di Francesco MONTUORI
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- M. Martini e F. Montuori
- Giorgio de Chirico; Giorgio Morandi; Carlo Carrà
Il clima teso delle avanguardie esplose in Europa alla fine del primo decennio del secolo; nuovi fermenti culturali fra il 1914 e il 1915 sono già nell’aria, a Parigi, come a Milano, o a Firenze. Se le realizzazioni pittoriche divengono come gli esiti più nuovi del processo creativo, le idee che si diranno in seguito metafisiche non vengono semplicemente risolte nella rappresentazione pittorica ma influenzano tutta l’attività di un gruppo di uomini operanti nel campo della letteratura come in quello della poesia e della saggistica.
Dichiarerà Massimo Bontempelli: fare dell’arte un “miracolo”, vedere anche la “stramberia” come realtà esasperata; insomma “ritrovare il senso del mistero e dell’equilibrio fra cielo e terra”. Il gusto per l’astrazione metafisica si nutre di motivi futuristi rielaborati, dell’avanguardia francese, del decadentismo e, in qualche caso, persino di dannunzianesimo. Quella che sarà una precisa tendenza della letteratura fra le due guerre mondiali prende origine da questi presupposti, comuni con la pittura ma, più in generale, con la cultura di un epoca.
E’ un clima comune quello che si stabilisce fra letterati e pittori dal 1916 al 1922, quando di nuove idee si fanno portavoce riviste attente ai fatti letterari come a quelli pittorici, e fra questi Valori plastici che ebbe il merito di diffondere all’estero, in particolare in Francia e Germania, i risultati della nuova pittura italiana.
La metafisica sentiva il mondo delle cose così come era possibile sentirlo nello spirito moderno, nel mutato rapporto con il mondo. La pittura metafisica fu dunque una corrente pittorica del XX secolo che caratterizzò fortemente, come anche il Futurismo, la cultura italiana ed europea fra le due grandi guerre mondiali. Futurismo e Metafisica segneranno il pensiero artistico ed estetico della cultura italiana degli inizi del novecento: il Futurismo fu caratterizzato dalla sua dinamicità; la Metafisica, all’opposto, intese rappresentare gli oggetti con chiarezza e staticità, andando oltre il loro aspetto realistico, al di là dell’esperienza sensoriale.
Giorgio de Chirico, durante il suo soggiorno a Parigi tra il 1911 e il 1915 usò per primo il termine metafisica; anche suo fratello Andrea de Chirico, da sempre soprannominato Alberto Savinio, ebbe fin dall’inizio della sua attività artistica un ruolo molto importante nella creazione della poetica metafisica.
Rispetto all’esuberante vitalità del primo Futurismo, la pittura metafisica fu dominata dal senso dell’isolamento e dalla solitudine. Fu la tela dechirichiana “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” del 1910, ispirato al monumento fiorentino di Dante che, avvolto da un mantello, inclina verso terra la testa pensosa coronata di alloro, ad apparire a de Chirico come un enigma inesplicabile. Ed è per questo che De Chirico chiamò enigma quell’opera che venne inconsapevolmente dipinta dando inizio a molteplici inspiegabili dipinti.
A Parigi i fratelli de Chirico entrano in contatto con altri esponenti delle avanguardie artistiche che, fra gli anni 1912 e 1914, contribuirono alla grande mutazione del clima intellettuale che prese corpo durante la prima guerra mondiale. Primo fra tutti fu Guillome Apollinaire che ammise:
“L’arte di questo giovane pittore non ha alcun rapporto con quella di altri pittori: stazioni ornate da un orologio, torri, statue, grandi piazze deserte, all’orizzonte i treni”
Nel 1914 giungono a Parigi Carlo Carrà, Ardengo Soffici, Giovanni Papini; nel giugno del 1915 Alberto Savinio e Giorgio de Chirico, arruolati nell’esercito italiano, arrivano a Ferrara.
Nello stesso anno avviene l’incontro con un giovane pittore, l’ intellettuale Filippo de Pisis; nel marzo del 1917 conoscono Carlo Carrà che aveva percorso le strade del divisionismo, del futurismo, ed ora si accostava alla pittura primitiva. Sia de Chirico che Carrà vengono inviati in un ospedale della campagna ferrarese; Carrà, esonerato dal servizio militare, torna a Milano portando con sé alcune tele di de Chirico. Nel dicembre del 1917 Carrà inaugurava una grande mostra personale in cui era evidente l’influenza dechirichiana.
Così la prima mostra della pittura metafisica avvenne senza la partecipazione del suo maggior esponente. Solo due anni dopo, nel febbraio del 1919, presso la galleria di Anton Giulio Bragaglia, Giorgio de Chirico inaugurò la sua prima mostra italiana.
Un’ulteriore svolta del linguaggio artistico di Carrà avvenne intorno agli anni Venti con l’adesione alla rivista Valori Plastici di Mario Broglio a cui l’artista collaborò per lungo tempo.
Da questo periodo il pittore fu sempre più incline al recupero del classicismo e della tradizione. La ricerca divenne più rigorosa e razionale, come già anticipato dall’opera L’amante dell’ingegnere nei due elementi del compasso e dalla squadra. L’opera più rappresentativa di questo periodo di “ritorno all’ordine” fu La casa rossa del 1926, in cui gli elementi raffigurati si presentano prima di tutto come volumi. Il dipinto è dominato da una grande casa rossa al centro, da cui prende il titolo l’opera, priva di dettagli ma possente nella sua struttura; a sinistra un altro edificio dalle tonalità grigio-verde precede la casa centrale. In primo piano invece, poggiati su un davanzale di una casa, si trovano un vaso, un foglio e un piccolo cubo. All’orizzonte è possibile scorgere la vegetazione di un paesaggio che però è subito bloccato dai due grandi cubi che dominano la tela.
Carrà riscoprì inoltre la meraviglia della natura soggiornando nel periodo estivo a Forte dei Marmi, luogo in cui ebbe modo di contemplare i paesaggi e portare avanti la sua ricerca artistica. La carriera artistica di Carrà attraversò quasi tutte le vicende dell’arte italiana del primo Novecento, e sebbene non sia stato caposcuola di nessun movimento la sua forza artistica e rappresentativa fu straordinaria.
La pittura metafisica crebbe in Italia, e a Ferrara in particolare, a partire dal 1916. Come nel sogno i paesaggi appaiono realistici ma confusamente assemblati e il termine metafisica servì a raffigurare il sogno, l’inconscio, il surreale. Nella pittura metafisica la prospettiva è costruita secondo molteplici punti di fuga; la figure umane sono assenti ma compaiono statue, ombre, personaggi mitologici; i colori sono piatti ed uniformi; le ombre sono lunghe, le piazze misteriose.
Goffredo Bellonci, all’esposizione romana di Carrà e de Chirico scriverà:
“Ciascun oggetto ha i suoi contorni nettamente separati, il suo volume fermo e saldo. Lo spazio è enorme, chiuso dalle pareti nude e dal pavimento a quadri bianchi e neri; le fantastiche torri di una piazza, dal cielo cupo ed eguale, segnato all’orizzonte da una livida luce. Nel mezzo campeggiano strane figure e stranissimi fantocci che nella loro solennità monumentale riempiono gli spazi vuoti.”
In alcuni brani di un articolo che Roberto Longhi pubblicherà il 22 febbraio 1919 sulla mostra di De Chirico alla galleria Bragaglia egli affermerà “… Ecco la pittura di Giorgio de Chirico rinvenire inaudite divinità nelle sacre vetrine degli ortopedici, ed eternare l’uomo nella lugubre fissazione del manichino d’accademia o di sartoria….” E aggiunge: “nella cloaca massima degli snobismi della Parigi “alessandrina” l’homo orthopedicus recita con voce di carrucola una sua parte impossibile alle statue diseredate della Grecia antica … Se già fosse chiaro che tale atroce e strambo illustrazionismo non può che smemorarsi della pittura, verrebbe la voglia di chiedere come dipinga di grazia Giorgio de Chirico. Diremmo in tal caso che non ci piace questa che è pittura povera … Come, non sapete che qui da noi si ripudia gloriosamente l’impressionismo senza aver creato un solo bel quadro impressionista?”.
Longhi appare chiaramente infastidito dalla confusione di temi che riscontra nei quadri di de Chirico; l’odio di Longhi da allora, scrive de Chirico, “è andato sempre aumentando”.
Longhi per far rabbia a de Chirico ha sempre detto bene di Carrà. Un’altra volta, durante un furioso litigio, Longhi fu preso da una vera e propria crisi isterica. A questa scena assistette Bartoli che era andato da Longhi un pomeriggio perché gli stava facendo il ritratto e portò con sé de Chirico. Mentre Longhi posava per il ritratto, de Chirico si mise a sfogliare certe fotografie di quadri antichi; Longhi gli indicò una delle fotografie e gli chiese se gli piaceva quel El Greco. Si scatenò una lite: “ma che ne vuol sapere lei, non vede che non è un El Greco?” E li cacciò via tutti e due in malo modo.
Racconta Roberto Bartoli che rifecero tutta la strada a piedi e arrivarono stanchi morti a via degli Avignonesi dove c’era il Teatro degli Indipendenti dei fratelli Bragaglia, un’ Accademia di danze sceniche, la scuola di nudo, uno studio fotografico. Era l’unica galleria esistente a Roma in quegli anni. Dal ’18 al ’30 i Bragaglia avevano allestito mostre importanti tra cui gli espressionisti tedeschi del ’21 e i pittori dadaisti con Tristan Tzara.
Infine Morandi. Egli giunge alla metafisica più tardi di de Chirico e di Carrà; e molto probabilmente grazie ad un’ulteriore verifica dalle meditazioni suggeritegli dalle opere di Carrà, specialmente dalle nature morte del ’16 e del ’17. Per Morandi, riservato e paziente, la via più sicura di cercare se stesso. E’ per Morandi l’occasione per affrontare lo studio sui pittori del Rinascimento e sui Primitivi, Giotto, Piero della Francesca, Masaccio, stimoli e ragioni di un suo “esilio verso l’antico”.
Nel 1918 succede qualcosa che ne provoca un deciso scatto verso le rive della ricerca metafisica.
Quel che più lo sollecita è certo l’opera di Carrà; Morandi arriva così a scoprire il clima metafisico della composizione che il pittore accetta e fa suo: il silenzioso colloquio, il sentimento pacato della storia, non aulico e non stentoreo, ma vivo di solitudine. Una umile adesione al mistero della realtà e della vita.
Francesco MONTUORI Roma 22 Maggio 2022