Il mezzo busto di Antinoo del Museo Pio Clementino

di Rita RANDOLFI

Il mezzo busto di Antinoo del Museo Pio Clementino: Gaspare Sibilla intermediario  tra   Thomas Jenkins, il cardinale Federico Marcello Lante e Clemente XIV.

Il   ritratto di Antinoo, conservato nella sala dei busti del Museo Pio Clementino e  databile al II secolo d.C., è sicuramente uno dei marmi più belli ed interessanti che ha per soggetto il favorito dell’imperatore Adriano. Esposto anche di recente ad alcune mostre, ma  già reso noto da Pietrangeli e da Spinola,    è  giudicato dalla critica un pezzo di qualità,  proveniente dalla villa Adriana di Tivoli,  pervenuto all’attuale collocazione nel 1772, anno in cui il cardinale Federico Marcello Lante ne aveva fatto dono a Clemente XIV [1].

Ma che tipo di rapporti intercorrevano tra  Federico Marcello Lante ed il  papa Ganganelli?

I Lante erano originari di Pisa e si stabilirono a Roma già a partire dal XIV secolo[2]. Gradualmente rivestirono incarichi sempre più importanti e prestigiosi, ma fu  attraverso la politica della carriera ecclesiastica e matrimoniale che si concretizzerà con Marcello, eletto cardinale nel 1606, e con Marcantonio,  sposatosi nel 1609 con Lucrezia della Rovere, che la casata compì quel processo di definitiva assimilazione alla nobiltà romana.

Attraverso i della Rovere, infatti, i Lante diverranno, finalmente, proprietari di un feudo nel Lazio, Bomarzo, e di una considerevole collezione di opere d’arte, connotati indispensabili per dimostrare di aver raggiunto una posizione sociale di tutto riguardo. L’abate Giuliano della Rovere, ultimo discendente maschio della celebre famiglia, lasciò ai Lante, insieme alla primogenitura ed al cognome, una cospicua raccolta di dipinti e di sculture antiche, che verrà fatta restaurare, valutare e  sistemare  nella villa sul Gianicolo, che porta proprio il nome della dinastia pisana[3].

Altro indovinato matrimonio fu quello, contratto il 15 febbraio del 1683, tra Antonio Lante e Luisa Angelica de la Tremoille, sorella di Marie Anne, che aveva sposato in seconde nozze Don Flavio Orsini di Bracciano. Rimasta  vedova, Marie Anne divenne cameriera maggiore della regina di Spagna Gabriella di Savoia. Tale carica le consentì di raggiungere in poco tempo non solo l’agiatezza economica, ma anche il prestigio sociale, essendo stata lei la consigliera dei reali e l’ispiratrice della guerra agli Asburgo. Marie Anne era molto legata alla sorella e fece ottenere al cognato il grandato di Spagna di prima classe, il cavalierato dello Spirito Santo e tutti i feudi del Regno di Napoli, precedentemente appartenuti al principe di Monaco, ricaduti in proprietà di Luigi XIV. Non solo: nel 1692, Flavio Orsini ed il fratello Lelio avevano intestato tutti i beni mobili, stabili, allodiali e  feudali, ad eccezione del palazzo di piazza Pasquino e della giurisdizione di Bracciano, a  Marie Anne, che li avrebbe goduti dopo la morte del marito e del cognato[4]. Alla  scomparsa della donna, sopraggiunta a Roma il 5 dicembre del 1722,  Marie Anne lasciò erede  il nipote prediletto, Luigi I Lante.

Si delinea, in questo modo il profilo artistico dei Lante della Rovere. Infatti rispetto alle imprese architettoniche e al collezionismo  promossi da altre  dinastie presenti  a Roma tra il XVI ed il XVIII secolo i Lante si caratterizzarono per non aver mai costruito ex novo le loro dimore, ma più semplicemente, o meglio semplicisticamente, averle ristrutturate (basti pensare alla villa gianicolense o al palazzo di piazza dei Caprettari), e per non aver mai acquistato manufatti artistici, pur possedendo ingenti raccolte, pervenute per via ereditaria dalle casate con cui avevano stretto vincoli matrimoniali.

Federico Marcello Lante

Tuttavia non considerarono mai le opere d’arte il segno tangibile di un interesse o di una scelta  culturale, quanto piuttosto un bene materiale da utilizzare quale mezzo di ostentazione del potere raggiunto, o come mero investimento, un capitale da tesaurizzare o da intaccare nel momento del bisogno. Un’eccezione è costituita dal comportamento del  cardinale Federico Marcello [5].

Costui nacque a Roma il 18 aprile del 1695 da Antonio e Luisa Angelica de la Tremoille. Le notizie biografiche dedotte da una Memoria archivistica inedita, da considerarsi  il canovaccio  dell’orazione funebre del pporporato, sono piuttosto contraddittorie rispetto a quanto riportato dal Moroni nel suo Dizionario[6]. Si viene, infatti,  a sapere che Federico Marcello ricevette una prima educazione nel feudo paterno di Rocca Sinibalda, e poi nella Casa Cimmarra presso San Lorenzo in Panisperna. In seguito  lo zio, il cardinal Antoine François De La Tremoille, ambasciatore della Francia a Roma, lo iscrisse al Seminario Romano. Secondo l’autore, purtroppo anonimo, della Memoria, nel 1720 Federico Marcello, subito dopo la morte dello zio, effettuò un viaggio in Francia in compagnia del cardinale Ferdinando Maria De Rossi[7]. Qui, avendo ottenuto, per merito del defunto prelato De La Tremoille, una serie di benefici, tra cui il più importante l’usufrutto dell’Abbazia de la Grand Selve, tentò di amministrare questo ricco patrimonio, ottenendo, con grazia speciale, il taglio degli alberi del  bosco circostante, in modo da ricavarne legname da costruzione e denaro per poter promuovere i necessari restauri dei fondi abbaziali.

Papa Clemente XII

Tornato a Roma Federico Marcello ricevette,  nel 1728 da Benedetto XIII,  il governatorato di Ancona, dove si trasferì nel luglio dell’anno successivo e dove  strinse amicizia con Prospero Lambertini, futuro Benedetto XIV.  Nel 1731  Clemente XII  lo incaricò, in qualità di arcivescovo di Petra,  di portare le fasce benedette al delfino di Francia. Qui   fu accolto con grande benevolenza da Luigi XV, che secondo quanto riportato nella citata Memoria, lo ricompensò con una scatola d’oro, tempestata di brillanti, del valore di 2000 scudi. Nello stesso anno divenne legato di Urbino, dove governò con giustizia, riscuotendo la stima della popolazione. Nel 1743 Benedetto XIV lo creò cardinale.

Il neo prelato lasciò Urbino e, dopo un breve soggiorno a Bomarzo,   tornò trionfalmente a Roma nel 1745. Nel 1758 partecipò al conclave di Clemente XIII Rezzonico e, l’anno seguente, ottenne la Prefettura del Buon Governo. Nel 1763 divenne vescovo di Porto, dove fece costruire una strada che conduceva al porto di Traiano, che, per sua volontà, venne ristrutturato. Fu protettore dell’Inghilterra e abate commendatario di Farfa e San Salvatore, occupandosi in modo particolare del seminario.  Nel 1769 intervenne al conclave dal quale uscì eletto Clemente XIV Ganganelli. Infine, triste per la morte dei suoi familiari, tra cui i nipoti Luigi e la moglie di questi, Ernietta Caetani, cui era particolarmente affezionato, Emilio, al quale aveva lasciato l’abbazia de  La  Grand Selve, e Filippo, Federico Marcello si spense a Roma il 3 marzo del 1773.

Secondo Moroni la plebe compì delle scelleratezze sul cadavere del porporato, in quanto questi, in una delle congregazioni organizzate subito dopo la morte di Clemente XIII, in sede vacante, facendo le veci del cardinal decano, si era opposto ai Ministri dell’Annona che avevano proposto l’importazione di grano dall’estero per i romani, verso i quali pare che l’alto dignitario ecclesiastico avesse usato un’espressione di disprezzo piuttosto forte. Nella succitata Memoria, viceversa, viene raccontato delle esequie solenni celebrate per l’anima del defunto. Al di là della nota di colore va sottolineato che Federico Marcello fu ricordato come un erudito ed un protettore delle arti.

Carlo Murena

Fece ristrutturare, intorno al 1760, il palazzo di piazza dei Caprettari, affidandone l’incarico all’architetto Carlo Murena[8], alla cui morte subentrò il discepolo Virginio Bracci, figlio dello scultore Pietro, del quale il Lante divenne il più grande estimatore. A Virginio Federico Marcello commissionò la sistemazione  del giardino di villa Lante sul Gianicolo, che doveva essere trasformato in “delizia” e avrebbe dovuto accogliere il mausoleo dedicato al prelato. E fu ancora Virginio ad eseguire il progetto del  monumento funebre del porporato nella cappella di famiglia in San Nicola da Tolentino a Roma[9].

Papa Clemente XIV

Ma il cardinale, oltre alle imprese architettoniche e pittoriche promosse nelle sue dimore romane, si occupò anche dell’allestimento e del restauro dell’ingente collezione di opere d’arte che la sua famiglia aveva ereditato dai della Rovere e dagli Orsini, condividendo con Clemente XIV un’autentica passione nei confronti della scultura antica. Infatti, mentre per quanto riguarda la pittura il prelato si rivelava ancora legato ai gusti baroccheggianti del secolo precedente, chiedendo ai suoi artisti colori vivaci e scene ridondanti, distaccandosi, dunque, dalle preferenze del Ganganelli, per le sculture dimostrò di possedere la stessa sensibilità del pontefice.

Il prelato, infatti, voleva tutelare i  marmi antichi, e gli scultori-restauratori al suo servizio si uniformarono al criterio più in voga del momento, quello elaborato dal Winckelmann. Secondo l’intellettuale austriaco, il restauro andava condotto dopo un approfondito studio filologico, finalizzato alla comprensione dell’esatta iconografia della scultura originale. La reintegrazione, dunque, non doveva essere arbitraria, come avveniva nei secoli precedenti, ma era il risultato di ricerche comparative su monete, medaglie, altre statue, in modo da  individuare l’idea dell’autore antico.

Bartolomeo Cavaceppi

Il restauro acquisiva in tal modo una valenza conoscitiva, che non permetteva l’invenzione del restauratore il quale, a sua volta, doveva autocensurarsi per calarsi nello stile dell’epoca. Bartolomeo Cavaceppi, inoltre, aveva introdotto una nuova metodologia che consisteva nell’utilizzazione per i rifacimenti, in sostituzione dello stucco seicentesco, dello stesso tipo di marmo antico, o nell’impiego di uno invecchiato con complesse procedure, e nell’esatta connessione tra la parte moderna e quella originale al fine di nascondere la reintegrazione[10].

In realtà  Winckelmann in più di un’occasione loderà  pastiches come il Fauno e Satiro, di villa Albani, in cui due statue separate erano  state unite per costituire un gruppo. L’atteggiamento degli intellettuali e degli artisti  era dunque piuttosto contraddittorio[11]. Tuttavia recenti studi hanno dimostrato che lo scultore che per primo applicò il principio della mimetizzazione tra l’archetipo ed il pezzo aggiunto fu Carlo Antonio Napolioni[12], nel cui studio si formò proprio Bartolomeo Cavaceppi, il quale mise a frutto e perfezionò gli insegnamenti del maestro.

Non è un caso, quindi, che Federico Marcello avesse assoldato il nipote di Carlo Antonio[13], Clemente Bianchi Napolioni, per restaurare le sculture ospitate nel palazzo di piazza dei Caprettari. Clemente[14], per giunta,  era considerato  uno dei più rinomati “commettitori” di professione, ovvero uno degli  esperti nell’assemblaggio dei marmi e nell’innesto degli inserti di restauro sulla frattura antica. Addirittura Francesco Carradori, autore del celebre trattato sulla scultura, portò con sé il Bianchi a Firenze, quando, nel 1780, gli fu ordinato di restaurare il Vaso Medici[15].

Agli stessi criteri di restauro si uniformò  anche lo scultore più amato da Clemente XIV, Gaspare Sibilla[16],  che, non casualmente, dal 1763 risultava impiegato  alle dipendenze del cardinale Federico Marcello Lante, per il quale intervenne su alcune delle sculture che si trovavano nel cortile del palazzo di piazza dei Caprettari, tra cui il gruppo sistemato sulla fontana con Venere e fanciullo[17].

Allievo di Pietro Bracci, con il quale aveva collaborato alla realizzazione del monumento sepolcrale di Benedetto XIV per la basilica di San Pietro, eseguendo la figura del Disinteresse Sibilla fu attivo almeno  a partire dal 1750, anno in cui licenziò la statua di san Michele Arcangelo per il chiostro della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, nel cui convento è ancor oggi conservata. Le altre commissioni, che si dipanano dal 1755 al 1770 circa, furono per la maggior parte ottenute per il tramite di Bracci, ed è da credersi che lo stesso artista avesse introdotto il suo allievo nell’entourage del cardinale Federico Marcello, per il quale tutti i suoi familiari, a partire dal figlio Virginio, furono attivi[18].

Va però anche evidenziato che Sibilla aveva lavorato, nel 1755, nella cappella Sanpajo in Sant’Antonio dei Portoghesi, la cui architettura si deve a Luigi Vanvitelli, dove aveva realizzato il fastigio di stucco rappresentante la Carità e la Prudenza e ancora fu a stretto contatto con Carlo Murena, incaricato, nel 1758, di preparare un modello ligneo per la fattura di una nuova porta bronzea per la basilica Vaticana[19]. Vanvitelli e Murena,  furono, non a caso, i maestri di Virginio Bracci, che sostituì proprio il Murena nel cantiere di palazzo Lante in piazza dei Caprettari.

Papa Benedetto XIV

Si ricorda inoltre che Federico Marcello, essendo stato elevato alla porpora proprio da Benedetto XIV, dovette contribuire finanziariamente, come gli altri prelati creati dallo stesso papa, alla realizzazione della tomba del pontefice,  morto senza eredi.

Dunque molteplici furono le occasioni che favorirono l’incontro tra il cardinal Lante e Gaspare Sibilla.  Questi raggiunse l’acme del successo intorno al 1770. E’ noto, infatti, che Clemente XIV decise di acquistare per il neo Museo Pio Clementino la collezione Mattei, affidando le trattative per l’affare al fidato Giovan Battista Visconti e al Sibilla, per l’appunto. Gaspare si occupò poi del restauro  non solo dei marmi Mattei, ma anche delle altre opere  destinate al museo tra cui vale la pena di ricordare almeno il Giove Verospi, le Muse e l’Apollo rinvenuti da Domenico de Angelis nella villa di Cassio a Tivoli, le colossali statue del Tevere e del Nilo trovate nei pressi della chiesa di Santo Stefano del Cacco, nell’area del tempio di Iside e Serapide. Inoltre al Sibilla e all’architetto Alessandro Dori  si deve il progetto dell’allestimento del nuovo Museo.

Finora, nonostante il ritrovamento di numerose lettere scritte dallo scultore, dalle quali si evincono le sue frequentazioni, non è stato rintracciato nessun documento che testimoniasse la sua  dedizione ad un’attività commerciale, al contrario ampiamente praticata dai colleghi come, Franzoni, Pacetti, Penna e altri.

La storia del busto di Antinoo riveste, dunque, un’importanza fondamentale.

Da un lato, infatti, esso costituisce l’unico acquisto di un certo rilievo effettuato dal cardinale Federico Marcello, che, invece, come già accennato precedentemente, aveva speso il suo denaro  soprattutto per il mantenimento, il restauro e l’esposizione delle opere che provenivano dalle eredità Della Rovere e Orsini. Dall’altro testimonia il ruolo di mediatore svolto da Sibilla[20].

Infatti il 12 novembre  del 1771 il celebre Thomas Jenkins firmò una nota di riscossione di un pagamento in cui dichiarava:

« Io sottoscritto ho ricevuto dall’Ecc.mo sig. Card. Lante s. 300 p. le mani del sig. Gasparo Sibilla in pagamento d’un busto antico di Antinoo. Tommaso Jenkins » [21].

Sibilla,  dunque, aveva fatto da tramite tra il cardinale ed il Jenkins per l’acquisto  del pezzo. Tuttavia il cardinal Lante decise di donare l’Antinoo al pontefice. Il cardinale  nutriva sinceri sentimenti di affetto nei confronti di Clemente XIV, come testimonia anche il  lascito costituito da  un dipinto con una Sacra Famiglia di Carlo Maratti,  «ricevuto a suo tempo come legato dal duca di Noirmontier, e dal corrispettivo di 500 scudi in oggetti che il papa riterrà convenienti», stabilito dal prelato nel proprio testamento[22].

Il dono  dell’Antinoo  “arrivato” proprio negli anni in cui il pontefice si dedicava alla sistemazione del Museo Pio Clementino doveva rivestire una certa importanza. Non è escluso, infatti, che fosse stato proprio Sibilla a suggerire al suo  committente di regalare al Ganganelli un pezzo così notevole, scampato miracolosamente al mercato dell’arte.

Viene spontaneo chiedersi se dietro questo regalo si nascondesse qualche altra richiesta da parte di Federico Marcello, oltre alla comprovata stima e simpatia che doveva pur legare i due personaggi. Si può supporre, infatti,  che il prelato intendesse ottenere qualcosa per sé e per i suoi familiari oppure volesse  far dimenticare la posizione da lui assunta nell’ambito del ministero dell’annona circa la sua ostilità all’importazione di grano dall’estero e di riflesso ai romani stessi. Inoltre Pastor ricorda come il Jenkins fosse particolarmente inviso a Clemente XIV, proprio perché considerato uno dei mercanti più abili, in grado di aggirare astutamente le leggi sulla tutela, assicurandosi ricchi guadagni.

La storia dell’Antinoo, in ogni caso, testimonia, ancora una volta, che per i Lante l’opera d’arte costituiva una ricchezza inestimabile, ma soprattutto un bene di scambio. Attraverso di essa si potevano saldare conti, estinguere debiti, ingraziarsi i potenti. E la politica intrapresa da Federico Marcello sarà perseguita dai suoi discendenti fino alla totale dispersione della raccolta di famiglia.

Rita RANDOLFI  Roma 29 agosto 2021

NOTE

[1] R. Randolfi,  Un dono prezioso: il mezzo busto di Antinoo del Museo Pio Clementino ed i rapporti tra Clemente XIV, il cardinale Federico Marcello Lante e Gaspare Sibilla, in  M. Rosa – M. Colonna, (a  cura di), L’età di papa Clemente XIV. Religione, politica, cultura,  Atti del convegno, (S. Arcangelo di Romagna, Rocca Malatestiana 6-8 ottobre 2005), Roma 2010, pp. 259-281; C. Pietrangeli, La provenienza delle sculture dei Musei Vaticani … cit., 1989, p. 113, n. 51; G. Spinola, Il Museo Pio Clementino … cit., II, p. 94, n. 51, fig. 16.
[2] Sui Lante e sui personaggi che si imparentarono con membri di questa famiglia si rinvia a:R. Randolfi, Villa Lante al tempo dei Lante, in T. Carunchio, S. Örmä, Villa Lante al Gianicolo. Storia della fabbrica e cronaca dei suoi abitatori, Palombi,  Roma 2005, pp. 171-286; Ead., Palazzo Lante in piazza dei Caprettari, Roma 2010, con bibl. Precedente. e Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR, Archivio Lante, d’ora in poi A.L.), b. 382.
[3]     R. Randolfi, Villa Lante … cit., pp. 171-286.
[4]     A. Amendola, La collezione del principe Lelio Orsini nel palazzo di piazza Navona, Roma 2013. In realtà, come gistamente afferma Amendola, Lelio lasciò i suoi beni all’Arciconfraternita delle SS. Stimmate di San Francesco, che tuttavia ereditò solo una parte della raccolta del principe, le opere più importanti, come dimostrano ampiamente i numerosi documenti da me pubblicati nel volume su palazzo Lante finirono a Marie Anne e, attraverso di lei, ai Lante.
[5] Sul cardinale si veda:  R. Randolfi, Il monumento sepolcrale del cardinale Federico Marcello Lante  in San Nicola da Tolentino: nuovi documenti e un disegno inedito di Virginio Bracci, in “Strenna dei Romanisti”, 2008, pp. 577-596; Ead.,  Palazzo Lante … cit., pp. 75-128.
[6] ASR., A.L., b. 706. Breve Memoria Istorica sul Cardinal Federico Marcello Lante nato in Roma li 18 aprile 1765, morto li 3 marzo 1773, sepolto nella Cappella gentilizia in S. Nicola da Tolentino e copia dell’iscrizione sepolcrale; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico  ecclesiastica,  Venezia 1852,  vol.  LIX, pp. 113-115.
[7]  Su di lui si veda: P. Messina, ad vocem «De Rossi Ferdinando Maria» in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1991, vol. XXXIX, pp. 188-190.
[8] S. Carbonara Pompei, Al crepuscolo del barocco. L’attività romana dell’architetto Carlo Murena (1713-1764), Roma 2008, in particolare le  pp. 109-130; R. Randolfi, Palazzo Lante … cit., pp. 91-100; Ead., Carlo Murena, Giovanni Filippo Baldi, Nicola Vinelli,  e due camini per Palazzo Lante,in E. Debenedetti (a cura di), Collezionisti, disegnatori e pittori dall’Arcadia al Purismo, (Studi sul Settecento  Romano, 26), Roma 2010, pp. 157-166.
[9] Oltre alla bibliografia già citata sui rapporti tra i Lante ed i Bracci si veda:  R. Randolfi,  Voci «Bracci Enrico, Pietro I, Pietro II, Virginio» in in E Debenedetti, (a cura di), Architetti e ingegneri a confronto. I. L’immagine di Roma tra Clemente XIII e Pio VII, in (Studi sul Settecento Romano, 22), Roma 2006, pp. 163-176; Ead., Casa Lante accanto al Teatro Valle Capranica. Braccioli, Vanvitelli, Mauro Fontana a Virginio e Pietro Bracci: progetti, perizie, disegni, in E. Debenedetti (a cura di), Collezionisti, disegnatori e teorici dal Barocco al Neoclassico I, in (Studi sul Settecento Romano, 25), Roma 2009,  pp. 133-146;  Ead., Novità su Filippo Bracci figlio dello scultore Pietro, in “Lazio Ieri e oggi”,  Anno XLIX, n. 2, (579),  febbraio 2013, pp. 50-53; Ead., Aggiunte a Gaspare Sibilla ed i suoi rapporti con Pietro Bracci  e figli  in ,   in E. Debenedetti (a cura di),Aspetti dell’arte del disegno: autori e collezionisti, I, Antic, città, Architettura V, (Studi sul Settecento  Romano, 36), Roma 2020, pp. 173-180; Ead., Il terremoto a Roma, attraverso i documenti dell’archivio Lante: Virginio e Pietro Bracci restauratori. https://www.aboutartonline.com/il-terremoto-a-roma-attraverso-i-documenti-dellarchivio-lante-virginio-e-pietro-bracci-restauratori/ 11 maggio 2020
[10] Si cfr. M. G. Barberini, C. Gasparri, Bartolomeo Cavaceppi scultore romano (1717 – 1799), catal. della mostra Roma, Museo di Palazzo Venezia, 25 gennaio – 15 marzo 1994, Palombi, Roma 1994; T. Weiss Mainz, P. von Zabern, (a cura di) Von der Schönheit Weissen Marmors: zum 200. Todestag Bartolomeo Cavaceppi,  catalogo della mostra, Von Zabern, Kulturstiftung, Dessau Wörlitz 1999; C. Piva, La casa-bottega di Bartolomeo Cavaceppi: un laboratorio di restauro delle antichità che voleva diventare un’Accademia, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 70, 2000, pp. 5-20; Ead.,  La raccolta d’antiche statue di Cavaceppi: un trattato settecentesco sul restauro, in Conservazione e restauro, Quaderni ANISA, 2000; C. Piva, Bartolomeo Cavaceppi tra mercato e restauro, in C. Brook, W. Curzi (a cura di), Roma e l’Antico, Roma 2010, pp. 59-64;C. Piva, S. Meyer, L’arte di ben restaurare. Complemento titolo  la “Raccolta d’antiche statue” (1768 – 1772) di Bartolomeo Cavaceppi, Firenze 2011; C. Giometti, Per accompagnare l’antico. The restoration of ancient sculpture in early eighteenth-century Rome, in “Journal of the history of collections”, 2012, pp. 219-230;  I. Pascale, Il museo di Bartolomeo Cavaceppi (1719-1799) in n M. Guderzo (a cura di) Abitare il Museo. Le case degli scultori, Atti del terzo convegno internazionale sulle gipsoteche, Possagno 4-5 , maggio 2012, Crocetta del Montello (TV) 2013, pp. 15-24; C. Piva, “Introdusse un metodo, il più giusto, il più vero”, Bartolomeo Cavaceppi restauratore di sculture antiche e falsario di epigrafi, in M. Serlorenzi,  M. Barbanera, A. Pinelli ( acura di), Il classico di fa pop, Milano 2018, pp. 138-147;   S. Roettgen, Casanova, Cavaceppi e Mengs, amici, compagni e truffatori, in S. Bruni, M. Meli, La Firenze di Winckelmann, Pisa 2018, pp. 157-174.
[11] O. Rossi Pinelli,  Artisti, falsari o filologhi? … cit.,  pp. 41-56; Ead,  Chirurgia della memoria … cit., pp. 230-250; Ead., , Scultori e restauratori a Villa Borghese: la tirannia delle statue, in E. Debenedetti, (a cura di), Collezionismo e ideologia. Mecenati, artisti e teorici dal classico al neoclassico, (Studi sul Settecento Romano, 7), Bonsignori, Roma 1991, pp. 259-371.
[12] Su questo artista, noto a Roma soprattutto come restauratore di opere antiche, nonché mercante d’arte, si cfr. M. G. Barberini, C. Gasparri, Bartolomeo Cavaceppi scultore romano (1717 – 1799) … cit., pp. 17-18; M.G. Barberini, «DE LAVORI AD UN FAUNO DI ROSSO ANTICO» ed altre sculture del Museo Capitolino (1736-1746). Alessandro Gregorio Capponi, Carlo Antonio Napolioni e Clemente Bianchi, in “Bollettino dei Musei Comunali di Roma”, VII, 1993, pp. 23-35; F.P. Arata, Carlo Antonio Napolioni, celebre restauratore delle cose antiche, in “Bollettino della Commissione di Archeologia Comunale”, 99, 1998, (2000), pp. 153-232.
[13] Carlo Antonio aveva stimato le sculture provenienti dal lascito della Rovere. Cfr. R. Randolfi, Villa Lante al tempo dei Lante, cit., pp. 190-196.
[14] M.G. Barberini, Clemente Bianchi e Bartolomeo Cavaceppi, 1750-1754: restauri conservativi di alcune statue del Museo Capitolino, in “Bollettino dei Musei Comunali di Roma”, VIII, 1994, pp. 95-121.
[15] F. Carradori, Istruzione elementare per gli studiosi di scultura  Firenze 1802, pp. XXXV-XXXVII; R. Roani Villani, Per Francesco Carradori copista e restauratore, in “Paragone”, 479-481, 1990, pp. 129-130; F. Giacomini, Appunti sulla tecnica scultorea di Francesco Carradori, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 70, 2000, p. 38; R. Roani Villani, Sculture antiche e restauri storici. Considerazioni sull’attività di Francesco Carradori, in  E. Debenedetti (a cura di), Il Settecento e le arti. Dall’Arcadia all’illuminismo: nuove proposte tra le corti, l’aristocrazia e la borghesia,  Atti del convegno, Roma, Palazzo Corsini 23-24 novembre 2005, in corso di stampa.
[16] M.B. Guerrieri Borsoi, Gaspare Sibilla «scultore pontifico» in  E. Debenedetti, (a cura di), Sculture romane del Settecento. La professione dello scultore, II,  (Studi sul Settecento Romano, 18), Bonsignori,  Roma 2002, pp. 151-189. Si veda anche: A. Pampalone, Vincenzo Pacetti: stralcio di un diario di lavoro, in “Neoclassico”, 25, 2004, p. 30, nota 53; R. Carloni, Per Gioacchino Falcioni, Ferdinando Lisandroni e Gaspare Sibilla, in “Antologia di Belle Arti”, 67-70, 2005, pp. 98-112; Randolfi, Albacini, Cades, Canova,  Ceccarini, D’Este, Landi e Pacetti, e la collezione di sculture dei Lante Vaini della Rovere nel palazzo di piazza dei Caprettari, in  E. Debenedetti, (a cura di), Sculture romane del Settecento. III, La professione dello scultore (Studi sul Settecento Romano, 19) Roma 2003, p. 439; Ead., Dai Lante ai Borghese: la storia del mezzo busto di Giunone attraverso le perizie di Papaleo, Pacetti, D’Este e il restauro di Sibilla, in “Strenna dei Romanisti”, 2009, pp. 599-566; Ead., a Venere e fanciullo dei  Lante: da Papaleo a Sibilla e Pacetti, da Winckelmann e D’Este  ad Albacini e Benaglia, questioni di restauro, perizie  e iconografia, in E. Debenedetti (a cura di), Collezionisti, disegnatori e teorici dal Barocco al Neoclassico I, in (Studi sul Settecento Romano, 25), Roma 2009,  pp. 201-207;Ead., Un dono prezioso:  … cit.,  Roma 2010, pp. 259-281; Ead., Aggiunte a Gaspare Sibilla ed i suoi rapporti con Pietro Bracci  e figli,   in E. Debenedetti (a cura di), Aspetti dell’arte del disegno: autori e collezionisti, I, Antico, città, Architettura V, (Studi sul Settecento  Romano, 36), Roma 2020, pp. 173-180.
[17] R. Randolfi, Albacini, Cades, Canova Ceccarini, D’Este, Landi e Pacetti, e la collezione di sculture dei Lante Vaini della Rovere nel palazzo di piazza dei Caprettari … cit., p. 439; Ead., La Venere e fanciullo dei  Lante: da Papaleo a Sibilla e Pacetti, da Winckelmann e D’Este  ad Albacini e Benaglia, questioni di restauro, perizie  e iconografia, in E. Debenedetti (a cura di), Collezionisti, disegnatori e teorici dal Barocco al Neoclassico I, in (Studi sul Settecento Romano, 25), Roma 2009,   pp. 281-287.
[18] R. Randolfi, Aggiunte a Gaspare Sibilla ed i suoi rapporti con Pietro Bracci  e figli … cit., pp. 173-180.
[19] Anche se il modello di legno per la stessa fu pagato nel 1767 a Paolo Posi.
[20]   Lo scultore aveva svolto tale funzione anche in occasione dell’acquisto di una statua rappresentante un cane per il Museo Pio Clementino. Cfr. M.B. Guerrieri Borsoi, Gaspare Sibilla   … cit., p. 168, nota 56.
[21]   R. Randolfi, Un dono prezioso … cit., pp.  259-281.
[22]   R. Randolfi, Palazzo Lante … cit., pp. 123-128.