di Rita RANDOLFI
Il mezzo busto di Antinoo del Museo Pio Clementino: Gaspare Sibilla intermediario tra Thomas Jenkins, il cardinale Federico Marcello Lante e Clemente XIV.
Il ritratto di Antinoo, conservato nella sala dei busti del Museo Pio Clementino e databile al II secolo d.C., è sicuramente uno dei marmi più belli ed interessanti che ha per soggetto il favorito dell’imperatore Adriano. Esposto anche di recente ad alcune mostre, ma già reso noto da Pietrangeli e da Spinola, è giudicato dalla critica un pezzo di qualità, proveniente dalla villa Adriana di Tivoli, pervenuto all’attuale collocazione nel 1772, anno in cui il cardinale Federico Marcello Lante ne aveva fatto dono a Clemente XIV [1].
Ma che tipo di rapporti intercorrevano tra Federico Marcello Lante ed il papa Ganganelli?
I Lante erano originari di Pisa e si stabilirono a Roma già a partire dal XIV secolo[2]. Gradualmente rivestirono incarichi sempre più importanti e prestigiosi, ma fu attraverso la politica della carriera ecclesiastica e matrimoniale che si concretizzerà con Marcello, eletto cardinale nel 1606, e con Marcantonio, sposatosi nel 1609 con Lucrezia della Rovere, che la casata compì quel processo di definitiva assimilazione alla nobiltà romana.
Attraverso i della Rovere, infatti, i Lante diverranno, finalmente, proprietari di un feudo nel Lazio, Bomarzo, e di una considerevole collezione di opere d’arte, connotati indispensabili per dimostrare di aver raggiunto una posizione sociale di tutto riguardo. L’abate Giuliano della Rovere, ultimo discendente maschio della celebre famiglia, lasciò ai Lante, insieme alla primogenitura ed al cognome, una cospicua raccolta di dipinti e di sculture antiche, che verrà fatta restaurare, valutare e sistemare nella villa sul Gianicolo, che porta proprio il nome della dinastia pisana[3].
Altro indovinato matrimonio fu quello, contratto il 15 febbraio del 1683, tra Antonio Lante e Luisa Angelica de la Tremoille, sorella di Marie Anne, che aveva sposato in seconde nozze Don Flavio Orsini di Bracciano. Rimasta vedova, Marie Anne divenne cameriera maggiore della regina di Spagna Gabriella di Savoia. Tale carica le consentì di raggiungere in poco tempo non solo l’agiatezza economica, ma anche il prestigio sociale, essendo stata lei la consigliera dei reali e l’ispiratrice della guerra agli Asburgo. Marie Anne era molto legata alla sorella e fece ottenere al cognato il grandato di Spagna di prima classe, il cavalierato dello Spirito Santo e tutti i feudi del Regno di Napoli, precedentemente appartenuti al principe di Monaco, ricaduti in proprietà di Luigi XIV. Non solo: nel 1692, Flavio Orsini ed il fratello Lelio avevano intestato tutti i beni mobili, stabili, allodiali e feudali, ad eccezione del palazzo di piazza Pasquino e della giurisdizione di Bracciano, a Marie Anne, che li avrebbe goduti dopo la morte del marito e del cognato[4]. Alla scomparsa della donna, sopraggiunta a Roma il 5 dicembre del 1722, Marie Anne lasciò erede il nipote prediletto, Luigi I Lante.
Si delinea, in questo modo il profilo artistico dei Lante della Rovere. Infatti rispetto alle imprese architettoniche e al collezionismo promossi da altre dinastie presenti a Roma tra il XVI ed il XVIII secolo i Lante si caratterizzarono per non aver mai costruito ex novo le loro dimore, ma più semplicemente, o meglio semplicisticamente, averle ristrutturate (basti pensare alla villa gianicolense o al palazzo di piazza dei Caprettari), e per non aver mai acquistato manufatti artistici, pur possedendo ingenti raccolte, pervenute per via ereditaria dalle casate con cui avevano stretto vincoli matrimoniali.
Tuttavia non considerarono mai le opere d’arte il segno tangibile di un interesse o di una scelta culturale, quanto piuttosto un bene materiale da utilizzare quale mezzo di ostentazione del potere raggiunto, o come mero investimento, un capitale da tesaurizzare o da intaccare nel momento del bisogno. Un’eccezione è costituita dal comportamento del cardinale Federico Marcello [5].
Costui nacque a Roma il 18 aprile del 1695 da Antonio e Luisa Angelica de la Tremoille. Le notizie biografiche dedotte da una Memoria archivistica inedita, da considerarsi il canovaccio dell’orazione funebre del pporporato, sono piuttosto contraddittorie rispetto a quanto riportato dal Moroni nel suo Dizionario[6]. Si viene, infatti, a sapere che Federico Marcello ricevette una prima educazione nel feudo paterno di Rocca Sinibalda, e poi nella Casa Cimmarra presso San Lorenzo in Panisperna. In seguito lo zio, il cardinal Antoine François De La Tremoille, ambasciatore della Francia a Roma, lo iscrisse al Seminario Romano. Secondo l’autore, purtroppo anonimo, della Memoria, nel 1720 Federico Marcello, subito dopo la morte dello zio, effettuò un viaggio in Francia in compagnia del cardinale Ferdinando Maria De Rossi[7]. Qui, avendo ottenuto, per merito del defunto prelato De La Tremoille, una serie di benefici, tra cui il più importante l’usufrutto dell’Abbazia de la Grand Selve, tentò di amministrare questo ricco patrimonio, ottenendo, con grazia speciale, il taglio degli alberi del bosco circostante, in modo da ricavarne legname da costruzione e denaro per poter promuovere i necessari restauri dei fondi abbaziali.
Tornato a Roma Federico Marcello ricevette, nel 1728 da Benedetto XIII, il governatorato di Ancona, dove si trasferì nel luglio dell’anno successivo e dove strinse amicizia con Prospero Lambertini, futuro Benedetto XIV. Nel 1731 Clemente XII lo incaricò, in qualità di arcivescovo di Petra, di portare le fasce benedette al delfino di Francia. Qui fu accolto con grande benevolenza da Luigi XV, che secondo quanto riportato nella citata Memoria, lo ricompensò con una scatola d’oro, tempestata di brillanti, del valore di 2000 scudi. Nello stesso anno divenne legato di Urbino, dove governò con giustizia, riscuotendo la stima della popolazione. Nel 1743 Benedetto XIV lo creò cardinale.
Il neo prelato lasciò Urbino e, dopo un breve soggiorno a Bomarzo, tornò trionfalmente a Roma nel 1745. Nel 1758 partecipò al conclave di Clemente XIII Rezzonico e, l’anno seguente, ottenne la Prefettura del Buon Governo. Nel 1763 divenne vescovo di Porto, dove fece costruire una strada che conduceva al porto di Traiano, che, per sua volontà, venne ristrutturato. Fu protettore dell’Inghilterra e abate commendatario di Farfa e San Salvatore, occupandosi in modo particolare del seminario. Nel 1769 intervenne al conclave dal quale uscì eletto Clemente XIV Ganganelli. Infine, triste per la morte dei suoi familiari, tra cui i nipoti Luigi e la moglie di questi, Ernietta Caetani, cui era particolarmente affezionato, Emilio, al quale aveva lasciato l’abbazia de La Grand Selve, e Filippo, Federico Marcello si spense a Roma il 3 marzo del 1773.
Secondo Moroni la plebe compì delle scelleratezze sul cadavere del porporato, in quanto questi, in una delle congregazioni organizzate subito dopo la morte di Clemente XIII, in sede vacante, facendo le veci del cardinal decano, si era opposto ai Ministri dell’Annona che avevano proposto l’importazione di grano dall’estero per i romani, verso i quali pare che l’alto dignitario ecclesiastico avesse usato un’espressione di disprezzo piuttosto forte. Nella succitata Memoria, viceversa, viene raccontato delle esequie solenni celebrate per l’anima del defunto. Al di là della nota di colore va sottolineato che Federico Marcello fu ricordato come un erudito ed un protettore delle arti.
Fece ristrutturare, intorno al 1760, il palazzo di piazza dei Caprettari, affidandone l’incarico all’architetto Carlo Murena[8], alla cui morte subentrò il discepolo Virginio Bracci, figlio dello scultore Pietro, del quale il Lante divenne il più grande estimatore. A Virginio Federico Marcello commissionò la sistemazione del giardino di villa Lante sul Gianicolo, che doveva essere trasformato in “delizia” e avrebbe dovuto accogliere il mausoleo dedicato al prelato. E fu ancora Virginio ad eseguire il progetto del monumento funebre del porporato nella cappella di famiglia in San Nicola da Tolentino a Roma[9].
Ma il cardinale, oltre alle imprese architettoniche e pittoriche promosse nelle sue dimore romane, si occupò anche dell’allestimento e del restauro dell’ingente collezione di opere d’arte che la sua famiglia aveva ereditato dai della Rovere e dagli Orsini, condividendo con Clemente XIV un’autentica passione nei confronti della scultura antica. Infatti, mentre per quanto riguarda la pittura il prelato si rivelava ancora legato ai gusti baroccheggianti del secolo precedente, chiedendo ai suoi artisti colori vivaci e scene ridondanti, distaccandosi, dunque, dalle preferenze del Ganganelli, per le sculture dimostrò di possedere la stessa sensibilità del pontefice.
Il prelato, infatti, voleva tutelare i marmi antichi, e gli scultori-restauratori al suo servizio si uniformarono al criterio più in voga del momento, quello elaborato dal Winckelmann. Secondo l’intellettuale austriaco, il restauro andava condotto dopo un approfondito studio filologico, finalizzato alla comprensione dell’esatta iconografia della scultura originale. La reintegrazione, dunque, non doveva essere arbitraria, come avveniva nei secoli precedenti, ma era il risultato di ricerche comparative su monete, medaglie, altre statue, in modo da individuare l’idea dell’autore antico.
Il restauro acquisiva in tal modo una valenza conoscitiva, che non permetteva l’invenzione del restauratore il quale, a sua volta, doveva autocensurarsi per calarsi nello stile dell’epoca. Bartolomeo Cavaceppi, inoltre, aveva introdotto una nuova metodologia che consisteva nell’utilizzazione per i rifacimenti, in sostituzione dello stucco seicentesco, dello stesso tipo di marmo antico, o nell’impiego di uno invecchiato con complesse procedure, e nell’esatta connessione tra la parte moderna e quella originale al fine di nascondere la reintegrazione[10].
In realtà Winckelmann in più di un’occasione loderà pastiches come il Fauno e Satiro, di villa Albani, in cui due statue separate erano state unite per costituire un gruppo. L’atteggiamento degli intellettuali e degli artisti era dunque piuttosto contraddittorio[11]. Tuttavia recenti studi hanno dimostrato che lo scultore che per primo applicò il principio della mimetizzazione tra l’archetipo ed il pezzo aggiunto fu Carlo Antonio Napolioni[12], nel cui studio si formò proprio Bartolomeo Cavaceppi, il quale mise a frutto e perfezionò gli insegnamenti del maestro.
Non è un caso, quindi, che Federico Marcello avesse assoldato il nipote di Carlo Antonio[13], Clemente Bianchi Napolioni, per restaurare le sculture ospitate nel palazzo di piazza dei Caprettari. Clemente[14], per giunta, era considerato uno dei più rinomati “commettitori” di professione, ovvero uno degli esperti nell’assemblaggio dei marmi e nell’innesto degli inserti di restauro sulla frattura antica. Addirittura Francesco Carradori, autore del celebre trattato sulla scultura, portò con sé il Bianchi a Firenze, quando, nel 1780, gli fu ordinato di restaurare il Vaso Medici[15].
Agli stessi criteri di restauro si uniformò anche lo scultore più amato da Clemente XIV, Gaspare Sibilla[16], che, non casualmente, dal 1763 risultava impiegato alle dipendenze del cardinale Federico Marcello Lante, per il quale intervenne su alcune delle sculture che si trovavano nel cortile del palazzo di piazza dei Caprettari, tra cui il gruppo sistemato sulla fontana con Venere e fanciullo[17].
Allievo di Pietro Bracci, con il quale aveva collaborato alla realizzazione del monumento sepolcrale di Benedetto XIV per la basilica di San Pietro, eseguendo la figura del Disinteresse Sibilla fu attivo almeno a partire dal 1750, anno in cui licenziò la statua di san Michele Arcangelo per il chiostro della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, nel cui convento è ancor oggi conservata. Le altre commissioni, che si dipanano dal 1755 al 1770 circa, furono per la maggior parte ottenute per il tramite di Bracci, ed è da credersi che lo stesso artista avesse introdotto il suo allievo nell’entourage del cardinale Federico Marcello, per il quale tutti i suoi familiari, a partire dal figlio Virginio, furono attivi[18].
Va però anche evidenziato che Sibilla aveva lavorato, nel 1755, nella cappella Sanpajo in Sant’Antonio dei Portoghesi, la cui architettura si deve a Luigi Vanvitelli, dove aveva realizzato il fastigio di stucco rappresentante la Carità e la Prudenza e ancora fu a stretto contatto con Carlo Murena, incaricato, nel 1758, di preparare un modello ligneo per la fattura di una nuova porta bronzea per la basilica Vaticana[19]. Vanvitelli e Murena, furono, non a caso, i maestri di Virginio Bracci, che sostituì proprio il Murena nel cantiere di palazzo Lante in piazza dei Caprettari.
Si ricorda inoltre che Federico Marcello, essendo stato elevato alla porpora proprio da Benedetto XIV, dovette contribuire finanziariamente, come gli altri prelati creati dallo stesso papa, alla realizzazione della tomba del pontefice, morto senza eredi.
Dunque molteplici furono le occasioni che favorirono l’incontro tra il cardinal Lante e Gaspare Sibilla. Questi raggiunse l’acme del successo intorno al 1770. E’ noto, infatti, che Clemente XIV decise di acquistare per il neo Museo Pio Clementino la collezione Mattei, affidando le trattative per l’affare al fidato Giovan Battista Visconti e al Sibilla, per l’appunto. Gaspare si occupò poi del restauro non solo dei marmi Mattei, ma anche delle altre opere destinate al museo tra cui vale la pena di ricordare almeno il Giove Verospi, le Muse e l’Apollo rinvenuti da Domenico de Angelis nella villa di Cassio a Tivoli, le colossali statue del Tevere e del Nilo trovate nei pressi della chiesa di Santo Stefano del Cacco, nell’area del tempio di Iside e Serapide. Inoltre al Sibilla e all’architetto Alessandro Dori si deve il progetto dell’allestimento del nuovo Museo.
Finora, nonostante il ritrovamento di numerose lettere scritte dallo scultore, dalle quali si evincono le sue frequentazioni, non è stato rintracciato nessun documento che testimoniasse la sua dedizione ad un’attività commerciale, al contrario ampiamente praticata dai colleghi come, Franzoni, Pacetti, Penna e altri.
La storia del busto di Antinoo riveste, dunque, un’importanza fondamentale.
Da un lato, infatti, esso costituisce l’unico acquisto di un certo rilievo effettuato dal cardinale Federico Marcello, che, invece, come già accennato precedentemente, aveva speso il suo denaro soprattutto per il mantenimento, il restauro e l’esposizione delle opere che provenivano dalle eredità Della Rovere e Orsini. Dall’altro testimonia il ruolo di mediatore svolto da Sibilla[20].
Infatti il 12 novembre del 1771 il celebre Thomas Jenkins firmò una nota di riscossione di un pagamento in cui dichiarava:
« Io sottoscritto ho ricevuto dall’Ecc.mo sig. Card. Lante s. 300 p. le mani del sig. Gasparo Sibilla in pagamento d’un busto antico di Antinoo. Tommaso Jenkins » [21].
Sibilla, dunque, aveva fatto da tramite tra il cardinale ed il Jenkins per l’acquisto del pezzo. Tuttavia il cardinal Lante decise di donare l’Antinoo al pontefice. Il cardinale nutriva sinceri sentimenti di affetto nei confronti di Clemente XIV, come testimonia anche il lascito costituito da un dipinto con una Sacra Famiglia di Carlo Maratti, «ricevuto a suo tempo come legato dal duca di Noirmontier, e dal corrispettivo di 500 scudi in oggetti che il papa riterrà convenienti», stabilito dal prelato nel proprio testamento[22].
Il dono dell’Antinoo “arrivato” proprio negli anni in cui il pontefice si dedicava alla sistemazione del Museo Pio Clementino doveva rivestire una certa importanza. Non è escluso, infatti, che fosse stato proprio Sibilla a suggerire al suo committente di regalare al Ganganelli un pezzo così notevole, scampato miracolosamente al mercato dell’arte.
Viene spontaneo chiedersi se dietro questo regalo si nascondesse qualche altra richiesta da parte di Federico Marcello, oltre alla comprovata stima e simpatia che doveva pur legare i due personaggi. Si può supporre, infatti, che il prelato intendesse ottenere qualcosa per sé e per i suoi familiari oppure volesse far dimenticare la posizione da lui assunta nell’ambito del ministero dell’annona circa la sua ostilità all’importazione di grano dall’estero e di riflesso ai romani stessi. Inoltre Pastor ricorda come il Jenkins fosse particolarmente inviso a Clemente XIV, proprio perché considerato uno dei mercanti più abili, in grado di aggirare astutamente le leggi sulla tutela, assicurandosi ricchi guadagni.
La storia dell’Antinoo, in ogni caso, testimonia, ancora una volta, che per i Lante l’opera d’arte costituiva una ricchezza inestimabile, ma soprattutto un bene di scambio. Attraverso di essa si potevano saldare conti, estinguere debiti, ingraziarsi i potenti. E la politica intrapresa da Federico Marcello sarà perseguita dai suoi discendenti fino alla totale dispersione della raccolta di famiglia.
Rita RANDOLFI Roma 29 agosto 2021
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