Il Museo delle Navi romane a Nemi, le ricche vestigia delle navi romane d’età imperiale

di Nica FIORI (foto di Francesca Licordari)

Il lago di Nemi, più noto anticamente come lo Specchio di Diana, oltre ad accogliere il santuario di quell’importante divinità femminile, era uno dei luoghi frequentati dall’aristocrazia romana, che sulle sue sponde aveva edificato ricche dimore.

E non solo sulla terraferma, perché le navi di Caligola (imperatore dal 37 al 41 d.C.) funzionavano come veri e propri palazzi galleggianti. Per avere un’idea di queste frequentazioni antiche del lago è consigliabile una visita al Museo delle Navi romane, costruito sulla riva settentrionale tra il 1933 e il 1939 per ospitare due giganteschi natanti recuperati nelle acque del bacino tra il 1929 e il 1931. Si tratta del primo museo in Italia a essere realizzato in funzione del suo contenuto: due scafi che misuravano m 71,30×20 e m 73×24, purtroppo andati distrutti insieme a parte dell’edificio in un incendio nel 1944.

Museo delle Navi romane

Riaperto nel 1953, il museo venne nuovamente chiuso nel 1962 per essere poi nuovamente inaugurato nel 1988. Concepito dall’architetto Vittorio Morpurgo come due grandi hangar con un corpo centrale munito di due scale elicoidali che portano al ballatoio di affaccio sulle navi e alle superiori terrazze di copertura, l’edificio ospita attualmente nell’ala sinistra una sezione dedicata alle navi,

Museo, ala sinistra

con pochi reperti che si sono salvati dall’incendio e alcune ricostruzioni in scala, mentre l’ala destra espone materiali lapidei  e ceramici provenienti dalla zona,

Museo delle Navi romane, ala destra

compresi molti materiali di scavo della collezione Ruspoli. Il museo è tagliato trasversalmente da un antico basolato romano che Morpurgo ha voluto mantenere come traccia storica della strada che conduceva al santuario di Diana,

Antico basolato

una cesura anche temporale che, inserita in un perfetto parallelepipedo, volutamente non sembra dialogare con le logiche compositive delle soprastanti architetture di matrice razionalista.

Già da qualche anno il reperto che colpisce maggiormente i visitatori è una statua colossale di imperatore che, per quanto acefala, è da identificare presumibilmente con quella di Caligola. La scultura, realizzata nel I secolo d.C. in marmo bianco di Afrodisia, è stata recuperata nel gennaio 2011 a Fiumicino dal Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza di Roma. La statua, proveniente dal territorio nemorense, era stata dopo uno scavo clandestino divisa irresponsabilmente in sezioni per agevolarne il trasporto e l’occultamento all’interno di un container diretto in Svizzera.

Statua colossale di imperatore (Caligola)

Dopo il restauro presenta un’altezza di 227 cm (compresa la base di 15 cm), che doveva superare i 250 cm con la testa. La figura maschile, seduta, indossa calzari aperti e un mantello che ricopre entrambe le gambe per lasciare nudo il busto e ricadere sulla spalla sinistra con un ricco panneggio. I calzari possono inserirsi nel tipo delle caligae speculatoriae, o caligae leggere, calzate dagli esploratori, che, secondo Svetonio, Caligola amava indossare.

Caligola, figlio di Germanico e nipote di Claudio (l’imperatore suo successore, cui è attualmente dedicata una mostra all’Ara Pacis), è un sovrano che, descritto dalle fonti antiche come pazzo, provocatorio e crudele, ha subito dopo la morte la damnatio memoriae e non è stato neppure amato dalla storiografia moderna, contrariamente ad altri imperatori dannati come Nerone, che sono stati in parte rivalutati. Per via di questa damnatio non è da escludere che, se si trovasse la testa della statua, potrebbe non avere più le fattezze di Caligola, in quanto probabilmente rilavorata per raffigurare un altro imperatore, come si usava fare in questi casi. Oltre al bel corpo maschile, nella posa di Giove, colpisce la nostra attenzione il trono decorato con una Vittoria alata di profilo, una testa di Gorgone e una figura femminile emergente da onde. La statua e il trono dovevano essere policromi, forse anche con dorature. La minore accuratezza di esecuzione sul retro del trono si spiega con una collocazione della statua contro una parete o all’interno di una nicchia in un ninfeo.

In seguito al suo recupero, un’indagine ha permesso di individuare il luogo del saccheggio, un’area boschiva sulle alture di Nemi, che ha restituito una villa di età giulio-claudia ed è proprio da questo contesto che provengono alcuni dei materiali esposti, rinvenuti nel corso dello scavo scientifico condotto dalla Soprintendenza.

Torso di Apollo
Busto di Attis

Altri notevoli reperti recuperati dai finanzieri in altre occasioni, e conservati nello stesso museo, sono un torso di Apollo in marmo pario proveniente da Genzano e un sarcofago con al centro Ermes che esce dalla porta di Dite

Sarcofago con Ermes e defunti

 

Statua di Minerva

e ai lati il defunto e la defunta. Tra gli oggetti esposti, ci colpiscono un’erma bifronte con due facce di diverso aspetto (una di uomo barbuto, l’altra di giovane), un busto di Attis, una scultura di Minerva e un’altra di Diana, numerosi ex voto, corredi funerari.

Alcune lastre marmoree provengono dal teatro del santuario di Diana. Dovevano far parte di un gruppo di dodici, raffiguranti tutte armi a rilievo bassissimo. Alcune immagini suggestive e i pannelli didattici evidenziano la sacralità di un luogo come questo, che suscita con la sua bellezza un’attrazione quasi magnetica. Pensiamo in particolare all’atmosfera incantata dell’antico bosco sacro (in latino nemus, da cui deriva il toponimo del lago) di lecci, nel territorio dell’antica Aricia, che era deputato in realtà a un feroce rituale, di cui parla Ovidio nei Fasti e Virgilio nel VI canto dell’Eneide.

Statua di Diana

La dea della caccia, e in senso più ampio della natura e della fertilità, imponeva al suo sacerdote-custode (detto rex nemorensis) una ben crudele regola: un altro uomo poteva prendere il suo posto se, dopo essersi impossessato di un ramo sacro, lo uccideva. Si trattava quasi sempre di uno schiavo fuggiasco, che poteva accedere al suo ruolo di “re del bosco” solo dopo questa prova di forza, e rimaneva in carica fino a che non veniva a sua volta ucciso da un altro. Quanto al ramo, secondo James Frazer, autore del libro “Il ramo d’oro ” (prima ed. 1890), doveva trattarsi di una fronda di vischio, una pianta parassita considerata sacra quando è unita alla quercia.

Un bel filmato consente ai visitatori di addentrarsi nei misteri del luogo e in particolare di capire come erano costruite le navi di Caligola e la grandiosa operazione di recupero delle stesse.

Museo delle Navi romane, colonne antiche

Alcune leggende medievali parlavano di relitti di navi gigantesche depositate nei fondali del lago e alcuni ritrovamenti di oggetti antichi, finiti nelle reti dei pescatori, facevano credere che non si trattasse solo di leggende, tanto che già in epoca rinascimentale si tentò di far riemergere i relitti usando uncini e scafandri primitivi, fino a giungere ai primi palombari dell’Ottocento, ma inutilmente.  Bisognò arrivare al 1929-1931 per portare a buon fine l’operazione di recupero con un’impresa epocale. Si abbassò il livello dell’acqua di circa 20 metri in modo da far riaffiorare le navi, sfruttando un’antica condotta sotterranea che arrivava fino al mare, il cosiddetto emissario del lago di Nemi, che serviva per regolare il livello dell’acqua: un vero gioiello di ingegneria idraulica antica che aveva affascinato tra gli altri Giovanni Battista Piranesi, che lo descrisse accuratamente. Dopo aver scavato e ripristinato l’emissario, venne svuotato in parte il lago con 4 grandi idrovore e furono recuperate le due navi.

La prima (m 73 per 24) era la nave-tempio, dotata di un lungo corridoio per i rematori e di un piazzale sul quale si affacciava un tempio con colonne corinzie, alte 4 metri, e tegole di rame dorato. La seconda era la nave-palazzo, che non aveva posto per i rematori, e quindi doveva essere trainata. In questa dimora sontuosa poteva alloggiare l’imperatore con il suo seguito. Possiamo farci un’idea della ricchezza del pavimento in opus sectile (con preziosi marmi colorati quali il porfido egizio e il serpentino), del quale rimangono pochi frammenti e una porzione quadrangolare più cospicua, recuperata dai Carabinieri del TPC in America e attualmente in mostra al Quirinale.

Anche la nave con l’appartamento dell’imperatore doveva avere il tetto dorato, fregi, sculture, ringhiere di bronzo. Svetonio racconta che l’imperatore fece costruire navi

con la poppa ornata di gemme, vele dai colori cangianti, terme e porticati e triclini di notevole ampiezza e con una gran varietà di viti e di alberi da frutto; su (navi come queste), standosene sdraiato, costeggiava i lidi della Campania in mezzo a danze e a concerti in pieno giorno”.

Questa descrizione, oltre ai pochi reperti che si sono salvati, ci fa intuire quanto dovessero essere sfarzose anche le navi di Nemi. Del resto, sempre secondo Svetonio, egli sperperò in meno di un anno il famoso tesoro di Tiberio, costruendo con una celerità incredibile ville e palazzi e “non aveva altro desiderio che di fare quello che gli veniva dichiarato irrealizzabile”.

In realtà queste navi non erano una singolare stravaganza dell’imperatore e si ispiravano a modelli già visti, come i natanti di tradizione egizia, detti thalamegoi, cioè navi talamo, usati da Cleopatra e Giulio Cesare sul Nilo. Sappiamo che anche Nerone amava dare feste su strutture galleggianti nello Stagno di Agrippa in Campo Marzio, mentre Domiziano aveva una nave-palazzo sul lago di Albano.

La scelta di Caligola di costruire queste due navi gigantesche sul piccolo lago di Nemi era dovuta al fatto che qui possedeva una sua villa, forse appartenuta in precedenza a Cesare, e pertanto le navi costituivano delle dépendance, dalle quali si poteva intravedere e raggiungere il vicino santuario di Diana.

Decoro bronzeo

Purtroppo la sezione dedicata alle navi, pur interessante dal punto di vista didattico, conserva pochi resti. Tra questi ricordiamo una mano apotropaica in bronzo proveniente da una nave e due fistulae di piombo, delle quali una reca il nome di Caligola. Quest’ultima, ritrovata nel lago, doveva far parte del condotto che dal ponte d’imbarco doveva giungere alla nave per rifornirla di acqua.

Il 31 maggio del 1944 le navi andarono distrutte in un incendio, provocato forse dai tedeschi in ritirata, forse da alcuni locali interessati a recuperare il piombo di cui abbondavano (le chiglie ne erano completamente rivestite). Pochi mesi prima dell’incendio, alcuni raffinati pezzi in bronzo erano stati messi in sicurezza a Roma, e sono ora conservati a Palazzo Massimo. Secondo un progetto in corso, nel museo di Nemi si tenta di ricostruire per lo meno una delle due navi. Una chiglia è stata ricostruita a grandezza naturale (più di 70 m).

Ricostruzione del tetto di una nave

Possiamo anche renderci conto di come era fatto il tetto e della grandezza delle ancore. La prua di una delle navi, a forma di gigantesca arpa, è stata pure ricostruita e conserva il rivestimento in piombo.

Prua di una nave

La poppa, invece, è stata rifatta in legno moderno per mostrare il funzionamento dei timoni (nel caso della nave-tempio vi erano quattro timoni: due a poppa e due a prua), che si muovevano con meccanismi complessi. Altrettanto complicato e interessante dal punto di vista ingegneristico doveva essere l’intreccio di travi sotto il ponte che riusciva a mantenere in equilibrio le pesantissime strutture soprastanti (si calcola che il palazzo pesasse almeno 700 tonnellate).

Nica FIORI   Nemi   Giugno 2019