di Ciro D’ARPA
Il Martirio di Sant’Ignazio vescovo di Antiochia nel dipinto di Filippo Paladini (1612): un espediente degli Oratoriani di Palermo per celebrare in segreto il cardinale Cesare Baronio.
In uno studio pubblicato nel 2012[1] ho avanzato l’ipotesi che nel dipinto commissionato per l’altare di Sant’Ignazio martire a Palermo (Fig.1), si sia potuto offrire al pittore Filippo Paladini (1544-1614) un volto da copiare: quello del cardinale oratoriano Cesare Baronio (1538-1607) (Fig.2). Una tale suggestione è stata colta già prima di me, ma in altro dipinto. Nella pala della Deposizione del Caravaggio della Pinacoteca Vaticana, ma un tempo nella cappella Vittrice nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, Romeo De Maio ha ravvisato in Nicodemo il Baronio[2].
Per lo studioso, il personaggio che ci guarda (Fig.3) è “colui che cerca la verità nella notte”; una espressione efficace per definire il grande storico della Chiesa, ancora oggi riconosciuto come tale per il rigore della ricerca fondata sul severo discernimento filologico.
La mia ipotesi sposa l’idea di De Maio ma, nel caso in esame, la celebrazione indiretta dei meriti del Baronio è portata alle estreme conseguenze: perseguire la verità a tutti i costi, anche a scapito della salvaguardia della propria persona. A supporto della tesi identificativa addurrò argomentazioni sia sulla motivazione sia sulla reperibilità a quel tempo del ritratto da potere copiare. Nella commissione del dipinto al Paladini, da contratto, è assegnato un ruolo decisionale a padre Pietro Pozzo (1571-1624), amico personale del porporato. Per il sodale, la giustificazione di far effigiare il Baronio sotto mentite spoglie, ha la sua profonda ragion d’essere in alcuni fatti storici – antichi e contemporanei – legati alla Sicilia, ai suoi re e alla Chiesa. Come diremo, ebbero un peso rilevante nella vita del cardinale, tanto da arrecargli negli ultimi anni gran nocumento e tribolazioni, pari a un martirio.
Il 30 giugno del 1607 moriva a Roma il cardinale Cesare Baronio[3]. Si spegneva all’età di sessantanove anni alla Vallicella, assistito dai sacerdoti della sua amata Congregazione dell’Oratorio, di cui era stato uno dei primi sodali e dal 1593 anche Preposito, vivente ancora Filippo Neri (1515-1595), fondatore dell’Ordine. Detenne la carica fintanto che papa Clemente VIII, nel 1596, lo nominò cardinale, assumendo il titolo dei Santi Nereo e Achilleo. L’alta dignità, dal Baronio accettata per obbedienza e pena la scomunica, sanciva la grande considerazione che di lui aveva il papa, essendo l’oratoriano il suo confessore e il più fidato consigliere in delicate questioni politiche.
Ma i suoi meriti furono ben maggiori, egli aveva avviato una impresa ambiziosa, quella di scrivere la storia della Chiesa dai tempi degli Apostoli in poi. Al primo tomo degli Anneles Ecclesiatici, stampato nel 1588, ne seguirono con cadenza regolare altri per un totale di dodici. Con l’ultimo, pubblicato subito dopo la sua morte, la cronaca si chiude nell’anno 1198. Con la preparazione e la competenza nella ricerca filologica, Baronio si guadagnò la stima incondizionata dei contemporanei; la sua opera monumentale era stata la risposta cattolica alle Centurie di Magdeburgo, opera apologetica di analoga materia, pubblicata in precedenza in tredici volumi (1559-1574) dal protestantesimo tedesco per dimostrare che il primigenio spirito cristiano, vilipeso nel corso dei secoli dalla Chiesa dei papi, era stato modernamente restaurato da Lutero.
Il Baronio non mancò mai di avere una visione obiettiva degli accadimenti; da vero storico fu scrupoloso nel perseguire sempre la verità dei fatti, per quanto comprovabili con il supporto delle fonti e dei documenti. La sua intransigenza nel procedere nella ricerca della verità storica, lo portò a non venire mai a compromessi con i potentati, sia esso ecclesiastico sia monarchico. Nel dodicesimo tomo egli negò l’autenticità della donazione di Costantino, pilastro su cui si fondava il potere temporale dei papi, in quello precedente, il cardinale aveva invece confutato la validità storica e giuridica del privilegio di cui godevano i re di Sicilia, quello di Legato apostolico[4].
La trattazione della cosiddetta “Sicula Monarchia” gli procurò l’ostilità di Filippo III di Spagna (1578-1621) II come re di Sicilia. L’annosa e spinosa questione si fondava su una bolla di Urbano II emessa nel 1098 a favore del normanno Ruggero I. Alla vigilia della conquista dell’Isola, allora sotto il dominio dei musulmani, il pontefice nominando il condottiero suo Legato apostolico gli conferì ampie deroghe sulla riorganizzazione del clero e delle diocesi. Il privilegio, ampliatosi nel tempo con altre prerogative, si era tramandato senza soluzione di continuità a tutti i re che avevano cinto la corona di Sicilia, compreso l’ultimo successore di casa Asburgo Spagna. Il predecessore, Filippo I (1527-1598), nel 1579 aveva istituito il Tribunale della “Regia Monarchia”, con a capo un proprio giudice, sempre di nomina regia.
L’ingerenza regia sulla giurisdizione religiosa in Sicilia, nei secoli era stata oggetto di contenzioso, affrontato dalla Corona e dalla Santa Sede per via diplomatica con toni a volte molto aspri. Le due parti – irriducibili nelle proprie posizioni – non erano pervenute alla concordia; i papi sperarono sempre di trovare un appiglio giuridicamente valido per confutare o revocare al re il privilegio. La trattazione nell’undicesimo tomo degli Annales degli avvenimenti accaduti al tempo di Urbano II e Ruggero I, diede modo a Clemente VIII di potere far chiarezza, una volta per sempre, sulla questione della “Sicula Monarchia”, e affrontare il contenzioso con nuove argomentazioni in suo favore. Gliele offrì lo storico oratoriano; le sue tesi, avverse agli interessi della Corona, ebbero pubblica diffusione allorquando, agli esordi del 1605, il tomo fu dato alle stampe.
Nel mese di marzo di quell’anno moriva il papa che avrebbe dovuto difenderlo dalla prevedibile reazione del re di Spagna e di Sicilia. Nel conclave che ne seguì, Baronio fu oggetto di contesa tra le fazioni cardinalizie contrapposte, filo francese e filo spagnola; se la sua elezione non raggiunse il quorum elettivo fu a causa, tanto dell’opposizione della Spagna, quanto per la strenua resistenza opposta dallo stesso oratoriano ai suoi sostenitori, giacché non si riteneva all’altezza di un così alto magistero. Fu eletto Alessandro de’ Medici che prese il nome di Leone XI. Il suo regnò durò appena ventisette giorni. Dopo le esequie, i porporati nuovamente entrarono in conclave per eleggere il successore. Anche in questo caso, Baronio fu indicato da molti cardinali come il candidato auspicabile alla Cattedra di Pietro, sebbene non accetto al re di Spagna che, ancora una volta, avvalendosi del jus exclusive ordinò ai suoi di coalizzarsi contro. Baronio, per la seconda volta, si trovò al centro di uno scontro di parti che diede luogo a uno dei conclavi più difficili e animati della storia della Chiesa[5].
Il collegio cardinalizio si ricompose sulla candidatura di Camillo Borghese: papa Paolo V. A seguito di tali avvenimenti, la malferma salute dell’esimio oratoriano, già compromessa da una malattia allo stomaco, peggiorò. Amareggiato, subito dopo il conclave, scrisse una lettera aperta al re di Spagna, non tanto per discolparsi quanto piuttosto per ribadire la sua buonafede nell’aver difeso gli interessi e l’autorità della Chiesa e del suo sommo pontefice. Nel 1610, a tre anni dalla morte del cardinale, Filippo II ordinava la messa all’indice del tomo degli Annales, vietandone così la lettura nei suoi vasti domini, a meno che fosse espunto e censurato nella parte in cui vi era la trattazione della Legazia Apostolica.
Fu, di fatto, una vera e propria condanna del Baronio, volta a zittirne l’autorevole voce e metterne in ombra la figura; un’azione però controproducente, giacché la memoria del grande storico della Chiesa rifulgeva già come esempio d’integrità e di sante virtù.
Alla morte del cardinale, gli Oratoriani iniziarono a raccogliere documenti e notizie utili a potere avviare quanto prima il suo processo di canonizzazione[6]. La postulazione presso la Congregazione dei Riti non ebbe però un immediato seguito perché si dovette dare priorità a quella di Filippo Neri, beatificato nel 1616 e canonizzato nel 1622.
Nel 1651, l’oratoriano Girolamo Barnabei pubblicava la prima biografia dell’esimio porporato[7] dedicandola a Innocenzo X. L’autore segue l’impostazione canonica dell’agiografia, escludendo dal racconto solo i miracoli e i prodigi, e ciò in ossequio ai documenti pontifici – citati in appendice – che vietavano di divulgarli in caso di soggetti non ancora canonizzati. Il biografo, nel mettere in risalto le qualità morali e di modestia dell’esimio oratoriano, dedicava un intero paragrafo alla vicenda dei due ravvicinati conclavi del 1605 in cui, anche a causa del “Sicula Monarchia tractatus”, non fu eletto papa[8]. Quei fatti, risalenti a mezzo secolo prima, dunque costituivano un titolo di merito per il Baronio, perché vera e propria prova alla quale, da vero uomo santo, si era sottoposto con animo di remissiva umiltà.
Massimo Leone, in un saggio sulle canonizzazioni in tempo di Controriforma[9], ha analizzato un parametro di valutazione del merito del candidato santo, il “martirio interiore”, ovvero il sacrificio di sé. Sebbene non comparabile a quello truce inflitto ai primi cristiani, è comunque segno evidente di santità, in un’epoca in cui la prova del martirio era una eventualità remota ai più, riservata solo ai missionari in partibus infedelium, come i ventisei gesuiti trucidati nel 1597 in Giappone.
Oltre al martirio, l’altro parametro importante sono i miracoli. Anche in questo caso, lo studioso ha evidenziato che per i santi moderni si ebbero non poche difficoltà a comprovarne l’attribuzione. Le agiografie del passato erano invece piene di miracoli e di prodigi, pertanto la Chiesa post conciliare dovette far buoni, alla pari dei “prodigi del corpo” e alle “meraviglie esteriori”, anche i “prodigi dello spirito” e le “meraviglie interiori”. Queste manifestazioni soprannaturali meno eclatanti valsero la canonizzazione a tanti santi tra cui, per esempio, Ignazio di Loyola. Lo studioso conclude il suo saggio scrivendo:
«nell’Europa cattolica il martirio si fa interiore, il nemico diventa parte di ciascuno, la tortura diventa spirituale. L’individuo moderno diventa il paradossale martire di sé stesso».
Alla luce di questi concetti e di quanto riportato a proposito del Baronio, esaminiamo ora il dipinto in cui è rappresentato il martirio di Ignazio, secondo la nostra ipotesi raffigurato con il presunto volto del cardinale oratoriano, candidato santo.
A Palermo, capitale del regno di Sicilia, nel 1593 era stata fondata una delle prime comunità filippine sorte fuori da Roma[10], ne era stato fautore il palermitano padre Pietro Pozzo (Fig.4), nel 1581 accolto da Filippo Neri nella sua Congregazione dell’Oratorio alla Vallicella ma dal 1599 stabilitosi definitivamente nella sua città presso la comunità dell’Olivella. Il sacerdote è nel novero dei sodali che hanno fatto la storia dell’Ordine, istituito canonicamente nel 1575 da Gregorio XIII, ma consolidatosi solo nel 1612 con l’approvazione pontificia della Regola[11]. Tra padre Pozzo e il cardinale Baronio vi era stata amicizia e stima reciproca, rinsaldatasi nel momento più drammatico della storia oratoriana[12].
Alla morte di Filippo Neri (1595), alcuni sodali, tra cui loro due, nonostante il diverso intendimento del Fondatore, avevano sperato di potere dare luogo a un vero e proprio ordine, motivo per il quale, sino al 1612, le diverse comunità filippine vissero anni d’incertezza. Quell’anno, Francesco Graffeo[13], per la propria cappella nella chiesa oratoriana di Palermo di Sant’Ignazio martire, vescovo di Antiochia, commissionava al pittore toscano Filippo Paladini la grande tela del santo titolare (Fig.5).
Nel documento di allogazione troviamo precise informazioni che chiarisco il ruolo svolto da padre Pietro Pozzo nel processo di formazione del soggetto pittorico di cui si hanno rare rappresentazioni, tanto antiche quanto moderne. Il pittore, «florentinus habitator t(er)re Mazareni», si impegnava a realizzare
«un quatro di pictura di S.to Ignazio che stia in atto del martirio (…) di quel disegno puntato fra detto di Paladini e detto di Graffeo con la presenza del P.re Pietro Pozzo»,
con la clausola che
«il detto quatro sia et debia essere fatto bene e diligentemente e che debia essere a contentamento gusto e satisfazione di detto P.re Pietro Pozzo e del P.re Antonino Formica».
Al pittore, in quel tempo l’artista più valido e acclarato in tutta la Sicilia[14], era stata imposta la mortificante clausola del rifiuto dell’opera e della restituzione dell’anticipo, qualora non fosse stata a «contentamento gusto et sodisfattione» dei due padri oratoriani[15]. Ciò induce a credere che al Paladini, negli accordi non scritti, si fece richiesta di attenersi scrupolosamente a specifiche direttive impartite, riguardanti non tanto la qualità della pittura, quanto piuttosto il suo contenuto iconografico.
La dedicazione della chiesa oratoriana di Palermo al santo vescovo martire, che non aveva una particolare tradizione di culto in Sicilia, trova la sua ragione profonda nel carisma proprio dell’Ordine, promotore della riforma del clero secolare e del recupero delle memorie primo cristiane. Ignazio deteneva la cattedra vescovile di Antiochia – istituita da San Pietro – quando fu condannato al martirio dall’imperatore Traiano (I secolo d.C.) che lo volle a Roma per darlo in pasto alle belve in una pubblica esecuzione.
Nelle lettere indirizzate alle comunità cristiane incontrate nel corso del viaggio verso Roma, Ignazio esorta i fedeli ad assoggettarsi spiritualmente ai rispettivi vescovi, presbiteri e diaconi – l’oligarchia ecclesiastica già costituita – perché ognuno, in diverso grado, membra del corpo mistico di una Chiesa costituita, che riconosce nel vescovo di Roma la guida nella fede e nella carità. Per la Chiesa, dunque, l’autorevole testimonianza storica del santo vescovo antiocheno avalla l’antica costituzione dell’episcopato monarchico, ribadito ancora con forza dalla Controriforma e in Sicilia però da secoli adombrato dal potere del re.
L’autorità episcopale e il valore del martirio sono i due grandi temi posti al centro dalla grande tela del Paladini. Nel dipinto è rappresentata la scena del martirio ad bestias del santo; sul soggetto, come detto sopra, sia in Sicilia come fuori dall’isola, non esisteva una consolidata tradizione iconografica, pertanto il pittore, su suggerimento dei padri oratoriani Pozzo e Formica – arbitri nella valutazione finale della qualità pittorica e iconografica del dipinto – ha dovuto inventarne una ex novo. Nella composizione si mostra una moltitudine di personaggi che si affacciano sull’arena dove campeggia la scena cruenta dei leoni che sbranano le carni di Ignazio, ritratto come un vecchio spogliato delle sue vesti.
Il santo, così raffigurato, sarebbe stato poco riconoscibile se non vi fossero state rappresentate le insegne della sua dignità vescovile, ovvero il bastone pastorale e la mitra. La foggia moderna dell’abbigliamento degli astanti, disposti a corona su tre lati della tela, virtualmente proietta la scena ritratta al tempo della committenza, attualizzando così il messaggio spirituale del santo, registrato nella sua Lettera ai Romani, dove si legge:
«Il principe di questo mondo vuole strapparmi a Dio, e corrompere il sentimento che io nutro per Lui. Nessuno di voi, che assistete allo spettacolo della lotta, gli presti man forte; siate piuttosto dalla mia parte, cioè da quella di Dio. Non abbiate il nome di Cristo sulle labbra e il desiderio del mondo nel cuore»[16].
A Palermo, l’immagine devozionale, unitamente a queste parole – dallo stesso padre Pozzo lette e commentate alla comunità cittadina – potevano essere facilmente interpretate come chiara allusione allo scontro di poteri, temporale e religioso, sollevato in Sicilia dalla “Regia Monarchia”. Una questione di scottante attualità, sulla quale l’oratoriano Cesare Baronio si era esposto in prima persona subendo, seppure da morto, la condanna morale della messa all’indice del tomo XI della sua opera storica, avvenuta solo due anni prima della commissione del dipinto al Paladini. Sull’onda emotiva suscitata da quei fatti, il soggetto pittorico del martirio di Sant’Ignazio, dunque, potrebbe essere stato inteso come doveroso omaggio reso al cardinale Baronio da parte della comunità di Palermo e più intimamente da padre Pietro Pozzo che, come da noi ipotizzato, lo volle rappresentato nella effigie del santo.
Barbanei così ci descrive il cardinale:
«Fu Cesare Baronio alto e ben composto della persona, grave e maestoso nel sembiante, di maniere dignitose e soavi. Gli occhi cerulei di celeste lumi scintillanti, e pressoché sempre socchiusi ti rilevano ad una modestia verginale, e l’anima raccolta a meditazione. Ebbe ampia fronte e rugosa, il naso lungo ed adunco, dense le ciglia, le orecchie piccole, i capelli neri e crespi, e così la barba: ma come alla matura età fu pervenuto questa folta e bianca. Vi fu chi a vederlo in veste pontificale ebbe avviso di raffigurare i Basili, i Crisostomi, gli Ambrogii, tale era l’aura celeste che diffondeva all’intorno»[17].
Del Baronio circolava una nota illustrazione a stampa di Francesco Villamena del 1602 (Fig.7) riprodotta sulle sue vere sembianze tratte da ritratti; due si trovano ancora oggi tra le cose più care custodite nelle cosiddette stanze del Santo alla Vallicella, tra cui quello dipinto da Francesco Vanni (Fig.6). É documentato che a Monreale, a pochi chilometri da Palermo, la quadreria del cardinale Ludovico De Torres (1551-1609), vescovo di quella diocesi e amico personale del Baronio, comprendeva una serie di uomini illustri tra cui il cardinale oratoriano[18]. Anche la congregazione di Palermo possedeva un suo ritratto, purtroppo disperso, di cui non sappiamo chi lo dipinse e quando[19].
L’iconografia del dipinto mi ha convinto sul fatto che ravvisare nel santo martire di Antiochia il volto del Baronio non è solo una questione di somiglianze. All’immagine del vecchio vescovo è congiunta quella dei leoni, strumento del suo martirio i cui artigli, squarciando le carni, fa uscire copioso sangue che, a ben guardare l’immagine, tracciano sul costato la scritta “Iesus” (Fig.8). L’accostamento della figura del martire con il leone rimanda palesemente ad altra ben più nota e consolidata iconografia, quella propria di San Girolamo penitente, rappresentato dallo stesso Paladini (fig.9).
San Girolamo è l’autore della Vulgata, la traduzione latina della Bibbia e dei Vangeli ufficialmente accolta dalla Chiesa Cattolica, per questo il Dottore della Chiesa ha altra iconografia identificativa, quella che lo mostra come un’anziana figura che attende al lavoro di scrittore, comunque sempre ben riconoscibile per la presenza degli attributi propri: il cappello cardinalizio e l’immancabile leone (Fig.10).
L’operato dello scrittore santo accomuna alla sua figura quella del cardinale oratoriano, a sua volta compilatore degli Annales, la storia della Chiesa dai tempi degli Apostoli. Se mettiamo in sequenza le immagini di Sant’Ignazio martire, di San Girolamo, nelle due diverse iconografie, e di Baronio ritratto nell’incisione del Villamena, si crea una interessante serie di rimandi: Ignazio martire – Girolamo penitente; Girolamo penitente – Girolamo Dottore; Girolamo Dottore – Baronio storico. Ritornando infine alla prima immagine ne scaturisce l’ultima illuminante associazione: Ignazio martire – Baronio martire. Nel caso specifico dell’alto prelato oratoriano il termine “martire” non ha più l’accezione fisica di morte cruenta, quanto piuttosto quella di morte sociale inflitta, ancora una volta, dalla Ragione di Stato.
Per gli Oratoriani di Palermo la trasmutazione, da una immagine ad altra, di un tema iconografico noto fu una prassi usuale, da me riscontata in altri due dipinti coevi, uno dei quali dello stesso Paladini[20]. Per la maggiore pertinenza con il caso in esame, propongo quello di San Carlo Borromeo del pittore siciliano Gaspare Bazzano (Fig.11).
La tela, destinata alla comunità oratoriana di Mazara del Vallo, fu commissionata a Palermo nel 1615 ancora una volta con la consulenza di padre Pietro Pozzo[21]. Nel dipinto, al santo vescovo ambrosiano è stata associata l’iconografia propria di Filippo Neri, già ben definita nel celebre dipinto di Guido Reni del 1614 (Fig.12), ancor prima della sua beatificazione, avvenuta nel 1616.
Gli Oratoriani siciliani, non potendo però ancora esibire sugli altari il fondatore dell’Ordine, su probabile suggerimento del Pozzo, indicarono al Bazzano di raffigurare San Carlo come il venerabile Filippo Neri, facendo comunque inserire la sua figura nella scenetta defilata dell’abbraccio tra i due santi uomini, legati in vita da una reciproca immensa stima. Nel caso però del Baronio, la possibilità di rendergli i sacri onori era ancora remota, pertanto l’espediente escogitato da padre Pozzo di ritrarlo nel volto del martire Ignazio verosimilmente è stato l’unico modo per celebrare l’amico sodale: in segreto.
Nessuno potrà rivelarci come andarono davvero le cose, la verità è rimasta sigillata per sempre nelle intenzioni di padre Pozzo e dei primi sodali di Palermo, tutti ritratti sotto l’ala protettiva del beato Filippo mentre li affida alla Santa Vergine Maria (fig.13).
Ciro D’ARPA Palermo 17 ottobre 2021
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