di Nica FIORI
20 Gennaio: San Sebastiano a Roma tra culto e arte
Il fatto che la basilica di San Sebastiano fuori le Mura fosse inserita nel pellegrinaggio delle Sette Chiese (le più importanti della città dal punto di vista cultuale), che i fedeli un tempo compivano a piedi nel corso di due giornate, la dice lunga sulla devozione che i Romani hanno manifestato nei secoli passati nei confronti di questo santo, che ha subito il martirio sul Palatino ed è stato sepolto nelle catacombe che portano il suo nome sulla via Appia antica. Devo precisare che, quando parlo dei secoli passati, intendo almeno fino a tutto il XX secolo, perché è nell’Anno Santo 2000 che la chiesa dell’Appia Antica è stata sostituita con il Santuario della Madonna del Divino Amore nel giro delle Sette Chiese, ma ciò non toglie che si possa ancora compiere l’itinerario più antico (foto 1).
San Sebastiano è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i Santi Pietro e Paolo, e prima di San Lorenzo e Santa Francesca Romana. La sua morte dovrebbe essere collocata tra il 303 e il 305, all’epoca della “grande persecuzione” di Diocleziano: nella Depositio martyrum, il più antico martirologio cristiano (risalente al 354), viene ricordato al 20 gennaio, giorno della sua sepoltura. Di lui sappiamo ben poco, ma Sant’Ambrogio riferisce che Sebastiano era di Milano e che venne poi a Roma, senza specificare lo scopo del viaggio. Secondo altre tradizioni più tarde sarebbe nato a Narbona, in Gallia. La Passio Sancti Sebastiani (V secolo) racconta che egli raggiunse i massimi gradi della gerarchia militare, essendo stato nominato tribuno della prima coorte pretoria, grazie all’appoggio degli imperatori Massimiano e Diocleziano, che lo stimavano per le sue doti.
Sebastiano, grazie alla sua funzione pubblica, era in grado di aiutare i cristiani arrestati e condannati a morte durante la persecuzione, portando loro conforto e incoraggiandoli a resistere nella fede, come fece con i giovani fratelli Marco e Marcelliano, che, spinti dai genitori, stavano per abiurare. Si racconta che in quell’occasione restituì miracolosamente la parola alla moglie del capo della cancelleria imperiale, Zoe, che era muta da sei anni, innescando così una serie di conversioni. Quando si diffuse la voce che tra i pretoriani si annidavano dei cristiani, venne scoperto (si dice mentre era intento a dare sepoltura ai martiri che saranno poi chiamati Santi Quattro Coronati), chiamato in giudizio e condannato a morte. Fu legato a un palo e trafitto dalle frecce dai suoi stessi arcieri, tanto che il suo corpo, alla fine del supplizio, sembrava “un riccio coperto di aculei”, come riporta la sua Passio.
Il suo supplizio è stato raffigurato da innumerevoli artisti del passato (Piero della Francesca, Signorelli, Mantegna, Antonello da Messina, Perugino, Tiziano, Tintoretto, Bernini, Reni, Memling, El Greco, Ribera, tanto per citarne alcuni), che vedevano nel suo corpo nudo, pur trafitto dalle frecce, l’integrità fisica e morale del militare cristiano. Spesso è stato proposto come un giovane, la cui nuda avvenenza richiama quella classica di Adone o di Apollo. Il dipinto di Guido Reni, conservato nei Musei Capitolini (una seconda versione si trova a Genova nel Museo di Palazzo Rosso), datato intorno al 1615, “concentra l’attenzione sull’aspetto mistico dell’episodio e non sulla sofferenza del santo”, come si legge nella didascalia, e il suo corpo con le braccia legate in alto appare ai nostri occhi di una singolare e sensuale bellezza, sullo sfondo di una misteriosa foresta (foto 2).
In realtà S. Sebastiano sopravvisse al terribile supplizio e venne curato dalla nobile Irene, vedova del martire Castulo, come appare nella tela secentesca di Francesco Rustici alla Galleria Borghese (foto 3),
o sarebbe stato sanato miracolosamente dagli angeli, leggenda cui si ispira Rubens nel dipinto del 1601-1602 conservato alla Galleria Corsini (foto 4). Dopo la guarigione Sebastiano, invece di fuggire da Roma, come gli consigliavano gli amici, si presentò – secondo i racconti agiografici – davanti agli imperatori Massimiano e Diocleziano, che si stavano recando al tempio del Sole Invitto, ribadendo la sua fede in Cristo, e fu immediatamente condannato a morte: questa volta venne fustigato (o forse bastonato) nell’ippodromo Palatino e il suo corpo venne gettato nella cloaca maxima, per evitare che i cristiano lo seppellissero.
Ma egli apparve in sogno alla matrona Lucina, rivelandole dove si trovava il suo corpo e chiedendole di portarlo ad Catacumbas. La donna recuperò il cadavere e lo seppellì nel cimitero sulla via Appia che era denominato in quel modo.
È questo un sito di grande frequentazione, tanto che la Porta delle Mura Aureliane, che immette sulla via Appia, è chiamata Porta San Sebastiano, proprio perché attraversata in epoca medievale dai pellegrini che si recavano alle catacombe con il suo nome.
Queste, pur non essendo le più grandi tra quelle romane, godevano all’epoca di fama più ampia. Lo stesso termine “catacombe”, che venne poi usato per tutti i cimiteri dello stesso tipo (prima si chiamavano cripte), si fa risalire proprio al piccolo avvallamento di quest’area, chiamato ad Catacumbas, che nel III secolo venne interrato per costruirvi sopra il sepolcreto cristiano (foto 5 e 6). La profonda spiritualità e il simbolismo dei primi fedeli – dal pesce (acronimo greco di Cristo), all’ancora di salvezza, al cristogramma e a molti altri segni, incisi o dipinti sulle pareti, sulle volte e sui loculi – contrastano in questo sito con la ricchezza di tre mausolei pagani (II secolo d.C), dalla fastosa decorazione a stucchi e pitture, che sono stati riutilizzati in epoca cristiana.
La chiesa che sorge sul cimitero sotterraneo, nonostante il suo aspetto secentesco, dovuto al Vasanzio (Jan van Santen), conserva parte dell’originario edificio sacro, la Ecclesia Apostolorum, che Costantino aveva fatto innalzare in memoria degli apostoli Pietro e Paolo, le cui spoglie secondo la tradizione erano state temporaneamente portate in queste catacombe per sottrarle ai pericoli delle persecuzioni. Solo dopo qualche secolo prevalse il nome di San Sebastiano, al cui intervento taumaturgico si attribuiva tra l’altro la fine della grave pestilenza che nel 680 aveva colpito la città.
I resti venerati di Sebastiano rimasero nella catacomba fino alla metà del IX secolo; parte di essi furono poi riposti in preziosi reliquiari e portati in altre basiliche romane (tra cui S. Pietro e i Ss. Quattro Coronati) e in quella di S. Medardo a Soissons, in Francia. Solo nel XII secolo Onorio III e i cistercensi che custodivano il santuario riconsacrarono a San Sebastiano l’altare al centro della chiesa, riportandovi le ossa dal Vaticano, ma nel XVII secolo l’altare fu spostato in una cappella laterale e in quell’occasione vi fu collocata la bella scultura marmorea (1672) di Giuseppe Giorgetti (foto 7), che lo raffigura giacente, secondo il desiderio del cardinale committente Francesco Barberini.
Nella chiesa il santo ci guarda anche dall’alto del soffitto ligneo del Vasanzio (Jan van Santen), colorato da Rinaldo Corradini (foto 8). Vi è poi una grande tela, collocata attualmente in un ambiente laterale, con il Martirio di San Sebastiano, opera di Pietro Sigismondi da Lucca (1618), dove il martire appare legato a un albero, poco prima di essere colpito dai suoi aguzzini, sullo sfondo di un cielo azzurro che si illumina a sinistra di una luce divina (foto 9).
Nella cappella “delle reliquie” sono esposte alcune memorie del Santo, tra cui una freccia e la colonna alla quale fu legato, e nella stessa cappella si conserva anche una reliquia legata, secondo una tradizione, alla storia di San Pietro. Si tratta della lastra di pietra con le presunte impronte dei piedi di Gesù Cristo, qui trasportata dalla chiesetta del Domine Quo vadis?, eretta sul luogo dove San Pietro avrebbe incontrato Gesù Cristo, poco prima di subire il martirio nel corso della prima persecuzione dei cristiani sotto Nerone. Gli archeologi pensano che si tratti probabilmente di un ex-voto dedicato al dio Redicolus, il dio del ritorno, che aveva un suo culto sulla via Appia (foto 10).
La chiesa ospita, tra le altre opere d’arte, il Salvator Mundi di Gian Lorenzo Bernini (foto 11), l’ultima splendida opera del geniale scultore, realizzata nel 1679 quando aveva 82 anni, e allo stesso Bernini è attribuito il busto di San Sebastiano nella sottostante cripta, l’ambiente catacombale che conservava le sue spoglie (foto 12). In una sala di passaggio dalla chiesa alle catacombe si conserva anche un plastico della primitiva chiesa costantiniana, che era circiforme, ovvero a forma di circo.
Meno imponente, ma molto suggestiva, è la chiesetta di San Sebastiano al Palatino, che sorse intorno al X secolo nel luogo del martirio, con annesso un monastero. Vi si accede da un bel portale con un’immagine moderna del santo, da via di San Bonaventura (foto 13 e 14).
Si chiamava un tempo in palladio (e poi in pallara) in ricordo del Palladio che era conservato nel tempio dedicato da Elagabalo al Sole invitto (in seguito intitolato a Ercole). Del convento rimangono alcune murature, mentre la chiesa è stata restaurata nel 1631 per volere di Taddeo Barberini, nipote di Urbano VIII. Sull’abside vi sono resti di affreschi del X secolo con Storie di Cristo e di San Sebastiano, mentre è secentesco l’affresco della lunetta con San Sebastiano curato da Irene, di Bernardino Gagliardi (foto 15). Pure del Seicento è la pala con il Martirio di San Sebastiano di Andrea Camassei, che un tempo era sull’altare ed è stata poi spostata sulla parete sinistra.
L’affascinante figura di San Sebastiano, a metà tra storia e leggenda, ha influenzato alcuni scrittori, in particolare il cardinale Nicholas P. S. Wiseman, autore del romanzo Fabiola (1854), che ha avuto diversi adattamenti cinematografici, e il nostro Gabriele d’Annunzio che in Le Martyre de Saint Sébastien (1911), un mistero in cinque atti musicato da Claude Debussy, mescola componenti sacre e profane. Ma, indubbiamente, l’ambito nel quale il santo ricorre con maggiore frequenza, trasformandosi in un’icona di ambigua bellezza erotica, è quello delle arti visive.
A Roma San Sebastiano è raffigurato anche con un’iconografia inconsueta, ovvero come uomo maturo o addirittura vecchio. Un mosaico del VII secolo nella chiesa di San Pietro in Vincoli lo raffigura con barba e capelli bianchi, vestito di una tunica romana sopra una corazza dorata e con in mano la corona del martirio (foto 16). Sempre come soldato armato di età matura lo ritroviamo raffigurato nell’affresco, della fine del XIII secolo, di Pietro Cavallini nell’abside della chiesa di San Giorgio in Velabro: è l’ultima figura a destra (foto 17).
È solo dal Rinascimento, in effetti, che si afferma l’immagine di un giovane imberbe e dal corpo glabro, che tanto piacque agli artisti rinascimentali e barocchi e che nelle chiese suscitava qualche pensiero carnale.
Nella basilica di Santa Maria degli Angeli, nel presbiterio, è conservato un gigantesco dipinto (olio su muro, m 9,30 x 4,20) con il Martirio di San Sebastiano, che il Domenichino aveva realizzato per la basilica di San Pietro in Vaticano tra il 1625 e il 1631. Dopo un secolo il dipinto venne staccato, segando il muro, insieme ad altri dipinti, e sostituito nella basilica Vaticana da una copia in mosaico, collocata nella II cappella della navata destra. Nella composizione il Santo, non propriamente giovane, è legato a un tronco in una posa ispirata al Laocoonte, e circondato da una folla che viene allontanata da un centurione su un cavallo bianco, mentre un angelo scende con la palma e la corona, simboli del martirio, e in alto appare Cristo per accoglierlo in cielo (foto 18).
Nel Vaticano lo troviamo nella Cappella Sistina, dove Michelangelo lo ha raffigurato, tra i santi del Paradiso, come un uomo erculeo con in mano le frecce del suo supplizio (foto 19), e nell’Appartamento Borgia, dipinto da Pinturicchio nella tradizionale iconografia del giovane trafitto dalle frecce degli arcieri, con il Colosseo ben visibile sullo sfondo.
Tra le chiese romane che gli hanno dedicato una cappella, voglio ricordare quella di San Luigi dei Francesi, dove è collocato un dipinto di Numa Boucoiran (1838), in cui appare con il corpo atletico trafitto da due frecce (foto 20).
Anche nella chiesa di Sant’Agnese in Agone, in piazza Navona, vi è un altare intitolato a San Sebastiano, con una scultura marmorea di Pier Paolo Campi (1717-19). Il bel volto estatico del giovane trafitto guarda verso l’alto e ricorda quello classico di Alessandro Magno (foto 21). L’altare è collocato nel transetto sinistro, proprio di fronte a quello di Sant’Agnese, in quanto i due martiri sono accomunati dal fatto che morirono nel corso della stessa persecuzione.
Diverse erano le chiese romane con il suo nome, ora scomparse, così come è scomparsa la cappella cui si deve il toponimo della Salita di San Sebastianello, nei pressi di piazza di Spagna.
Il culto del santo martire da Roma si diffuse in tutto il mondo cristiano, invocato soprattutto come protettore dalla peste, le cui epidemie infierivano nel Medioevo, in seguito alla narrazione, fatta da Paolo Diacono nella Historia Longobardorum, del suo intervento nel corso dell’epidemia scoppiata a Roma e a Pavia nel 680. Si riteneva infatti che il santo potesse guarire chi lo invocava, perché era uscito indenne dai colpi delle frecce, che metaforicamente rappresentano i tormenti della peste (ultimamente c’è chi lo invoca contro la nuova “peste”, ovvero l’AIDS) .
Sempre in virtù di quelle frecce, divenne il patrono degli arcieri, pur essendo stato loro vittima, degli archibugieri, dei mercanti di ferro e perfino dei tappezzieri. Attualmente è il patrono dei Vigili urbani della Polizia municipale, che a Roma ogni anno si riuniscono nella basilica di San Sebastiano fuori le Mura il 20 gennaio per celebrare la sua festa.
Nica FIORI Roma 19 gennaio 2020