di Nica FIORI
Nel Comune di Fara in Sabina, che costituisce il primo dei centri della provincia di Rieti percorrendo da Roma la via Salaria, la storia è di casa, a partire dai resti della città sabina di Cures, citata da Cicerone, Virgilio, Stazio e altri, legata alle origini di Roma, in quanto patria di Tito Tazio, il quale divise con Romolo la sovranità di Roma, dopo averlo fronteggiato in guerra in seguito al “ratto delle Sabine”.
Importantissimi reperti si aggiungono ora al Museo Civico Archeologico, ospitato dal 2001 nel quattrocentesco Palazzo Brancaleoni, nel cuore del borgo medievale, dove il 16 marzo sono state inaugurate con una grande manifestazione corale le sale della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, comprendenti quella del celebre Carro del Principe, detto anche “Carro di Eretum” dal nome della città di provenienza, che sorgeva nel vicino territorio di Montelibretti.
Possiamo finalmente ammirare in un museo sabino i preziosi materiali di una tomba principesca di antenati locali, grazie al lavoro sinergico di restauro e valorizzazione del Comune di Fara in Sabina e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti.
Si tratta di reperti restituiti all’Italia dalla Danimarca nel 2016, dopo lunghe e travagliate vicende, grazie all’intervento dei carabinieri del Comando TPC (Tutela Patrimonio Culturale). Erano stati trafugati nel 1970 dalla tomba XI della necropoli di Colle del Forno nel corso di una scoperta casuale e portati all’estero, nel porto franco di Ginevra, dal noto trafficante Giacomo Medici. I materiali bronzei del cosiddetto “Carro di Eretum”, di raffinatissima fattura, furono acquistati tramite un intermediario dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen per una cifra altissima; per questo motivo il museo danese, quando l’Italia richiese i reperti, dimostrando che erano stati portati all’estero illegalmente, non voleva restituirli e ci sono voluti anni e anni di trattative. I reperti furono esposti nel museo di Copenaghen a partire dal 2006, in occasione del nuovo allestimento della collezione etrusca “The ancient Mediterranean”, cui collaborarono archeologi italiani del CNR. Lo stesso CNR aveva scavato, con l’archeologa Paola Santoro, nella necropoli di Colle del Forno e nella tomba XI aveva trovato nel 1972-1973 i segni del precedente scavo clandestino e i resti di altri manufatti, che erano stati sistemati nel museo di Fara in Sabina (museo che, quando venne istituito, nel 1980, ebbe come prima sede la vicina Abbazia di Farfa).
Dopo il rientro in Italia, il Carro di Eretum è stato esposto una prima volta agli Uffizi di Firenze nella mostra “La tutela tricolore” e poi a Roma nella Camera dei Deputati nella mostra “Testimoni di civiltà. L’articolo 9 della Costituzione. La tutela del patrimonio culturale della Nazione”. All’epoca venne ampiamente evidenziato dalla stampa come il clima di connivenza del passato stesse cambiando e, grazie agli sforzi del TPC e della “diplomazia culturale”, fosse stato possibile siglare un accordo con il museo danese (come già avvenuto con musei americani, tra cui il noto Paul Getty Museum di Malibu): un accordo che prevede ovviamente da parte dell’Italia il prestito per lunghi periodi di altri importanti preziosi reperti.
Il primo ritorno in Sabina risale al 2021, nella mostra “Strada facendo. Il lungo viaggio del carro di Eretum”, tenutasi a Rieti nel palazzo Dosi Delfini. In quell’occasione venne approfondito lo studio della tomba XI, dando modo ai visitatori di scoprire uno spaccato significativo della civiltà sabina attraverso i corredi funerari di una stirpe principesca. Per la prima volta vennero ricomposti i pezzi restituiti dalla Ny Carlsberg Glyptotek, nel frattempo restaurati nel Museo Nazionale Romano, con i materiali conservati nel museo di Fara in Sabina.
Come vediamo ora nell’allestimento museale delle sale dedicate alla tomba, a un primo corredo appartenente a una donna (comprendente cerchi bronzei relativi all’abbigliamento, un vassoio-incensiere di area sabina e un oggetto di area aquilana) del VII secolo a.C., si aggiunge nell’ultimo quarto dello stesso VII secolo a.C. quello di un personaggio di alto rango, comprendente, tra gli altri oggetti (vasi in ceramica, contenitori in bronzo, armi), due carri, attribuibili ad artigiani ceretani, ovvero della città etrusca di Caere (Cerveteri).
Altri oggetti sono di epoca successiva, perché la tomba continuò a essere usata fino al V secolo a.C. Tra questi ultimi reperti ricordiamo un “graffione” in bronzo, la cui funzione è incerta, e lance e giavellotti in ferro.
La tomba ha restituito anche preziosi oggetti in oro e argento che si collocano tutti nel VII secolo a.C. Del resto, come racconta Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, II 38, 3) a proposito di Tarpea (la fanciulla che avrebbe tradito i Romani per il desiderio di possedere i braccialetti d’oro dei nemici):
“A quel tempo i Sabini portavano oro e non erano meno degli Etruschi amanti delle raffinatezze”.
L’oggetto che colpisce maggiormente la nostra attenzione è il pendaglio in argento con castone girevole su cui è inserito un elemento in ambra (integrazione moderna), sul quale è applicata una lamina aurea a ritaglio configurata a forma di felini (due leoni e due sfingi alternati) raccordati da un elemento elicoidale centrale.
Altri elementi aurei sono relativi a una collana con pendenti a bulla e vi è pure un pendente configurato ad anatra.
Francesca Licordari, funzionaria archeologa della SABAP per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti, ha spiegato che
“il nuovo allestimento nel museo di Fara in Sabina ha recepito le novità che erano state presentate nella mostra di Rieti nel 2021, ovvero i materiali restituiti da Copenaghen insieme a quelli provenienti dallo scavo degli anni ’70 nella tomba XI di Colle del Forno dall’equipe del CNR, infatti si è visto che alcuni frammenti trovati nella tomba si accostavano tipologicamente ai reperti che erano andati a Copenaghen. In quella città tutti i reperti erano stati esposti insieme, proponendo una ricostruzione del carro, mentre gli altri materiali, cui non era stato possibile dare una collocazione, giacevano a terra nella stessa teca del carro”.
In effetti, la ricostruzione del “Carro di Eretum” proposta a Copenaghen, pur di grande bellezza, non era filologica, non tenendo conto delle divisioni cronologiche dei diversi corredi. Oltretutto veniva proposto alla vista il solo carro da passeggio (calesse), mentre in realtà i carri erano almeno due: un calesse e un carro da guerra, che viene indicato col termine latino “currus”.
Il cosiddetto “Carro di Eretum” era una sorta di calesse a due cavalli, con l’abitacolo che prevedeva la seduta del conducente (ed eventualmente di altre due persone). Nel carro da guerra, invece, il conducente stava in piedi. Di quest’ultimo si possono vedere la ruota in ferro quasi integra e i coprimozzi montati insieme.
Ma è ovviamente il calesse del Principe, un oggetto eccezionale diventato quasi mitico per la sua fama, ad attrarre i visitatori, soprattutto per le lamine bronzee che, a distanza di più di 26 secoli dalla loro realizzazione, ci incantano per la decorazione con animali veri e fantastici, uomini ed esseri ibridi, a volte associati a elementi vegetali. Le lamine (quattro quadrate e le altre rettangolari) dovevano ornare l’abitacolo impiantato al centro di un pianale più lungo, bilanciato sull’asse delle ruote, ed erano applicate in origine su una lastra di cuoio inchiodata ai montanti in legno salenti dal telaio. La tecnica utilizzata è quella dello sbalzo, che prevedeva una lastra sottile di metallo – in questo caso una lega di rame – lavorata dal retro con martelli e scalpelli di varie forme e dimensioni in modo da ottenere delle bombature, che dal davanti appaiono in rilievo. Ovviamente il tutto veniva poi rifinito sul fronte a cesello, permettendo di definire i dettagli più naturalistici.
Le decorazioni sono riconducibili a più mani, nonostante l’omogeneità stilistica dell’insieme, e sono distribuite nei diversi supporti del calesse entro un centinaio di riquadri; nella maggior parte dei casi rappresentano un’unica figura, in altri casi si tratta di fregi con scene di caccia. I decoratori hanno attinto per lo più a un repertorio di matrice orientalizzante. Tra gli animali rappresentati figurano sia quelli domestici sia quelli selvaggi. Alcuni di questi animali sono presenti anche in una versione alata, che è frequente nel repertorio orientalizzante per quanto riguarda i cavalli e i leoni, mentre è molto più rara nel caso degli arieti e dei caproni.
Gli esseri ibridi sono per lo più dei felini alati, la cui testa di leone o di pantera è stata sostituita da un’altra. Un essere umano ibrido, che viene definito Tifone (mostruoso figlio di Gea o di Era), ci colpisce particolarmente per il volto barbuto, la capigliatura dalla quale spuntano dei serpenti, le ali e la parte finale del corpo serpentiforme.
Sulle lamine bronzee sono frequenti anche le raffigurazioni di sfingi in diverse varianti. In generale sono senza barba, ma ve ne sono rappresentate anche di barbute. In alcuni casi portano tra le zampe anteriori una specie di grembiule, secondo uno schema derivante direttamente da modelli orientali assiri e nord siriani.
Un oggetto non pertinente alla Tomba XI, ma in qualche modo legato alle vicende del carro, è un’anfora etrusco-corinzia attribuita al Pittore della Sfinge Barbuta, che nel decoro ricorda gli esseri mostruosi barbuti delle lamine bronzee, motivo frequente nel VII-VI secolo a.C. in ambito etrusco-italico. Pare che l’anfora fosse stata data come omaggio alla Ny Carlsberg Glyptotek per via dell’elevatissimo prezzo di acquisto delle lamine di bronzo e quindi è stata anch’essa restituita all’Italia, ma non se ne conosce l’esatta provenienza.
Secondo un rituale eroico, insolito in quest’area della Sabina, il principe di Eretum venne incinerato e i suoi resti raccolti in una cassetta lignea rivestita di lamine di bronzo decorato a sbalzo, il cui fregio zoomorfo con sfingi e forse motivi vegetali, purtroppo compromesso da una cattiva conservazione, appare di fattura simile a quella delle lamine del calesse e delle due bardature del capo dei cavalli (prometopidia) e dei pettorali dei cavalli (prosternidia).
Al corredo dello stesso principe appartenevano anche una spada in ferro, una punta di giavellotto e un elmo di bronzo, che, rifiutato dal museo danese, era stato venduto a Magonza (in Germania).
Nel corso della presentazione, la Soprintendente della SABAP per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti Lisa Lambusier ha dichiarato:
“La Soprintendenza che dirigo è sempre stata in prima linea per fare in modo che questo inestimabile tesoro venisse, oltre che adeguatamente protetto, opportunamente valorizzato. Questo per restituire al territorio e ai suoi residenti un patrimonio che per più di mezzo secolo gli è stato sottratto, provocando, con la sua illecita dispersione, una lacerazione culturale e identitaria. Oggi questa ferita viene risanata e finalmente il Carro può tornare ad essere, in quanto res pubblica, di tutti i cittadini, quale erede materiale delle proprie radici”.
Il Sindaco di Fara in Sabina, Roberta Cuneo, da parte sua, ha evidenziato la percezione del profondo legame che il territorio ha nei confronti di questa eredità del proprio passato:
“Il Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina è uno dei punti di riferimento della nostra Provincia per la conoscenza della civiltà dei Sabini, l’inaugurazione della nuova sala del Carro e i reperti della Tomba XI di Colle del Forno sono il coronamento di un lavoro intenso portato avanti con grande passione. Siamo particolarmente entusiasti di poter condividere con i nostri cittadini un altro tassello di storia del nostro territorio che si aggiunge alla ricca raccolta presente nelle sale di Palazzo Brancaleoni. Crediamo fortemente nella valorizzazione dei luoghi della Cultura e siamo certi che la presenza del Carro nel nostro Museo sarà una prestigiosa opportunità di rilancio per il nostro territorio, nonché la prosecuzione di un impegno volto al progressivo aggiornamento dell’offerta museale.”
Nica FIORI Roma 17 Marzo 2024
Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina,
Piazza Duomo, 3 Fara in Sabina (RI)
Tel. 0765 277321 museofarainsabina.it