di Giulio de MARTINO
A pochi mesi dalla mostra Omaggio dedicata alla memoria dello storico e critico dell’arte Maurizio Fagiolo dell’Arco (Roma, 1939-2002) – progettata da Beatrice Mirri, moglie di Fagiolo dell’Arco, e curata da Laura Cherubini – la Galleria d’arte Russo, non lontana da Piazza di Spagna, torna a far sentire la sua voce e la sua presenza nel campo dell’arte del ‘900[1].
La mostra “OLTRE. Protagonisti dell’arte in Italia dagli anni Cinquanta in poi” sempre a cura di Laura Cherubini, in svolgimento dal 20 ottobre 2022, offre una valida occasione di approfondimento con la possibilità di vedere molte opere di molti artisti e produce un effetto rigenerante e stimolante.
Ci riporta ad un periodo fervido dell’evoluzione dell’arte specificamente italiana – gli anni centrali del ‘900 – in risonanza con le tendenze americane o europee del tempo, ma ideata e motivata sulla base di specifici elementi culturali ed estetici.
Scrisse Fagiolo dell’Arco, a proposito di Giulio Paolini, ma il giudizio si potrebbe estendere ad altri artisti: «L’obbiettivo dell’arte rimane sempre l’arte. E il tempo. Ogni lavoro è sempre una analisi del tempo perduto che aspira alla sintesi d’un attimo»[2].
In questo brano, le categorie critiche ci sono tutte: l’«autoreferenzialità» dell’arte (che non è un difetto, bensì una forma estetica), il rapporto dell’opera d’arte «sincronico» (con il proprio tempo) e «diacronico» (con la storia dell’arte) e infine l’«evento» (la mostra come attimo) in cui l’opera lascia l’artista ed entra nel campo fruitivo del visitatore e della società in generale.
Nei fatti, Maurizio Fagiolo dell’Arco e, soprattutto, gli artisti italiani degli anni ’50/’70 sono entrati nel mirino di quelli che definirei i «vanagloriosi rivoluzionari»: la tendenza culturale che – dopo la metamorfosi dello «spirito di neoavanguardia» – è entrata trionfalmente a far parte del «sistema» dell’arte, della cultura e della comunicazione in nome di una camaleontica critica del «sistema dell’arte, della cultura e della comunicazione».
A questi «critici critici» si può contrapporre la visione «fenomenologica» di Germano Celant e di altri (come Gillo Dorlfes, Lea Vergine, Achille Bonito Oliva, Pierre Restany, Renato Barilli) che, in modi diversi, hanno teso a evidenziare come la produzione artistica del pieno Novecento – al di là della sua azione semiologica e comunicativa immediata – sia entrata a far parte dell’evoluzione del gusto dei galleristi, dei fruitori, dei collezionisti.
Punto di svolta nel bagaglio cognitivo e narrativo della società, ogni «avanguardia» trasforma il «sistema» e il sistema contribuisce a generare la nuova avanguardia[3].
Lo slancio artistico, la polisemia degli anni ‘50-’70, l’esplorazione di alfabeti prima ignoti alle arti visive, conservano tutto il loro valore e significato anche se il contesto massmediale e storico è profondamente cambiato.
La ricca generazione di artisti in mostra alla Galleria Russo – Carla Accardi, Afro, Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Alighiero Boetti, Piero D’Orazio, Tano Festa, Lucio Fontana, Piero Gilardi, Leoncillo, Carlo Lorenzetti, Fabio Mauri, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Antonio Sanfilippo, Mario Schifano, Giulio Turcato – se non rappresenta la ricerca artistica nella sua forma attuale, ha certamente contribuito a incrementarne il patrimonio di tecniche e competenze.
Anche una parte della società italiana – il cosiddetto «pubblico dell’arte contemporanea» – ha sviluppato, grazie a questi artisti, il proprio gusto e incrementato la propria cultura estetica.
L’arte italiana degli anni successivi al secondo Dopoguerra, infatti, non costituisce soltanto una «risorsa per il mercato» dell’arte, un cimelio per i musei e un piacere per i collezionisti. Rappresenta una «riserva di senso» e di invenzione per gli artisti contemporanei e per i loro nuovi mezzi e linguaggi.
Il compito di quanti intendono collaborare alla perpetuazione della «tradizione della neoavanguardia» è quello di indagare come la libertà estetica e la ricerca artistica di quei decenni possano «fare memoria» e come si possa innestare la loro esperienza nel patrimonio culturale della galassia massmediale postmoderna.
Da questo punto di vista, la «tirannide dell’ideologia politica» scatenata, in Italia, dalla Contestazione del ’68 in nome dell’«arte impegnata e militante», ha finito con lo spiazzare e con il colpire alle spalle lo sperimentalismo acceso degli artisti degli anni ’50 e ’60[4].
Un autore trasgressivo e provocatorio come Pino Pascali si sbaglierebbe a proporlo oggi come un «anti-artista» o come un nichilista dell’estetica. Pino Pascali, Tano Festa, Franco Angeli, Mario Schifano: sono stati piuttosto gli alfieri della libertà creativa, dell’edonismo divergente, del distruggere che costruisce, in un’epoca che fu di benessere, ma anche di distonia e di cesura culturale[5].
Vanno quindi storicizzati come campioni di un’arte che impara a parlare nuovi linguaggi. Un’arte che si è guardata allo specchio e che non lo ha mandato in pezzi. Piuttosto lo ha ricostruito con nuovi materiali.
Giluio de MARTINO Roma 23 Ottobre 2022
La Mostra
OLTRE. Protagonisti dell’arte in Italia dagli anni Cinquanta in poi (dal 20 ottobre 2022)
A cura di Laura Cherubini, ufficio stampa Giovanna Nicolai
Galleria Russo. Via Alibert, 20 – 00187 Roma
Catalogo © MANFREDI EDIZIONI 2022