di Nica FIORI
Quando Roma muoveva ancora i suoi primi passi, l’etrusca Veio era una popolosa città ricca e potente che aveva sviluppato una rinomata scuola di coroplastica (scultura in terracotta), tanto che Tarquinio il Superbo, l’ultimo dei sette re, chiamò un maestro veiente per realizzare una grande quadriga da collocare sul tetto del tempio di Giove Capitolino. L’area archeologica di Veio (in prossimità di Isola Farnese, a circa 15 km dalla Capitale) è di grande interesse storico e naturalistico, ma per renderci conto della grandezza della sua arte è d’obbligo una visita al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, dove sono esposte le grandi statue in terracotta policroma della fine del VI secolo a.C., raffiguranti Apollo, Eracle, Latona, oltre ad altri materiali fittili provenienti dall’area sacra extraurbana di Portonaccio, il cui tempio tripartito era dedicato a più divinità.
Nel Museo, diretto da Valentino Nizzo, è attualmente in corso il restauro della Latona (corrispondente alla greca Leto, madre di Apollo e di Artemide), che doveva essere collocata, come le altre statue veienti, sul tetto del tempio di Portonaccio. Si è scelto di non spostare la scultura, ma di lasciarla insieme alle altre nella sala 40, trasformata in un cantiere aperto, in modo che i visitatori possano seguire le diverse fasi di studio e restyling dell’opera.
L’intervento, coordinato da Miriam Lamonaca, responsabile del Servizio per la conservazione del Museo, è effettuato dal restauratore Sante Guido, che ha precedentemente restaurato anche l’Apollo e l’Eracle.
Si tratta di un intervento conservativo, sostenuto economicamente dallo Studio Legale Carbonetti e Associati, quanto mai necessario perché il precedente restauro risaliva alla metà degli anni ’50 del XX secolo, mentre l’Apollo e le altre statue sono state restaurate nel 2005 e 2006.
La scoperta delle statue veienti, venute alla luce a partire dal 19 maggio 1916, nel pieno della prima Guerra mondiale, rivoluzionò le conoscenze fino ad allora acquisite sull’arte degli Etruschi ed ebbe una straordinaria influenza sulla cultura e l’immaginario contemporanei. Numerosi artisti del Novecento trassero ispirazione dalla resa del movimento e l’incisività dei dettagli e soprattutto dall’eccezionale policromia che dopo duemilacinquecento anni ancora le caratterizzava. L’Apollo, in particolare, incantò tutti per il suo ottimo stato di conservazione, e tuttora affascina con il suo sorriso accattivante i visitatori. Del resto chi meglio di lui, che era a guida delle Muse, può fare gli onori di casa in un museo?
La statua di Latona, anche se dal punto di vista della tecnica e dello stile si colloca senza ombra di dubbio sullo stesso piano dell’Apollo, essendo della stessa mano, non è stata altrettanto fortunata, perché estremamente frammentaria. Oltretutto mancano la parte superiore del corpo del bambino che lei tiene sulla spalla, l’intero braccio sinistro e altre parti del corpo.
Quando Massimo Pallottino la presentò per la prima volta nella nota “Le recenti scoperte nel Santuario dell’Apollo a Veio”, pubblicata nel Bollettino d’arte (Le Arti) del 1939-40, non aveva ancora la testa ed era stata assemblata mettendo insieme circa 250 frammenti, che andavano da qualche decimetro a insignificanti scaglie. Purtuttavia il famoso etruscologo si rese conto che si trattava di una scultura eccezionale, che faceva parte di un gruppo mitologico. Estremamente accurata è la sua descrizione:
“La statua raffigura una giovane donna in atto di camminare reggendo con la mano destra un bambino poggiato sulla spalla sinistra: secondo la nota convenzione le sue carni sono chiare (giallo-avorio), mentre quelle del fanciullo scure (rosso-bruno). Il costume della donna consiste di un lungo chitone chiaro con bordo scuro, rimboccato lateralmente sulla cintura che lo stringe alla vita e manicato fino al gomito, al quale si sovrappone un mantello scuro che copre interamente il dorso, terminando in basso con un’ampia curva, e scende dalle spalle con due estremità a pieghe sulla parte anteriore del corpo”.
Come mi ha spiegato Miriam Lamonaca, l’esigenza iniziale era stata quella di ricomporre la statua e di creare un sostegno interno che desse una certa stabilità strutturale; la testa non era stata ancora ritrovata, ma la posizione del braccio faceva intuire che si trattasse di Latona con il piccolo Apollo. È stata rinvenuta in seguito una porzione della testa (quella superiore), ma non si sapeva come posizionarla; l’ipotesi che ha prevalso è stata di sistemarla in posizione frontale, ma si sono fatte prove anche con la testa girata verso un lato.
“Quello che ci è giunto – afferma Miriam Lamonaca – è frutto di restauri sovrapposti negli anni, con vaste aree di rifacimento, moltissime lacune trattate con la metodologia del sottotono, ovvero stuccature in gesso ridipinte in colore similterracotta, mentre oggi si cerca di ripristinare il colore con la tecnica del puntinato (colore applicato a puntini). La parte più problematica è quella del collo. Non abbiamo niente del collo. Il tentativo di ricostruzione, fatto in passato, non era risultato anatomicamente perfetto, perché il collo era troppo sottile e allungato, e la mascella era troppo sporgente”.
Per porre rimedio alla precedente situazione, sono attualmente in corso delle prove di rimodellazione di questa parte. Si cerca di allargare il collo facendo un lavoro accurato di aggiungere volumi e poi rimuoverli, per allargare il collo in modo verosimile, e allo stesso tempo per stabilire quale potrebbe essere la giusta posizione dei riccioli della capigliatura, che scendono sulle spalle; si sta cercando di rimodellare i riccioli guardando quelli di Apollo, cercando di intuire anche la loro curvatura. Dei riccioli della Latona, che sono undici, si sono conservati 30 cm della parte terminale, mentre dell’attacco si è conservato molto poco.
Indubbiamente si tratta di un intervento molto delicato e complesso, ma estremamente affascinante. Come ha precisato Sante Guido:
“Tra una versione e l’altra bisogna lasciare passare del tempo, per cui il lavoro si sta modificando a poco a poco. Avevamo previsto tre mesi, ma sono già cinque mesi che stiamo lavorando e finiremo a giugno per le Giornate dell’Archeologia. C’è la necessità di osservare a distanza di giorni il lavoro già fatto per cercare di raggiungere un risultato che avvicini la Latona ai modelli di Apollo e di Ermes (del quale abbiamo la testa e altri frammenti), ma considerando che quelle sono statue di maschi, mentre lei è donna”.
Anche il direttore Valentino Nizzo segue il lavoro, osservando il tutto nella sua ottica di archeologo. Secondo quanto ha dichiarato:
“Quello del restauro della Latona può essere considerato un laboratorio di successo per la collaborazione fra restauratori e archeologi. Entrambi, per le loro specifiche competenze, hanno dialogato per dare risposte e arricchire la conoscenza della sua storia, aggiungendo elementi utili alla sua narrazione e cogliendo nuovi spunti che il restauro ha prepotentemente messo in luce. La realizzazione del cantiere all’interno del percorso espositivo, a contatto diretto con il pubblico, ha poi certamente contribuito ad alimentare la curiosità e a fornire al Museo stimoli per migliorare la comunicazione e il racconto dei suoi reperti. Un apprezzamento per il mecenate che ha consentito l’intervento di restauro, il prof. Francesco Carbonetti, il cui gesto ci auguriamo sia emulato da altri”.
Si tratta, in effetti, di un virtuoso lavoro di collaborazione, così come del resto è stato fatto, sia pure in maniera diversa, nel passato. La statua, come già detto, è composta da innumerevoli frammenti e alcuni di questi non toccano tra loro: sono stati messi seguendo il panneggio e l’anatomia per dare l’idea dell’unità dell’opera. Questi restauri novecenteschi erano basati su uno studio filologico dei tanti frammenti, portato avanti con paziente ricerca dall’etruscologo, da un disegnatore e dal restauratore.
“Oggi lavoriamo per dare una migliore leggibilità all’opera – spiega Sante Guido -. Inoltre indaghiamo sulla tecnica. I colori usati erano argilla con ossido di ferro (ruggine) e ossido di manganese (un minerale scuro), che venivano macinati; si utilizzava argilla, ma probabilmente anche caolino (argilla più chiara raffinata) che è presente nel Viterbese nel comune di Farnese. Il corpo ceramico veniva ricoperto da colore, cioè argilla liquida; il risultato finale lo ottenevano cuocendo il tutto nel forno, che veniva costruito su misura per ogni singola statua. La tecnologia era estremamente progredita rispetto a quella dei Romani”.
Questa statua, come le altre precedentemente restaurate, è accompagnata da una serie di indagini scientifiche. È già stata fatta una campagna fotografica (fotografie a luce radente su tutti i lati, a infrarossi e a UVA) per capire gli strati sovrapposti e la cromia sottostante; si faranno inoltre radiografie per vedere l’interno. Si farà anche la scansione 3D di tutte e quattro le statue (oltre a Latona, ci sono Apollo, Eracle e parti dell’Ermes) che si potrà vedere sul computer e questo fatto permetterà anche ai ricercatori lontani di poter studiare meglio le statue.
La pulitura è stata fatta piano piano ad acqua e ogni tanto con un po’ di acetone per rimuovere le polveri grasse e gli strati di sporcizia depositati sulla superficie. Sulle linee di frattura si è fatto ricorso al laser.
Le novità emerse finora dal restauro riguardano soprattutto la resa dell’abbigliamento. Sono piccole scoperte che danno l’idea di una statua femminile realizzata con maggiore attenzione ai dettagli rispetto a quelle maschili, come ha spiegato il restauratore:
“Facendo la pulitura di strato in strato abbiamo visto che la Latona ha dei dettagli nei panneggi che le altre statue non hanno; lo si capisce dalle pieghe: lei ha pieghe più elaborate, il risvolto del mantello presenta differenze tra la stoffa e la fodera, l’orlo che definisce il tessuto è più scuro poi c’è una righina chiara costituita da argilla nuda. La fodera è trattata con un colore leggermente più chiaro come se l’esterno fosse marrone e la fodera nocciola. Il chitone doveva avere una cintura e il risvolto che gli abiti maschili non hanno. In basso non capisci dove inizia l’incarnato; noi rifaremo il bordo puntinato per dar l’idea dello stacco della carne nuda della gamba. Il bambino ha una tonalità calda, essendo maschio ha l’incarnato scuro; ha già il suo chitone: è vestito come sarà da grande”.
L’impressione è quella di un’eleganza essenziale e dinamica, che teneva conto anche del fatto che l’opera andava guardata dal basso verso l’alto.
Alloggiate su alte basi a “sella” variamente dipinte, le statue, in numero forse di dodici, si ergevano in funzione di acroteri a circa dodici metri di altezza, come si legge in un pannello didattico. Anche se realizzate isolatamente, illustravano in sequenza eventi mitici greci, almeno in parte collegati con Apollo. La statua del dio era collocata di fronte a quella di Eracle, formando un gruppo che raffigurava la contesa tra lui e l’eroe per il possesso della cerva dalle corna d’oro sacra ad Artemide, una delle fatiche compiute dall’eroe prima della sua ascesa tra gli dei dell’Olimpo. Collegata al gruppo doveva essere anche la statua di Ermes (Mercurio per i Romani) di cui restano la splendida testa e qualcosa del corpo.
Latona è rappresentata nell’atto di fuggire con il figlioletto tra le braccia, perché minacciata dal serpente Pitone, mandato dalla dea Era, ma il piccolino con arco e frecce ferma Pitone. Di Pitone si conservano solo piccole parti e manca la testa; in realtà si sono trovate quattro teste di serpente che dovevano far parte di altre figure (in particolare la Chimera), visto che sono troppo piccole.
Ovviamente il cantiere a vista suscita molta curiosità, soprattutto nelle scolaresche. Colpita dal camice bianco del restauratore, una bambina gli ha chiesto: “Lei è un dottore di statue?”.
Al che Sante Guido ha risposto: “In un certo senso. Lei non è malata ma bisogna fare una visita di controllo”.
I ragazzi sono forse attratti dal mito, più che dalla storia dell’archeologia e dagli scavi, ma poi a poco poco cominciano ad apprezzare l’arte e la storia di una città come Veio, che, essendo una potente rivale troppo vicina a Roma, venne conquistata e rasa al suolo da M. Furio Camillo nel 396 a.C. circa, dopo un assedio decennale paragonato dagli autori latini a quello mitico di Troia.
È un vero miracolo che dagli scavi novecenteschi siano emersi questi straordinari capolavori conservati nel museo di Villa Giulia, visto che quel poco che era sopravvissuto della città, nel I secolo d.C., suscitò in Properzio il poetico rimpianto per ciò che si era perduto:
“O antica Veio, anche tu allora eri un regno e un trono d’oro era posto nel tuo Foro. Ora entro le tue mura si sente suonare la cornamusa dell’indolente pastore e si miete il grano tra le tue tombe”.
È questa un’indimenticabile immagine di città decaduta, che il poeta rese celebre, lanciando la moda della “poesia delle rovine”: un genere letterario, e in seguito anche pittorico, che avrà il momento di maggior successo in età romantica.
Nica FIORI Roma 12 Marzo 2023
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Piazzale di Villa Giulia, 9 – Roma
Orario: dal martedì alla domenica, 8,30 – 19,30 (ultimo ingresso ore 18.30)