di Lev M. LOEWENTHAL
IL POLITTICO DELLA MISERICORDIA
ABATON
Il coro e il refettorio, l’orticello e il pozzo, la chiesa e il chiostro di questo vetusto eremo hanno visto, piagati i corpi nelle rozze vesti, le anime accese dal sacro amor per Cristo, fatti lividi e scarni dal digiuno, nell’estremo strazio delle carni, fraticelli di questua di San Bruno, tra cui quell’Isidoro, ansioso di consolo.
Solo, nel silenzio, un uomo.
Astioso, d’incarnato bruno, stretto nel saio nero, costretto a vivere lontano dal mondo in cui la legge divina gli vieta di tornare, roso da un’incessante inquietudine, quest’individuo pensieroso e sprezzante, altero e triste, celebre e oscuro, ricorda il tempo in cui sulla terra si rappresentò un dramma segreto, stabilito e ordito da Dio.
Un’eco di salmi tedia la cheta armonia d’una lagrima rubina che gocciola in una scodella scura./ E trascorsa la nona e l’ora del vespro s’avvicina./ Il temporale ha portato una mite frescura su quella terra che il sole calcina./ I granchi vanno tracciando sulla rena la loro indecifrabile scrittura./ Un salso aroma, un lene respirar d’aura marina.
Scende la sera sulla città di gesso dalle cupole d’oro, dai ponti sospesi, dai giardini di cedri e di palmizi. Scende la sera sulla vigna e sul monte, ove spesso insieme s’erano inerpicati con agnellini e capri.
Nella mano destra, martoriata dalle cicatrici, l’uomo stringe un coltello, nell’altra un vasello d’unguento e nella tasca della tunica ha il gradale, che gli ha dato il suo padrone, il crudele quinto procuratore, dicendogli:
«Ho una scodella che un giudeo aveva presa nella casa di Simone, te ne faccio dono in ricordo del giovane cui appartenne, appena giustiziato, che ti chiamò fratello».
Piegato su una spalla, l’uomo porta un panno bianco./ La città dorata è immersa nel mistero della sera, una sera chiarissima, spruzzata di celeste./ Sul monte, stilizzate nella volta lucente, come vele nel mare, le tre croci./ I soldati si sono allontanati col bottino./ Nessuno lo nota: di lui la gente sa poco, tranne che dice di chiamarsi Giuseppe e di venire da Arimatea.
L’uomo posa la sua coppa sotto la seconda croce. Stilla a stilla, il recipiente s’empie di quell’umore scarlatto, che cola dalle piaghe ancora aperte nel costato, nei piedi e nelle mani del giovane appena giustiziato, che ha trascorso quattro anni in sua compagnia, pascolando armenti.
Col coltello schioda il crocifisso, lo prende tra le braccia, lo depone al suolo./ Spalma d’unguento il corpo inerte. Lo avvolge nel panno./ Sopraggiungono, affannate, tre donne, due vestite di nero e una, la più bella, bionda, dal manto scarlatto, accompagnata da un uomo imberbe e da due più anziani./ Gli uomini sollevano i lembi del panno e trascinano il corpo del crocifisso verso il sepolcro./ Una delle donne vestite di nero si getta a terra e leva le braccia al cielo, dinnanzi al proprio figlio morto./ Sullo sfondo, una terra murata e, più oltre, un paese collinoso.
Le tinte delle vesti di quelle figure, sobrie nei gesti e lente nell’azione, sono molto accese: oro, celeste, viola.
Il colore dei drappi e del fondale lo scelsero i capi della Fraternita della Misericordia che, nel giugno del 1445, commissionarono al pittore Piero da Borgo a San Sepolcro un polittico, di cui stabilirono essi stessi la foggia.
Nella predella, Piero dipinse questa scena: il Cristo deposto.
Un uomo dal copricapo chiaro, di profilo, indica ad altri due come deporre il corpo appena schiodato dalla croce. Quell’uomo è, forse, Giuseppe d’Arimatea.
In piedi v’è San Giovanni, dietro di lui un cipresso. A terra, sulla sinistra, Maria che piange il proprio figlio e, a destra, Maddalena.
Parrebbe che l’intera composizione, stando all’ultimo pagamento dei committenti al pittore, fosse terminata poco prima del 1462: Piero impiegò diciassette anni per portare a termine un’opera che avrebbe dovuto esser consegnata entro tre.
Al centro del polittico appare la grande figura che i critici chiamano “Madonna della Misericordia”.
Ai lati della tavola centrale vi sono il Battista e San Giovanni Evangelista, San Sebastiano e San Bernardino. Nello scomparto superiore una Crocifissione e, nella predella, alcune scene della vita di Cristo.
La Madonna grandeggia nell’atto di proteggere sotto il proprio manto i peccatori, quattro uomini, tra cui uno dal volto nascosto da un cappuccio, e quattro donne. Ogni figura misura l’esatta cubatura spaziale compresa tra il piano di fondo e quello frontale. Proprio a causa delle perfette proporzioni dell’intera composizione, lo squilibrio in altezza della raffigurazione centrale appare ingiustificato: la tavola ha un’estensione eccessiva verso l’alto.
Uno spazio vuoto sovrasta la Vergine protettrice, uno spazio che avrebbe dovuto accogliere una figura che Piero non dipinse.
LE PERE DI PIERO
Quelle colline sullo sfondo della scena del Cristo deposto e la terra murata e il cipresso, più che Gerusalemme, ricordano il Borgo e Anghiari. La terra dove Piero crebbe, dominata dalle comunità monastiche dei Camaldolesi, dei Francescani, dei Serviti, degli Agostiniani.
E il frate incappucciato apparve a Piero proprio sulla sera d’un dì d’aprile del 1462, quando egli se ne stava a zappettare nell’orto e non pensava ad alcuna pittura. Nel cielo ancora chiaro perdurava il limio delle cicale, l’azzurro e il rosso vinato delle piume d’un fringuello si andarono a confondere col ceruleo tremulo dell’aria mite. Una folata tiepida mosse il bucato steso ad asciugare tra due assi di fronte al sagrato e il gatto, che se ne stava in agguato su un muricciolo, fu improvvisamente assalito dall’odore pungente del sambuco.
Il soffio d’aria portò il primo tocco di battaglio che annunciava il vespro e, col rintocco, Piero sentì una voce che da un albero lo chiamava per nome, ma tra il fogliame non scorse nessuno.
Era un lieve balbettio: Pi-e-ro, Pi-e-ro.
«O bella, al nome di Dio, parla, il pero!».
Piero prese la scala a pioli sotto il ciliegio e l’appoggiò al tronco del perastro. Iniziò a salire con cautela. Vide tra i rami un uccelletto dal capino spelacchiato, che becchettava con colpi regolari il legno, quasi che dovesse piantare un chiodo nella carne di Nostro Signore.
Si sollevò ancora su un altro piolo, Piero, con gran timore, quando, improvvisamente, una pioggia di pere gli cadde sulla testa, tramortendolo.
Rimase in bilico sulla scala, con una gamba nel vuoto, pur poi perse l’equilibrio e finì a terra.
«Cosa m’è accaduto per opera di streghe, per forza d’incanti e di malie, per arte di negromanzia, per illusion diabolica? Tutte le frutta in capo!».
Un’ombra scura volò lievemente giù dal perastro, con la leggerezza d’una foglia che aleggia nell’aria prima di posarsi al suolo.
Indolenzito, Piero si alzò e vide accanto a sé un frate dalla testa incappucciata. Non capì a che ordine appartenesse, né come avesse fatto a saltare giù dall’albero ricadendo in piedi; né tantomeno perché mai si fosse divertito a tempestarlo di pere. Sotto il cappuccio il frate certamente rideva, ma con ritegno.
«Or bene, se’ tu colui che mi vuole insegnare a morire anzi tempo, acciò ch’io risusciti tosto in quella vita dove mai non si muore. Perché, frate, m’hai tu tirato le pere?» chiese Piero. E il frate incappucciato gli rispose: «Tienti fortunato che sian pere e non frecce del Creatore».
Bisogna sapere che quando questo fatto avvenne, Piero aveva quasi terminato il suo polittico, gli mancava solo la tavola centrale, ma già aveva preso tutte le misure. Voleva, come si sa, dipingere la Madonna che sotto il suo manto ripara i peccatori dalle frecce che il Signore, irato, scaglia loro contro, a simboleggiare i flagelli, le pestilenze, e gli altri accidenti e sofferenze che il Divino infligge ai figlioli suoi, secondo un iconografia umbra di quel tempo.
Spazi, cubi, aree al quadrato, tutto era stato ben misurato.
Piero, scolorendo nel viso come un panno lavato: «Perché m’hai tu tirato le pere?».
«Le pere tu te le sei tirate in sul capo».
«Ohimè, aver a star a discrezion de li preti tutti! Per lo sangue de li povari martiri, no! Chiamerebbonmi retico e condannerebbomi al foco … ma le pere tu me l’hai tirate, frate!».
«Ben sai – soggiunse l’incappucciato – che tu hai gran torto: dimmi, Piero, perché se’ salito zitto e cheto con tanta cautela in sull’albero?».
«Non sapevo chi fusse suso».
«Avevi paura?».
«Sì, n’avea».
«Allora vedi … Tu eri spaventato tanto che qualcuno ti lanciasse le frutta in sul capo, che tal cosa è realmente accaduta».
«Che mi dì tu, ribaldo, giuntatore? Le pere tu me l’hai tirate».
«Sbagli, avevi gran timore che una pioggia di pere ti colpisse e ti sei messo col capo in attesa».
«lo sapeva che da suso qualcuno m’avrebbe gabbato e tirato le frutta del perastro e m’avrebbe lapidato e concio peggio che non fu Santo Stefano».
«No, tu non sapevi con certezza, tu credevi».
«M’hai chiamato, sapevo che stavi in fra li rami».
«Perché, dunque, se n’eri tanto convinto, per tua fé, se’ tu venuto a controllare?».
«S’io non fusse venuto, le pere non me l’avresti tirate?».
«Certo che no, se tu non fussi venuto, io non sarei nemmanco esistito», fece il frate agitando le mani piagate.
«Altrettanto accade con Nostro Signore», continuò.
«Cosa vorresti con ciò dire? Nostro Signore non tira pere!», lo rimbrottò Piero.
«No, non tira pere, fa ei peggio … ».
«A quale ordine appartieni tu che parli con tanta irriverenza di Nostro Signore?».
«Sono un itinerante».
«E questo è lo modo tuo di predicare? Ché ti nascondi sotto il cappuccio, hai qualche cattivo malaccio che si appiccica?».
«Non mi nascondo, sono sì sfigurato e brutto che evito al prossimo mio di rimaner schifato. Nell’infanzia sono caduto nel foco e son rima so arsiccio … ».
«Cosa mi avresti tu con ciò voluto insegnare?».
«lo? Nulla».
«M’hai tu detto che succede la medesima cosa col Creatore … ».
«Poniamo che io sia il Signore. Ti chiamo: Pi-e-ro, oh, oh, Pi-e-ro … tu non hai gran bramosia di venire a me e d’esser punito per quelle ‘nfamità che tu hai commesso. Ora, sai tu cosa accadrebbe se tutti li uomini decidessero di non più mettersi sotto alle saette del Signore? Accadrebbe che Domineddio e saette e pestilenze e carestie e guerre più non sarebbono».
«Più non sarebbon? E cosa proteggerebbe li uomini da lor medesimi?».
«La ragione difenderebbe tutti sotto a lo manto suo, uomini e donne … ».
«La ragione? E tal cosa mai accadrà, fratello?».
Il frate non rispose e, quasi volando, in pianelle e in mantello, s’allontanò dall’orto con una bella insalata e un ciuffo di radicchi in mano. Piero rimase a guardarlo mentre velocemente, con passo strambo da lepre, diventava una macchiolina nera, oltre i cipressi. Le colline di Anghiari erano una striscia di color castagno, con un tocco di ocra sopra, una lunga striscia lontana.
No, certo, non è facile riconoscere il Borgo e Anghiari da questa distanza. Ma quel colore di terra di Toscana, quei punti olivastri uno sull’altro, come cipressi, e poi l’orticello in primo piano, e quella screziatura a sinistra che pare un uomo, e quella venatura scura, sulla destra, che sembra un frate incappucciato …
Che siano Piero della Francesca e Fra Pastore non è certo, però questa chiazza verdognola, qui, non sembra proprio un pero?
Lev M. LOEWENTHAL Lugano 7 aprile 2021