di Giorgia TERRINONI
Lo scorso 8 giugno la Galleria Borghese ha aperto una mostra dedicata a Damien Hirst, curata da Anna Coliva e Mario Codognato e resa possibile attraverso il supporto di Prada.
Archaeology Now – questo il titolo dell’esposizione – comprende circa 80 opere, quasi tutte provenienti dalla vasta serie Treasures from the Wreck of the Unbelievable. Quest’ultima, per la cui realizzazione Hirst ha impiegato diversi anni, è stata esposta per la prima volta a Venezia nel 2017, in una mostra epocale che si estendeva lungo i 5.000 metri quadrati degli spazi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, entrambi sede della Pinault Collection.
Treasures from the Wreck of the Unbelievable è un progetto complesso, imperniato sulla creazione di un ambizioso quanto fantastico mito e giocato sull’ambivalenza e sul verosimile. La serie racconta, materializzandola, la storia del ritrovamento – avvenuto nel 2008 al largo della costa dell’Africa sudorientale – del relitto di una nave naufragata al principio del II secolo. All’interno della nave sono stati rinvenuti centinaia di tesori appartenuti al leggendario Cif Amotan II, un liberto di Antiochia. Dopo essersi affrancato, pare che Cif Amotan II abbia accumulato un’immensa fortuna dando vita a una sontuosa collezione di oggetti provenienti da tutto il mondo. Ad un certo punto della sua vita egli ha fatto caricare i tesori su una gigantesca nave chiamata Apistos (l’Incredibile) per trasportarli in un tempio situato in Oriente e dedicato al Dio Sole. Il naufragio dell’Incredibile ha consegnato il tesoro alla sfera del mito, un mito che evoca libertà e splendore, ma anche ambizione, avidità, e ybris.
“Full fathom five thy father lies; /Of his bones are coral made; /Those are pearls that were his eyes: /Nothing of him that doth fade, /But doth suffer a sea-change/ Into something rich and strange”.
Generatore di svariate immagini artistiche, il celebre canto di Ariel tratto da La Tempesta di Shakespeare materializza perfettamente ciò che Hirst ha immaginato possano essere diventati nel corso dei secoli i manufatti inabissati appartenuti a Cif Amotan II.
Già corallo sono le sue ossa. E sono perle, quelli che erano i suoi occhi (…) : il mare trasforma in qualcosa di ricco e strano ciò che è destinato a dissolversi.
Riportando i tesori a galla e quindi anche a visibilità, la mostra veneziana metteva in scena – attraverso un allestimento totale – un’illusione verosimile che lasciava lo spettatore disorientato e, in un primo momento, quasi incapace di percepire il confine che separa la realtà dalla finzione. Venezia – città dell’acqua e dell’illusione – ospitava i veri/finti tesori perduti, ricoperti di vere/finte concrezioni marine.
L’operazione di Hirst e Pinault è stata sconvolgente, tra le più importanti degli ultimi anni. Attraverso le opere esposte – tra loro anche incongruenti ma accomunate comunque dall’appartenenza alla stessa immaginaria collezione – l’artista ha fatto coesistere una molteplicità di dicotomie, quelle tra realtà e illusione, scienza e magia, ragione e fede, genio e follia, collezionismo e mania, eccetera. Treasures from the Wreck of the Unbelievable sembrava muovere una richiesta precisa allo spettatore, quella di credere al potere immaginifico della creazione artistica…
Ora, pur attingendo ad alcune opere della serie, la mostra romana mette in atto un’operazione un po’ diversa.
E per fortuna, altrimenti sarebbe stata solo una riduzione commerciale del gioco di Hirst e Pinault a Venezia. Archaeology Now traccia un percorso che coincide con un pensiero altro. Questo pensiero ha a che fare con la storia della Galleria Borghese, del suo fondatore – il Cardinale Scipione Borghese – e della sua collezione più che con i tesori dell’Incredibile.
Visitando l’esposizione, in prima battuta, si coglie il filo tematico attraverso il quale le opere si dispongono nelle sale. Il mito dell’arte e nell’arte: la Galleria è pur sempre lo scrigno che custodisce il gruppo berniniano di Apollo e Dafne.
Nell’opera il mito, la metamorfosi e la bellezza che dimora anche nel terribile la fanno da padrone. Le dita dei piedi di Dafne che si allungano filamentose e si fanno pianta sono belle anche perché materializzano l’orrore della fine di Dafne. La metamorfosi è spavento prima che meraviglia!
E così, ad esempio, due sculture di Cerbero provenienti dalla collezione inabissata trovano posto nella Sala degli Imperatori, accanto al Ratto di Proserpina. Anche Bernini rappresenta la bestia tricefala che, appostata accanto ad Ade, sorveglia con sguardo truce le malefatte del dio. Sui fianchi dei cani di Hirst però sono visibili, anche se danneggiate, tre iscrizioni: una in geroglifici egizi, una in copto formale e una in graffito copto. Tutte fanno riferimento allo status di culto dell’animale, indicato come il feroce custode dei fiumi negli Inferi.
Le iscrizioni riallacciano i manufatti alle altre opere egizie di Cif Amotan II, ma anche all’esotismo della stessa Sala Egizia della Galleria Borghese. Il dialogo fatto di rimandi tematici e formali tra le opere della collezione romana e quelle di Hirst prosegue con circolarità e coerenza attraverso l’intera mostra. Su di esso però s’innesta un aspetto forse più interessante: i tesori ideati dall’artista inglese sembrano completare e valorizzare la molteplicità d’invenzioni e tecniche già presenti all’interno della collezione.
Per realizzare la serie dei Treasures egli ha lavorato con materiali diversi – naturali, ma anche di sintesi e spesso preziosi – rendendo manifesta una visione formale che lo approssima ai grandi artisti del passato, anche a quelli presenti nella collezione Borghese. Realizzati in marmo, bronzo, oro, corallo, cristallo di rocca, malachite, pietre dure eccetera, i suoi lavori s’inseriscono perfettamente all’interno di quel capolavoro di multiformità che è la Galleria.
Ci sono due grandi urne in marmo di Carrara, ad esempio, che potrebbero essere tranquillamente appartenute al cardinale. Esse sono decorate con teste di unicorno. Ora, poco importa che, a ben guardare, sono un po’ troppo bianche per essere dei reperti archeologici o che l’iconografia del leggendario animale sappia assai di cultura popolare. Allo stesso modo, è assolutamente irrilevante che le statue bronzee sulle quali si sono adagiate spugne e coralli rappresentino indifferentemente Proteo o il clan di Mickey Mouse.
Il mito dell’arte è in ogni caso ‘rifatto’ da Hirst, attraverso l’immaginazione creativa e l’invenzione formale. E le sue opere – anche se sono dei falsi archeologici – sono grandi perché è grande la visione che le anima. Sono allo stesso tempo contemporanee e immortali.
Per rappresentare lo stupro di Proserpina Bernini inventa un’immagine e la mette in forma: la mano avida del dio affonda con violenza nelle morbide e giovani carni della coscia femminile. Con questa invenzione formale l’artista riporta il mito antico a vitalità e contribuisce a renderlo immortale … laddove poi, è la vita di Proserpina quella che Plutone ruba.
Quindi, in conclusione, a me pare che mentre i Treasures abbiano a che fare con il mito inteso come narrazione che fa scivolare continuamente il fantastico nel verosimile e viceversa, i finti reperti selezionati per Archaeology Now guardino piuttosto al mito dell’arte, il mito come sopravvivenza che si alimenta delle possibilità multiformi dell’invenzione artistica. Quest’ultima lo consegna, attraverso un’immagine che è anche punctum, all’immortalità.
Un unico neo: la discutibile modalità di installazione del grande gruppo scultoreo di Hydra e Kali.
L’opera è grande, pesante nella densità della materia e del colore, eppure carica di un movimento evocato dalle teste e dagli arti turbinanti. Apparentemente è installata in uno dei luoghi più belli dell’edificio, lo spazio esterno antistante il Giardino Segreto dell’Uccelliera. Eppure, è troppo addossata contro le pareti, il visitatore non può girarle intorno. Così la scultura perde il suo carattere di vortice e finisce per somigliare a qualcosa di goffo, più simile ai resti di un meteorite precipitato nel terreno che a un tesoro riscoperto.
Giorgia TERRINONI Roma 13 giugno 2021