di Mario URSINO
“Santa Maria del Priorato sembra fatta con pezzi di antiche architetture bizzarramente ricomposti, arbitrariamente accostati, come cose della cui antica ragione e funzione si sia perduta la memoria. E tutto, in quella chiesa, è inciso con un tratto forte e profondo, che si direbbe “inchiostrato” come nell’incisione”.
Così Giulio Carlo Argan (1968).
Il celebre studioso alludeva infatti alla principale attività di Giovan Battista Piranesi (1720-1778), attivo a Roma dal 1740, veneto e dunque di formazione vedutista, ma con forte propensione all’attività di incisore. Le sue famose grafiche, come è noto, costituiscono un vasto repertorio dei monumenti di Roma e dei suoi dintorni, cosicché attraverso questi lavori abbiamo la testimonianza di una sorta di mappa dei resti di edifici pubblici e ruderi sparsi senza regole ovunque in città e nella campagna romana, come si vedevano nel secolo XVIII. E Piranesi rievoca appunto “arbitrariamente” l’antico, come ha scritto Argan, e dunque fantasiosamente ha ideato quell’unico suo capolavoro architettonico che è la chiesa di Santa Maria del Priorato, ricreata in base alla sua convinzione che l’antico è ciò che vediamo nei ruderi, e quindi possiamo ricomporlo solo con l’immaginazione, come egli ha scritto nel suo Trattato della magnificenza ed architettura dei Romani del 1761, in polemica con la teoria dei sostenitori (Winckelmann) che intendevano ripristinare la funzionalità degli edifici antichi ispirati dalla supremazia dei modelli ideali greci: una vana e insostenibile idea, secondo Piranesi, il quale affermava la superiorità dell’indipendenza della tecnica ingegneristica e costruttiva dei romani nel trattato sopra citato. Infatti è sempre solo l’immaginazione a evocare e rappresentare l’antico.
Emblematici sono i suoi disegni e incisioni come le Carceri e i Capricci, quest’ultimi realizzati per la sua formazione veneteggiante del vedutismo, e in particolare, a mio avviso, esemplati dalle invenzioni nei Capricci di Marco Ricci (1676-1730). È da queste premesse che Piranesi mette mano alla riqualificazione dell’antichissima chiesa di Santa Maria del Priorato. Fu fondata come monastero cluniacense di Nostra Signora intorno al 934, quando Alberico II donò a questo fine il colle suburbano dell’Aventino all’Abate Oddone di Cluny. Secoli dopo, il complesso monastico fu acquisito dall’Ordine di Malta, e nel 1566 divenne sede del Priorato.
Diverse furono le trasformazioni avvenute dal secolo XIV, quando il monastero divenne proprietà degli Ospedalieri, sino a quando il cardinale Giovan Battista Rezzonico (1729-1783), Gran Priore dei Cavalieri del Sovrano Militare Ordine Ospedaliero Gerosolimitano di Malta dal 1763, incaricò il Piranesi di restaurare, meglio sarebbe dire rifare, la chiesa di Santa Maria in Aventino. E l’artista infatti vi lavora tra il 1764 e il 1766, ed è come la vediamo ancora oggi [fig. 1]. Del progetto piranesiano della facciata esiste solo un unico disegno [fig. 2], conservato a Londra al Sir John Soane Museum.
Per far rivivere la peculiarità di codesto storico monumento, offuscato dal tempo e dalle diverse trasformazioni (si veda al riguardo, il testo di Jacopo Curzietti, L’Aventino e l’Ordine Gerosolimitano: Santa Maria del Priorato prima degli interventi del Piranesi, 2010, pp. 248-255) e manutenzioni (v. la facciata e un particolare di questa, prima dell’attuale restauro, figg. 3-4),
l’Ordine di Malta ha affidato all’architetto Giorgio Ferreri la direzione dei lavori di riqualificazione della chiesa, compiuta con esemplare accuratezza filologica tra il 2017 e il 2019. In questo modo Santa Maria del Priorato, non solo ha recuperato il primitivo candido splendore dopo la ripulitura e consolidamento degli stucchi ornamentali, ma ha ridonato sia alla facciata sia all’interno della chiesa, la luce metafisica che rischiara la sede del luogo di culto e sepolcro di alcuni antichi Gran Maestri e Gran Priori; nella quarta nicchia a sinistra, ad esempio, c’è il sarcofago del Gran Maestro Riccardo Caracciolo, già sepolto nell’antico cimitero aventiniano dal 1383; subito prima della nicchia è collocato verso l’altare il fastoso trono porpora del Gran Maestro [fig. 5].
Altre note di colore sono date dalle sequenze delle bandiere, simboli delle diverse “lingue” dell’Ordine [fig. 6].
Nel catino absidale biancheggiano baroccamente gruppi scultorei eseguiti dello stuccatore Tommaso Righi (1722-23-1802c.), a rappresentare La Gloria di San Basilio tra gli angeli [fig. 7], e in basso un tondo Madonna con Bambino e san Giovannino [fig. 8]; precedentemente sull’altare maggiore era collocato il dipinto San Basilio riceve la regola dalla Madonna col bambino, 1636-1637, di Andrea Sacchi [fig. 9], al tempo del cardinale Antonio Barberini, nipote di Urbano VIII, che commissionò nuovi interventi decorativi nella chiesa, tra cui l’opera del Sacchi sopra citata, oggi esposta in una delle sale della Villa Magistrale.
Il culto di San Basilio a Roma risale al secolo XI, allorquando i monaci basiliani crearono un monastero nel Foro di Augusto; successivamente verso il 1230 l’edificio fu incorporato in una proprietà dei Cavalieri dell’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detti anche di Rodi e di Malta; (in un antico manoscritto sulle chiese di Roma, conservato a Torino, si legge: Ecclesia sancti Basilii habet fratres hospitalis sancti Joannis); e ciò spiegherebbe la venerazione dei Cavalieri per questo importante santo orientale. La sede dei Cavalieri di Rodi è tuttora esistente con la chiesa palatina officiante, in Piazza del Grillo.
Si diceva dell’accuratezza del recente restauro che ha evidenziato il particolare valore incisorio dei rilievi architettonici e delle fitte decorazioni scultoree, anche laddove lo sguardo dal basso non è in grado di cogliere la minutezza con la quale il Piranesi ha voluto mescolare ecletticamente elementi figurativi egizi, come le due sfingi alate che racchiudono una torre che fungono da capitelli alle quattro lesene scanalate della facciata, o greche e orientali, come palmette, rosette, prue di navi aggettanti, a rappresentare la vocazione armata dei navigli dell’Ordine, e diffusi simboli araldici dei Rezzonico, appunto le Torri e le crocette (si veda anche il bellissimo timpano [fig. 10], dopo il qualificato restauro, che attesta con una panoplia, il rilievo riccamente inciso da codesti simboli, e del carattere militare dei Cavalieri di Malta che si erano distinti, come è noto, nella famosa battaglia di Lepanto.
E sulla linda facciata si legge bene l’acronimo FERT (Fortitudo eius Rhodum tenuit), inciso alla base dei bassorilievi dei due angeli ai lati del portale, alludendo alla forza armata dell’Ordine in difesa della cristianità.
Tutti codesti rilievi sono opera del sunnominato stuccatore Tommaso Righi, autore anche del complesso bassorilievo posto al centro della volta a botte dell’unica navata della chiesa [fig. 11].
Nella parte centrale il Righi realizzò un labaro che ricordava l’insegna militare romana (il vexillium imperiale), chiuso in una ghirlanda e dai due medaglioni della Pax Christi. Al di sotto del labaro è visibile una nave, dalla quale spuntano rostri (altri simboli delle lotte dei cavalieri nel Mediterraneo). Poi un tripudio di angioletti che nel mezzo reggono la Croce, tra ghirlande e rosette, che culminano con la tiara Papale, segno della dipendenza diretta dell’Ordine dal Sommo Pontefice; dall’altro capo il bassorilievo di San Giovanni Battista che si poggia su una targa iscrittoria in stampatello: S٠IOANNES PROTECTOR. Difficile scorgere in dettaglio tutta questa ricchezza scultorea dal basso, se non con l’aiuto di un binocolo. Ma va detto che per effetto del sapiente restauro, si percepisce comunque perfettamente il gioco luce-ombra, scaturita dalla profondità incisoria voluta dal Piranesi, per cui tali bassorilievi producono una sorta di sensazione pittorica per il bianco riemerso e l’ombra prodotta da ciascun rilievo, anche nelle parti più minute della ricca decorazione.
Lungo la navata il Piranesi realizzò quattro nicchie per lato, occupandole con sepolcri dedicati ad antichi personaggi importanti per l’Ordine, come quello del citato Riccardo Caracciolo, e, nella quarta nicchia a destra, il sarcofago di Bartolomeo Carafa (1405). Nella seconda nicchia a destra spicca il solenne monumento funebre dedicato all’autore del rifacimento della chiesa di Santa Maria del Priorato. Giovan Battista Piranesi è rappresentato a figura intera, togato come un antico romano [figg. 12-13], con un braccio poggiato su un erma dalla colonna quadrangolare, e su una sezione di questa sono scolpiti gli attrezzi del grande incisore. Con l’altra mano il Piranesi regge un foglio, raffigurante il disegno di un progetto.
La statua è in marmo, ed è opera dello scultore Giuseppe Angelini (1735-1811), eseguita nel 1780, due anni dopo la scomparsa dell’artista, per volontà dello stesso committente Rezzonico.
Non era la prima volta che il Piranesi veniva rappresentato come un antico romano, come il busto nella bellissima acquaforte per il frontespizio della sua opera Antichità Romane del 1756 [fig. 14], opera dall’incisore veneto Felice Francesco Polanzani (1700-1783), amico e forse maestro del Piranesi nell’utilizzo di questa tecnica, di cui il Nostro fece largo uso nelle tavole delle sue illustrazioni della Roma vissuta e sognata, come un artista che non è esagerato definire un autentico protoromantico.
Mrio URSINO* Agosto 2019