Il ritorno di The Donald; l’insediamento di Trump e uno scenario sulle sfide lanciate dal tycoon.

di Chiara GRAZIANI

South park, film del 1999, probabilmente oggi non sarebbe arrivato nelle sale cinematografiche né avrebbe sfiorato l’Oscar (seppure per la migliore colonna sonora). Parolacce, linguaggio violento, sessista, razzista, suprematista e peti a ripetizione ne fanno una delle pellicole, e di animazione per giunta, più volgari e scorrette di sempre (anche se i cultori giurano che non sfiori le vette della serie tv).

In genere si dice che il poeta ha il dono della preveggenza. E se questo è vero, allora South Park 1999 è poesia. Perché, venticinque anni prima, aveva previsto fra un peto e l’altro, (o grazie a questi?) il rischio di un attacco degli Stati Uniti ai tranquilli cugini canadesi, proprio come oggi lasciano temere le spallate al governo di Ottawa del  di nuovo presidente degli Usa, Donald John Trump. Una guerra, quella immaginata dal poeta, che, con la supervisione di Satana dietro le quinte, avrebbe portato il mondo sull’orlo della distruzione definitiva. Del resto non sappiamo cos’altro potrebbe seguire oggi allo scenario, comico non fosse drammatico, di una potenza Nato che potrebbe attaccare un altro membro della Nato, con tutto quel che segue sugli obblighi degli altri alleati nei confronti dell’aggredito.

D’accordo. D.J.T dice che, al momento si accontenterebbe di strangolare a suon di dazi l’economia canadese, peraltro delicatamente interconnessa con quella Usa sul piano energetico e idrico, e fa capire di avere già pronti gli ordini esecutivi per spingere all’annessione. Ma intanto pubblica sui social cartine degli Usa dove il Canada è già deglutito e digerito e sbeffeggia il dimissionario Trudeau con il titolo di “governatore”.

E un passo oltre il Canada – istruttivo guardare il mappamondo dall’alto spostando l’occhio dall’ombelico europeo – c’è la Groenlandia; sconfinata, ghiacciata e a galla nell’Artico, ad un tiro di schioppo dall’Europa alla quale è ancorata dal cordone ombelicale danese. D.J.T. va molto meno per il sottile se parla della Groenlandia delle inattinte risorse minerarie, crocevia di nuove rotte commerciali aperte dallo scongelamento dei poli (per inciso dovuto ad una incipiente catastrofe climatica, ma questo non viene considerato uno svantaggio dalle volpi della geopolitica). In Groenlandia, inoltre, il Canada ha già diverse licenze minerarie esplorative, dote che si porterebbe in pancia se davvero dovesse accettare una inverosimile annessione.

Trump ha già dichiarato in conferenza stampa che è vitale controllare l’immensa isola dei ghiacci  per la libertà e per la sicurezza nazionale Usa: tradotto, “ci serve”, e dice di essere anche disposto ad usare la forza per farlo. L’aveva chiesta già con le buone maniere nel 2019 (una proposta di acquisto fatta alla Danimarca) ed in fondo non ha mai digerito il rifiuto. Anche la Danimarca fa parte della Nato e non pare nell’ordine del possibile –  almeno quello fino ad ora noto – che gli Stati Uniti si annettano l’isola con la forza, magari a partire dalla sua base militare.

Eppure il governo danese pare pensare che l’ipotesi non sia da escludere. Poco prima di Natale, infatti, è stato annunciato il drastico elevamento delle difese della Groenlandia: rafforzamento degli staff militari a Nuuk, la capitale; uno dei tre aeroporti civili verrà attrezzato ad ospitare gli F35 da guerra; verranno acquistate due navi pattugliatrici, droni e – ultimo ma non ultimo,  mute di cani da slitta, indispensabili per garantire gli spostamenti in condizioni meteo difficilissime se non proibitive (la Groenlandia è priva di infrastrutture stradali). La “chiamata alle armi” degli husky, in grado di orientarsi istintivamente al modo dei lupi senza intervento umano, o tecnologico, la dice lunga. In Groenlandia un husky può valere dieci satelliti, per comunicazioni via terra garantite, non tracciabili e dai percorsi improvvisati.  Annessione? Non sarà vero ma ci credo, dunque. Anche se il ministro della difesa danese parla solo di una “ironica” coincidenza da due miliardi di euro di investimenti.

Nel 1999 l’idea che gli Usa potessero pensare al Canada come ad un nemico, era oltre l’immaginabile. Giusto una trovata da South Park, dove la perfida innocenza di un gruppetto di ragazzini americani, riconoscibili per appartenenza sociale, etnica, religiosa, clanica, arrivava a scatenare il peggio dell’animale umano per candido cinismo, mancanza di scrupoli e di pietà.  Il tutto senza uscire da parametri di rispettabilità sociale e con scorrettissimi e  travolgenti  effetti comici.

I poveri nel mondo di South Park vengono infilati in un maxifrullatore, il giorno del Ringraziamento, perché si guadagnino la carità cercando di agguantare al volo scatolette di fagiolini per il divertimento dei compassionevoli cittadini medi americani. Nel mondo di South Park il bambino povero, sempre lo stesso, puzza di latte acido e muore di ogni genere di morte ad ogni puntata, sporcando il marciapiedi con cervella e/o visceri. E alla puntata successiva è di nuovo lì, a puzzare di acido, vanamente risorto, prontamente rimorto. Nel mondo di South Park le cacche cantano inni di Natale e i bimbi obesi bianchi prendono a calci i denutriti neri etiopi non lesti a scansarsi: “Cazzo, fatemi passare! Sono americano io!”.

E solo nel mondo di South Park un gruppo di mamme bigotte e benpensanti, può cercare nel Canada, nella persona di due comici e poi di un intero paese, la colpa della corruzione dei loro cinici e volgari figlioletti. Dai la colpa al Canada (Blame Canada!) cantano in marcia, elencando una lista di peccati sempre più lunga e argomentando che “in fondo non sono neppure un paese sul serio”. Chiedono il capestro, insultano, ottengono la condanna a morte dei corruttori e la situazione precipita, in un gran casino (fuss), verso una guerra che servirà, cantano, a dare la colpa al Canada “prima che qualcuno pensi di darla a noi”.

Le Mamme Contro il Canada diventano un movimento (Mothers Against Canada, o MAC come si direbbe oggi in tempi di acronimi) ed ogni connessione con la realtà si interrompe, la narrazione auto assolutoria delle mamme e della società di South Park – compassionevole ed empatica quanto uno squalo –  non ha più freni. Ogni perfidia, ipocrisia, avidità, scurrilità gratuita, perfino ogni peto non può essere colpa nostra, viene da fuori: Blame Canada! Dai la colpa al Canada!

Roba da South Park. L’alleato nord-americano degli Usa esporta oggi energia a buon prezzo verso gli States,  le province canadesi di confine sono interconesse con gli stati confinanti a sud, l’equilibrio, incentrato sul patto energetico,  serve a tutti e due i vicini. Eppure Trump ha iniziato proprio così; Blame Canada! Dal confine, ha detto, passano droga e migranti senza che nessuno li fermi. Blame Canada! Potremmo essere una nazione grandissima ma c’è “una linea artificiale tracciata lì” a impedircelo mentre i canadesi ci mungono a dovere. Blame Canada!

E’ stata chiara la conferenza stampa dai campi da golf di Mar a Lago, dove il nuovo capo tribù (copyright Maurizio Molinari) dell’Occidente ha piantato il teepee, meta di atti di vassallaggio non nuovi all’uso della politica internazionale ma mai così sfacciatamente marcati dall’omaggio alla forza bruta della quale la nuova Casa Bianca si compiace. Canada, Panama, Messico, Danimarca. Tutti avvisati. La tribù dominante ha presentato il menù per una super area di influenza e controllo delle vie del mare, delle risorse minerarie, delle supply chains, del cortile di casa (Il Messico dove approdano le carovane dei disperati che, a migliaia, camminano insieme attraverso l’America Latina verso la terra promessa statunitense).

Scelga il mondo come cedere: il presidente degli Usa afferma sia suo dovere garantire la sicurezza nazionale, ma dalla casa d’altri. Formula ormai digerita dalle opinioni pubbliche anche per la mai cessata occupazione israeliana dei Territori palestinesi in nome della propria sicurezza.

E’ realistico? Il boccone tutto intero pare troppo grosso perfino per il comandante in capo dell’esercito “più letale del mondo”. Tanto più che nella litania quotidiana sul Canada-51esima-stella-americana, Trump allunga continuamente la lista dei nemici. Al paese degli aceri, come alla Groenlandia,  ricorda la presenza nei mari dell’Artico delle navi russe e cinesi: “Sapremmo difendervi in modo feroce da queste insidie” promette. E qui viene il dubbio che una buona quota di teatro nell’esibizione muscolare di DJT ci sia.

La Cina è ovviamente il competitor naturale. In Groenlandia ha una licenza mineraria – per estrarre non per esplorare – nel sud dell’isola e pare che abbia trovato l’uranio. Inoltre apre porti in America Latina e preme sull’Indo-Pacifico, segnatamente sulle Filippine ed il Mar Cinese Meridionale da dove (fonte Med-Or, fondazione della società Leonardo) passano il 30% degli scambi commerciali globali. Con la Russia di Putin, il rapporto, invece, è più complesso e variegato. “L’Artico resta nella sfera degli interessi strategici russi” ha detto il portavoce Peskov, citato dalla Tass e Mosca “rimane interessata alla pace ed alla stabilità nella regione”. Chiaro ma non aggressivo. In realtà Mosca, che aspetta le mosse di Trump per la chiusura del conflitto in Ucraina, starebbe saggiando il terreno su una diversa disponibilità del rientrante inquilino della Casa Bianca.

Uno dei banchi di prova sarebbero le sanzioni inflitte a molte compagnie russe a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Segnatamente quelle a carico di Novatek, la seconda compagnia per l’energia del Paese. Una massiccia azione di lobbing starebbe preparando il terreno per tentare di liberare l’Arctic LNG 2 Project, (tre linee di produzione di gas naturale liquefatto da ultimare nel 2026), dalle sanzioni. Argomentazione: essendo il progetto svincolato da obblighi fiscali non contribuirebbe allo sforzo bellico in Ucraina. La scacchiera artica ha, dunque, tantissimi pezzi in gioco. E la Groenlandia mirerebbe, di suo, ad una effettiva indipendenza che richiederebbe, però, una “protezione”. Anche perché per lo sfruttamento minerario è necessaria una rete di infrastrutture, stradali innanzitutto, che mancano quasi del tutto e che l’isola ancora non può pagarsi da sola.

Tornando a South Park, fa da contrappunto alla complessità del quadro reale – pieno di sfumature, doppi fondi, doppi e tripli standard,  giochi delle tre carte – la rozzezza efficace e inarrestabile delle Mothers Against Canada, sorelle del trumpiano popolo del Make America Great Again che si pasce, come in South Park, di fake news, mito del capo, culto del corpo del capo e – di nuovo lì si arriva –  caccia al nemico da costruirsi su misura scatenando “un gran casino” in cui anche i numeri, non solo le parole, si sparano a casaccio (o a scopo intimidatorio): il neosegretario della Nato, Mark Rutte, che teoricamente dovrebbe scegliere a quale alleato atlantico sparare, in caso di annessioni varie dal Canada all’Artico, è arrivato a ipotizzare un contributo dell’ 8% del Pil per gli alleati europei orbi degli Usa, roba che converrebbe arrendersi e consegnare direttamente le chiavi a qualunque invasore, magari più clemente di Rutte con lo stato sociale (che non gli è mai piaciuto, neppure da primo ministro olandese),

Fake news, sparate alla luna, pagliai in fiamme. Il cartoon ci dice profeticamente che slogan, caccia alle streghe e perdita di senso del reale portano su pessime strade. E, si parva licet componere magnis, anche il capo dello Stato Sergio Mattarella, ricevendo i segretari di legazione della Farnesina, ha ammonito da parte sua contro i rischi del ritorno della

“politica di potenza ottocentesca estranea ai tempi. C’è un evidente contrasto – ha voluto dire – con le esigenze del mondo che richiederebbero risposte comuni e condivise”.

Due secoli di civiltà giuridica, forgiata da due guerre mondiali ed un genocidio, sopraffatti dall’eterna legge della clava. E’ questa in fondo la decisiva posta in gioco annunciata dall’allora distopico futuro di South Park. Blame Canada, blame us.

Chiara GRAZIANI  Roma  19 Gennaio 2025