di Marco FIORAMANTI
Emanuel Carnevali
L’ULTIMO MALEDETTO. Il primo Dio – Racconti – Lettere
Edizioni readerforblind 2023
“Era diritto, magro, con una bella testa di giovane, dall’intelligenza penetrante – ovviamente un’anima perduta”
(William Carlos Williams, in Autobiografia, 1967)
Parliamo di un poeta ignorato, al punto che nessuno ha mai saputo che fosse esistito.
È stato invece una figura di alto prestigio umano e letterario Emanuel “Manolo” Carnevali (Firenze, 4 dicembre 1897 – Bologna, 11 gennaio 1942), uscito alle cronache ufficiali solo alla fine degli anni Settanta del secolo scorso quando Adelphi pubblicò “Il primo dio”.
Viene iscritto tra i “poeti maledetti”, quelli cioè con indole provocatoria, che non si allineano alle regole della società in cui vivono e che, quasi sempre, nel corso dell’esistenza rintanano il loro stile di vita nell’alcol o nelle sostanze più diverse. E, sempre a comodo dei critici, viene facilmente accostato sia a Dino Campana – entrambi con disagi familiari ed economici, entrambi migranti oltreoceano (per New York il sedicenne Carnevali, l’altro per l’Argentina) e tutti e due imbarcati a Genova (ma era il porto più vicino) – che a Rimbaud per le sue fughe giovanili a Parigi. A mio avviso si tratta solo di accostamenti superficiali.
Nel mio viaggio in Tibet il mio Maestro di tai chi, alla domanda se la somiglianza dei caratteri somatici asiatici tra i tibetani e gli autoctoni sudamericani delle Ande fosse legata a trasmigrazioni ancestrali, lui rispose semplicemente che condizioni simili (nel loro caso: il clima e l’altitudine) portavano a conseguenze simili. È naturale quindi che situazioni estreme portino a ripercussioni analoghe, ma la qualità e il valore di un artista prescinde dalla sua condizione bohème.
Sta di fatto che il giovane Emanuel “Manolo” Carnevali, quando sbarca a Ellis Island sa già di essere un poeta, anche quando scrive in prosa. Lo ha sentito fin dalle lezioni del suo professore di lettere a Bologna, Adolfo Albertazzi, allievo del Carducci. Apprende i primi rudimenti di inglese attraverso le pubblicità, le insegne stradali, il suo scrivere poetico mescola la madrelingua alla nuova grammatica fatta di neologismi. Per sopravvivere fa il lavapiatti, l’inserviente in drogheria, lo spalatore di neve, l’addetto a lavori di pulizia. Vive in condizioni di estrema indigenza, ma scrive senza sosta.
Il suo primo verso in inglese è Love is a mine hidden in the mountain of our old age (L’amore è una mina nascosta nella montagna della nostra vecchiaia, ndr), passano quattro anni prima di vincere il premio per la migliore poesia e comincia essere riconosciuto, lavora per delle riviste, diventa il traduttore di Benedetto Croce.
Entra quindi in contatto con gli intellettuali dell’epoca, da William Carlos Williams a Ezra Pound, da Edgar Lee Masters a Carl Sandburg a Sherwood Anderson. Già protofuturista nel linguaggio Spegni il fuoco che c’è in me o / darò fuoco al mondo, ha uno scambio epistolare con Palazzeschi.
John Fante ha letto la sua autobiografia e probabilmente il suo “Bandini” è fortemente vivo nella figura di “Manolo” Carnevali. Riconoscibile quando scrive I giorni in cui non ero preso dal lavoro, ero preso dalla fame. Oppure nel quindicesimo capitolo de “Il primo dio”, suo romanzo autobiografico:
Trascinavo questo mio povero corpo da un ristorante all’altro, non come cliente, ma come servitore: lo portavo in miseria da un hotel all’altro. A volte erano le poesie che mi consumavano i pensieri, muovendosi come un esercito di formiche nel mio cervello oppure divorandomi come tanti vermi.
Finché lo coglie la malattia che probabilmente ha ucciso anche sua madre (encefalite letargica) ed è costretto a tornare in Italia per curarsi. Anderson e Pound gli pagano il biglietto di ritorno. Guarito, ricomincia a scrivere. Al 1931 risalgono i suoi ultimi componimenti, in chiave surrealista:
Pioggia infinitamente graziosa (…) // dovrei porre la tua origine più in alto, e molto, / più presso a un vecchio Dio che bagna / i piedi nella tua freschezza. // Fili di seta con cui una nuvola principessa / cuce un abito a Dio.
Poi la malattia si aggrava, si trasferisce a Roma finché non viene internato in una clinica per malattie mentali a Bologna. Muore, secondo le cronache, a causa di un tozzo di pane andatogli di traverso, nel gennaio del ’42. Sembra che un intero baule di racconti, dai contenuti all’epoca considerati sessualmente scandalosi sia stato bruciato per paura di ritorsioni da parte dei nazisti in risalita verso nord.
Marco FIORAMANTI Roma 12 Maggio 2024