di Beatrice RICCARDO
In tempi molto recenti è stata pubblicata la prima biografia conosciuta (dopo un breve descrizione del 1604 di Karel van Mander) di Michelangelo Merisi, per mano di Gaspare Celio[1], pittore romano e autore de “Le Vite” del 1614, in cui il biografo fornisce le prime importanti informazioni riguardo all’arrivo del Caravaggio nell’ambiente artistico romano. Il Celio afferma come Prospero Orsi sia stato un primo punto di riferimento del nostro pittore a Roma. Tramite l’amico, presso cui trova anche alloggio, Caravaggio si allontana dalla bottega del Cavalier d’Arpino e viene “raccomandato” al Cardinal Del Monte:
“poi fattosi amico a Prosperino Orsi, delle Grottesche, si pose in casa di esso Prospero a fare alcuna cosa dal naturale, dove fece un putto che sonava un leuto. Dopo desiderando il Card.le del Monte un giovane, che li andasse copiando alcuna cosa, Prosperino, vi accomodò esso Michelangelo”.
L’Orsi, come riporta Celio, farà anche da intermediario per la grande committenza che lo consacrerà a pittore del momento, la Cappella Contarelli della Chiesa di S.Luigi dei Francesi:
“avendo rotto Prosperino l’antica amicizia havuta con il Cav.r Gioseppe, consigliò il card. le che facesse dare a Michelangelo le pitture che si dovevano fare in detta cappella, et gli furono date”.
Ed è proprio in questo frangente che il Merisi avrebbe dipinto Il Ragazzo morso dal Ramarro.
Il biografo Giulio Mancini, dal suo canto, ricorda l’opera in due momenti diversi:
“vendè il Putto Morso dal Racano per quindici giulj” e “d’età incirca 20 anni” fece “per vendere, un putto che piange per esser stato morso da un racano che tiene in mano”[2],
soffermandosi sulle difficoltà economiche e sociali del pittore al suo arrivo a Roma. Le stesse riferite anche da Giovanni Baglione, “nemico” storico, ma al contempo anche estimatore delle sue opere, il quale cita il quadro ne Le Vite de’ pittori scultori et architetti del 1642:
“fece anche un fanciullo, che da una lucerta, la quale usciva da fiori e da frutti era morso: e parea quella testa veramente stridere, e il tutto con diligenza era lavorato.”.
Il Baglione inserisce l’opera in una serie di ritratti eseguiti allo specchio come biglietto da visita per futuri committenti o mercanti come il Maestro Valentino di S. Luigi de’ Francesi e, più precisamente, dopo “un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse” e prima di “una musica di alcuni giovani ritratti dal naturale” ed anche di “un giovane che sonava il lauto”[3]. Colloca, quindi, il Ragazzo morso dal ramarro tra la bottega del Cavalier d’Arpino e prima del soggiorno presso il suo primo mecenate Cardinal Del Monte, ponendo l’accento sulle raffigurazioni delle caraffe di vetro, analizzandone la maestria e l’influenza leonardesca.
Di tale influenza milanese, appresa durante il suo giovanile apprendistato presso Simone Peterzano, parla la maggioranza dei critici, paragonando l’espressione del ragazzo morso ai moti dell’anima a lungo studiati da Leonardo e ravvisandone un presunto antesignano nel disegno de Il bambino morso da un gambero (o astice o granchio) di Sofonisba Anguissola del 1554 circa e conservato al Gabinetto di Disegni e Stampe del Museo di Capodimonte di Napoli. Lo studio fisiognomico dei volti morsi o, comunque, sorpresi, come in un’istantanea, in un’improvvisa distrazione dai loro futili intenti, rientrano in un filone di eco leonardesca, a cui pare non si siano sottratti nemmeno Annibale Carracci con Due bambini molestano un gatto del 1587-1588 e Vincenzo Campi con i Pescivendoli del 1579.
L’imponente bibliografia del Ragazzo morso dal Ramarro comincia quindi già nei primi anni del Seicento per mano dei suoi stessi contemporanei, che da un lato esaltano le precoci doti caravaggesche, ma dall’altro criticano il suo eccesso di realismo e lo contrappongono ai numerosi artisti che già popolavano la Roma degli ultimi anni del Cinquecento. Dopo una pausa settecentesca, in cui la critica si focalizza sui virtuosismi del Rococò, le valutazioni moderne vertono sull’autenticità delle due versioni più note, quella presso la Collezione Longhi di Firenze e quella presso la National Gallery di Londra, ritenute oggi dalla maggior parte della critica, ma con alcune autorevoli eccezioni, entrambe autentiche.
Roberto Longhi, ad esempio, ripercorrendo i passaggi di proprietà dell’opera fiorentina, la considera l’unica autentica, definendo la versione londinese una “copia antica o la replica più fievole”[4]; Mia Cinotti [5] è anch’essa dubbiosa sulla versione anglosassone; mentre Maurizio Marini[6] che si contrappone alla maggioranza degli studiosi, riconosce l’autografia solo alla versione inglese. Mina Gregori,[7] dal suo canto, nella mostra di Firenze e Roma nel 1991, offre l’occasione per un confronto delle due versioni una accanto all’altra.
La studiosa ipotizza, inoltre, che il Mancini ed il Baglione stessero descrivendo due versioni differenti del dipinto: il Mancini quella londinese ed il Baglione quella fiorentina. Denis Mahon concorda sull’autenticità dei due dipinti, asserendo che la versione fiorentina sia stilisticamente da ritenersi la più antica, datandola verso il 1593-94 rispetto all’esemplare londinese del 1595-98.
Di recente Alessandro Zuccari, nel suo saggio “Le due versioni del Ragazzo morso dal un ramarro attribuite a Caravaggio”[8], riaccende la querelle definendo la versione di Firenze: “una replica realizzata da un copista di talento” e precisando che si tratta di:
«una vigorosa opera ‘caravaggesca’ che si inserisce in quella variegata produzione imitativa, sviluppatasi soprattutto dopo la morte del maestro per rispondere alla richiesta di autografi sempre più rari e sempre più costosi. Ed è possibile supporre una sua collocazione cronologica al secondo decennio del Seicento, forse tra i primi anni, quando prende avvio la Manfrediana methodus anche con l’intenzione di rispondere alla crescente domanda del mercato artistico».
Dalle parole di Alessandro Zuccari, prende le mosse Sergio Rossi, nel suo saggio in questo stesso numero di About Art in cui esamina una terza versione ora in collezione privata romana in cui ravvisa, attraverso un’analisi iconografica e stilistica molto dettagliata che io condivido, il prototipo delle due versioni più conosciute.
Più recentemente viene approfondita l’iconografia del dipinto nell’interessante saggio di Giacomo Berra[9], che, partendo da un’analisi dalle due versioni del Ragazzo morso dal ramarro, mette sotto la lente d’ingrandimento la caraffa di vetro, confrontandola con quelle presenti all’interno dei quadri giovanili del Merisi ed effettuando un esperimento con una caraffa vitrea posta sotto fonti luminose differenti: ne consegue l’individuazione di tre ‘sviste’ dell’artista dovute:
“la prima ad un ribaltamento della luminosità sulla superficie della caraffa vitrea; la seconda alla mancanza di un alone luminoso all’interno dell’ombra proiettata della caraffa; e la terza all’assenza di una rigorosa resa degli effetti della rifrazione degli steli”
o ipotizzando la collocazione della caraffa in un momento successivo al ritratto del ragazzo.
Lo stesso Berra[10] intravede nell’opera un connubio tra amore e poesia sulla scia degli scritti di Giovan Battista Marino e Tomaso Stigliani, un biglietto da visita volto ad un pubblico raffinato e colto, pronto ad essere accolto nei salotti e ad essere oggetto di discussione e svariate interpretazioni o, più semplicemente, la raffigurazione di una delusione amorosa dell’artista, ma sempre incentrata sul tema più aulico dell’Amore. Tralascio, invece, in questa sede tutta la corrente di storici che hanno visto nel ragazzo una rappresentazione dell’amore omosessuale nel volto efebico e lascivo, e nel ramarro o salamandra l’emblema del fuoco e degli ardori erotici (Slatkes)[11] e tutti i risvolti psicologici sadomasochisti attribuiti alla mente caravaggesca da parte di alcuni studiosi, da Röttgen (1974)[12] a Lewis (1986)[13].
Maurizio Calvesi[14] esamina l’opera, come del resto molte altre del Merisi, come ricca di elementi riconducibili ad una versione teologica. La presenza delle ciliegie, simbolo della tentazione e del peccato si contrappone al ramarro, spuntato dalle tenebre come monito al ragazzo lascivamente abbigliato. Il ramarro è segno anche di morte ed in particolare di morte prematura, simboleggiata dalla presenza della doppia rosa sbocciata tra i capelli del ragazzo e quella quasi agonizzante posta nella caraffa in primo piano, quindi “un giovane morto nel fiore degli anni”, quasi una prefigurazione dello stesso artista morto prematuramente sulle spiagge di Porto Ercole in fuga dal bando capitale.
Del ramarro parla anche il Libro del Levitico 11, 1-47 con una accezione alquanto negativa:
“Fra gli animali che strisciano per terra riterrete immondi: la talpa, il topo e ogni specie di sauri, il toporagno, la lucertola, il geco, il ramarro, il camaleonte” e “Di tutti gli animali che strisciano sulla terra non ne mangerete alcuno che cammini sul ventre o cammini con quattro piedi o con molti piedi, poiché sono un abominio”.
In questo caso il ramarro è riportato nella lista degli animali impuri. Tale connotazione negativa è suffragata, in numerose opere, dalla presenza di alcune nature morte o ambientazioni di sottobosco che ritroveremo, anche, nella corrente barocca nordica. Un esempio si rintraccia nel Cesto di frutta del 1632 circa di Balthazar van der Ast, dove sono raffigurati proprio la canestra di frutta ed il ramarro. La presenza di altri insetti quali la mosca, responsabile della putrefazione e della distruzione in questo caso del frutto, rendono il ramarro, in atto di contorsione e accanto ad un frutto marcito, accezione del male contrapposto alla farfalla, simbolo della trasformazione spirituale e della salvezza.
Calvesi scorge, inoltre, un antesignano del Ragazzo morso dal ramarro del Merisi nel Gentiluomo nello studio di Lorenzo Lotto conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, dove il giovane ritratto non sembra scomporre il proprio contegno di fronte al cospetto improvviso del rettile. Non sempre, infatti, la sua presenza ha suscitato contrazioni o spavento. L’animale, a sangue freddo, tende a uscire dalla sua tana in presenza del sole ed a crogiolarsi nella luce e nel calore. La peculiarità di far rigenerare la coda resa mozza a causa di incidenti o di lotte con altri animali, è sempre un simbolo di rinascita, così come la luce ed il sole. Ad esso si contrappone la presenza dei fiori che, al culmine della loro sbocciatura e della loro bellezza, sono immediatamente destinati a sfiorire e a marcire. Simile significato si rintraccia nella canestra di frutta presente in numerose opere dell’artista. Essa è citata anche nel Libro del Profeta Amos 8, 1-14:
Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: era un canestro di frutta matura. Egli domandò: “Che vedi Amos?”/ Io risposi: “Un canestro di frutta matura”/ Il Signore mi disse:/ E’ maturata la fine per il mio popolo, Israele;/non li perdonerò più.
Riferimento riportato nell’articolo di Giacomo Berra[15], in relazione alla canestra presente nel dipinto londinese della Cena in Emmaus, con all’interno frutti non sempre appartenenti tutti alla stessa stagione o ormai deteriorati dal tempo e la canestra quasi sempre in bilico sulla tavola. Una caraffa di vetro molto fragile (nel cui riflesso inserirà anche un suo ritratto), una canestra con frutta in via di deterioramento in equilibrio alquanto instabile, insieme al Tasso Barbasso, di cui parla a lungo Rodolfo Papa nei suoi scritti e in Caravaggio pittore di Maria, simbolo della: “capacità di trattenere la vita, di conservare, di preservare dalla putrefazione”,[16]sono elementi ricorrenti nelle opere di Caravaggio e che esprimono il dramma emotivo che guiderà il pittore nell’eterna lotta tra bene e male.
Beatrice RICCARDO Roma 27 giugno 2021
NOTE