunga litania, che evoca una fiamma divina che respinge il dragone infernale e allontana i nemici del faraone. Era proprio grazie alla forza distruttiva di Sekhmet che Amenhotep III poteva conservare il suo potere.
Per il recinto del suo tempio funerario a Tebe ovest (odierna Karnak), il faraone fece realizzare 365 statue di Sekhmet, una per ogni giorno dell’anno: indubbiamente doveva trattarsi di una delle sequenze di statue più impressionanti dell’antico Egitto. Successivamente, in seguito a un terremoto avvenuto intorno al 1200 a.C., il tempio fu fortemente danneggiato e a partire dall’età Ramesside alcune statue furono riutilizzate e trasferite in altre località, sia della Valle del Nilo che del Delta. Uno dei più significativi trasferimenti fu operato durante la XXI dinastia, quando il primo sacerdote di Amon e futuro sovrano Pinedjem I fece trasferire decine di queste statue nel tempio della dea Mut a Karnak.
Su alcune di queste statue il faraone Sheshonq I fece incidere il suo cartiglio. Provengono presumibilmente dal tempio della dea Mut gli esemplari di statue in granodiorite del Museo Gregoriano Egizio (Musei Vaticani), che furono rinvenuti dal viaggiatore romano Silvestro Guidi nei primi decenni del XIX secolo e che sono attualmente esposti nella Terrazza del Nicchione del Cortile della Pigna. Un cortile che oltretutto conserva una sfinge e i due leoni del faraone Nectanebo II (posti proprio accanto alla fontana della Pigna), a rimarcare l’importanza di questo felino africano nell’arte egizia.
L’allestimento delle statue di Sekhmet è al di sotto di una tettoia, dove una scritta in più lingue ci informa che sono oggetto di restauro da parte del capitolo canadese dei Patrons of Arts, un’associazione di volontari che finanzia il restauro di molte opere d’arte del Vaticano.
Queste sculture egizie sono oggetto di studio del Progetto Sekhmet, diretto dal Reparto Antichità Egizie e del Vicino Oriente dei Musei Vaticani, che si propone di analizzare dal punto di vista tipologico le statue di Sekhmet, partendo dalle collezioni dei Musei Vaticani (11 statue di Sekhmet) e del Museo Egiziodi Torino (21 statue di Sekhmet), pure partecipante al progetto.
Ricordiamo che in Italia si conservano altre due statue di Sekhmet a Padova, nei Musei Civici agli Eremitani, donate dal padovano Giovanni Belzoni (il più importante esploratore dell’Egitto del XIX secolo) alla sua città natale nel 1819, ma da lui chiamate Leo Virgo, in quanto convinto che si trattasse della raffigurazione zodiacale di una donna dalla testa leonina. Moltissime altre statue sono conservate nei principali musei europei, tra cui il British Museum di Londra, il Louvre di Parigi, il Neues Museum di Berlino, il Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Tutte queste statue della dea costituiscono un gruppo statuario unitario, uno dei più imponenti di tutta la storia dell’Egitto faraonico. Si ripartiscono in due tipologie di statue: la dea seduta su un trono, spesso con il disco solare e l’ureo sulla testa e il segno ankh nella mano sinistra; la dea stante, incoronata allo stesso modo, con l’ankh nella mano destra e lo scettro uadj nella sinistra.
Le statue appartenenti a queste tipologie sono quasi tutte in granodiorite; se ne conoscono oltre 200 esemplari e molti altri continuano a emergere dagli scavi del tempio funerario di Amenofi III, nei pressi dei Colossi di Memnone che raffigurano lo stesso faraone seduto. Di questa grandiosa produzione non si conosce di fatto molto sulle modalità di esecuzione. Molte statue, anche della collezione vaticana, hanno evidenziato tracce di cromia, ribaltando completamente la loro percezione: gli occhi ad esempio erano dipinti di rosso, evidente allusione all’indole sanguinaria della dea leonessa. Anche se apparentemente tutte queste statue appaiono molto simili,
differiscono per proporzioni, decorazione, dettagli e iscrizioni, finitura della superficie e tipo di pietra, costituendo comunque “un corpus di capolavori di scultura, tutti realizzati magistralmente e tutti drammaticamente esposti”, come si legge nell’allestimento vaticano.
Ma vediamo di analizzare alcuni elementi simbolici che caratterizzano la dea, sicuramente vicina ad altre divinità femminili del pantheon egizio, quali Bast o Bastet, la dea gatta, e Hathor, la mucca celeste raffigurata come una donna con le orecchie di vacca. Sekhmet faceva parte della triade di Menfi insieme allo sposo Ptah e al figlio Nefertum, che nasce all’interno di un loto, fiore molto apprezzato in Egitto per la sua essenza e particolarmente diffuso nell’arte egizia, per esempio nelle colonne lotiformi. Ricordiamo che anche Ra viene raffigurato mentre si erge luminoso dal loto. Nel Libro dei Morti (cap. LXXXI) si legge
“Io sono questo puro loto che esce portando il Luminoso. Io sono il puro che emerge dalla prateria paludosa”.
Egli si innalza in effetti al di sopra del fango, ovvero di tutte le forme materiali; è quindi simbolo della rinascita ad un livello superiore. Il suo simbolismo deriva dal fatto che questa pianta affonda le sue radici nel fango, il suo stelo attraversa l’acqua e i suoi fiori sbocciano all’aria e alla luce solare: è pertanto la sintesi dei quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco.
La dea Sekhmet, a volte definita “figlia di Ra”, è anch’essa una divinità solare ed è raffigurata con l’ureo, ovvero la decorazione a forma di serpente, posta ai lati del disco solare, che si ritrova nel copricapo dei faraoni in quanto simbolo di forza, potenza e regalità. Il serpente dell’ureo è il cobra, sacro alla dea Uadjet, venerata nel Basso Egitto, una delle due Signore divine protettrici del Faraone. La terribile dea leonessa rappresenta il calore del sole che brucia e rende la terra un deserto: è con il suo alito infuocato che uccide i nemici del faraone. Come dea della guerra, è assetata di sangue, tanto che, secondo un aneddoto, il dio Ra, che pure l’aveva mandata (ma secondo un’altra versione del mito aveva mandato Hathor travestita da Sekhmet) a uccidere gli uomini che gli si erano rivoltati contro, per evitare che distruggesse tutta l’umanità, la fermò con uno stratagemma, facendole bere della birra colorata con ocra rossa, così da sembrare sangue. Alla fine della grande bevuta, la dea, ormai ubriaca, si calmò e tornò docile da Ra.
Espressione della dualità fra malattia e guarigione, tra caos e ordine, Sekhmet era venerata anche come divinità delle epidemie e della medicina. Per questo è raffigurata con in mano la chiave della vita, l’ankh, uno dei simboli più frequenti dell’iconografia magico-religiosa egizia. Il simbolo, portato sia dagli dei che dai faraoni, è costituito da due elementi distinti: i bracci di una croce e l’ansa che li sovrasta. L’ansa può essere interpretata come la volta celeste, o anche l’eternità; il braccio orizzontale della croce è l’orizzonte umano, terreno, il braccio verticale il cammino dalla terra al cielo; il punto d’incontro, infine, è l’energia che muove tutto l’insieme.
L’altro simbolo presente nelle statue di Sekhmet è lo scettro uadj o wadj, formato da un gambo con fiore di papiro: scettro solitamente usato anche dalle altre divinità femminili come Iside, Hathor, Neith e Uadjet. Questo scettro, di origine predinastica, indicava il vigore e veniva usato nella magia egizia come portatore di eterna giovinezza.
Nica FIORI Roma dicembre 2018