di Mario URSINO
L’Italia nella pittura romantica dell’Ottocento
Sebbene il termine “Romanticismo” non sia di conio italiano, perché, come sappiamo, deriva dall’inglese “romantic”, inteso quale espressione letteraria di storie fantastiche, immaginarie, ancorché ambientate storicamente (cfr. Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo, nella Letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1948), gli organizzatori della grande mostra Romanticismo a Milano [fig. 1], alle Gallerie d’Italia, e al Museo Poldi Pezzoli (fino al 17 marzo 2019), hanno voluto usare questo suggestivo richiamo per illustrare (va detto, magnificamente) il secolo XIX, attraverso la pittura e la scultura di autori italiani e di autori stranieri che si trovavano a lavorare nel nostro paese. Assistiamo, in questo modo, alla rappresentazione di uno spaccato grandioso e differenziato di come erano gli italiani e l’Italia nell’Ottocento.
Dunque, anche a prescindere dall’indubbio interesse specificamente artistico della mostra, il visitatore può effettivamente farsi un’idea di come erano città e paesaggi italiani, vedute incantevoli delle nostre coste (non ancora sconvolte dalla cementificazione novecentesca), di come le persone vivevano, e si abbigliavano, di come ci si divertiva, ma pure di come ci si agitava nei moti risorgimentali, e di come ci si sentiva pii e devoti nelle descrizioni accurate di chiese e conventi, di come, soprattutto, ci si autorappresentava, non solo nelle effigi di personaggi famosi e di figure di condizione agiata, ma includendo anche le raffigurazioni dei costumi popolari e delle scene altrettanto popolaresche, di cui, a titolo di esempio, fu tanto prodiga la napoletana “Scuola di Posillipo”, con i suoi pittori italiani e artisti stranieri approdati nel Golfo di Napoli. Ecco, tutto questo, in sintesi, è la mostra Romanticismo, a cura di Fernando Mazzocca.
L’imponente esposizione sfiora e allinea circa duecento opere, fra pittura, scultura, e una serie di pressoché sconosciute raffinate miniature del pittore bresciano Giambattista Gigola (1767-1841), nella sezione II.V al Poldi Pezzoli; nelle precedenti partizioni di questo scrigno museale milanese, si articolano tematicamente alcune sale: la prima L’immagine dell’artista. Ritratti e Autoritratti, di Tommaso Minardi, Francesco Hayez, Giuseppe Molteni, Giuseppe Tomiz, Angelo Inganni, Natale Schiavoni, Mariano Guardabassi, Alessandro Guardassoni; nella seconda, Dante e personaggi della Commedia, di Giuseppe Bossi, Vitale Sala, Giuseppe Luigi Poli, Giuseppe Diotti, Giuseppe Bertini, Eliseo Sala; la terza sezione, Vita e celebrazione degli uomini illustri, di Francesco Podesti, Franz Ludwig Catel, Francesco Gandolfi, Andrea Appiani, Luigi Mussini, Enrico Scuri; la quarta sezione (tema davvero centrale), Il 1848. La Rivoluzione, con opere di Carlo Canella, Baldassarre Verazzi, Carlo Bossoli, Luigi Quarena, Ippolito Caffi, Giuseppe Molteni, una scultura di Giovanni Strazza, ed infine, di
Gerolamo Induno (1825-1890), il dipinto di una dolcissima, commovente Trasteverina colpita da una bomba, 1850, olio su tela, cm.114 x 158 (in cat. n.177, fig. 2*), una raffigurazione al naturale della sfortunata giovanetta, vittima innocente dei moti rivoluzionari; quest’opera è stata uno dei migliori acquisti degli ultimi anni per le collezioni dell’Ottocento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma. Già di per sé, codesta esemplare appendice della mostra Romanticismo al Museo Poldi Pezzoli ci illustra i grandi temi dell’arte nel corso dell’Ottocento, con i suoi ideali, le sue aspirazioni e le lotte rivoluzionarie per l’Italia libera, il culto, persino simbolico, per Dante Alighieri, e la evocazione in effige degli uomini illustri della storia dell’arte italiana, dal Petrarca a Leonardo, a Raffaello al Tasso; e gli artisti stessi, quali protagonisti di auto-rappresentazioni negli studi, o nel loro ambito familiare.
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Maggiore impegno richiede la visita alle Gallerie d’Italia. Infatti, se al Poldi Pezzoli, come abbiamo visto, le sezioni sono cinque, nei prestigiosi spazi espositivi di Intesa San Paolo, la mostra Romanticismo è suddivisa in sedici sezioni, nelle quali sono illustrati circostanziati temi che affrontano, con ampio respiro, come gli artisti si pongono innanzi alla natura di un’Italia ancora atta a suscitare sensazioni romantiche e di sublime (nel nord del nostro paese), secondo il concetto kantiano, ovvero quando qualcosa si presta alla”presentazione di una sublimità che si può cogliere nel nostro animo” (Cfr Critica del giudizio); in questo senso, mi è parso infatti più che significativa l’apertura in catalogo con l’opera di Caspar David Friedrich (1774-1840), Luna nascente sul mare, 1821 [fig. 3], San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage; e sempre a proposito di sublime non meno interessanti sono le opere del pittore torinese, Giovanni Battista De Gubernatis (1774-1837), col tenero acquerello che appare come la dimensione di un sogno nel
Paesaggio nella bufera con castello a quattro torri e grande trifora sovrastante il portale, 1803 [fig. 4], Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea; e così ancora nei dipinti di Giuseppe Pietro Bagetti (1764- 1831), come la famosa La Sacra di San Michele, 1825-1830 [fig. 5], Torino, Palazzo Reale; questo celebre eremo il pittore lo
presenta come un fantasma in cima a un colle arborato nell’ora crepuscolare, mentre il d’Azeglio lo raffigura diversamente nella sua La Sacra di San Michele vista da mezzogiorno, 1827-1831 [fig. 6], coll. priv.: il santuario e la collina infatti sono avvolti in una calda, dorata luce romantica. Insomma, la natura, sublime o romantica che sia, del paesaggio italiano continua a snodarsi nelle opere del Bassi, del Basiletti, fino a Jean-Baptist Corot (1796- 1875) che, a mio modesto avviso, anticipa i morbidi colori tonali della nostra italianissima “Scuola Romana”: si veda, a riguardo, La campagna romana con l’acquedotto dell’Acqua Claudia, 1826 [fig. 7], Londra, National Gallery
(come non pensare alle tinte dei Francalancia e dei Trombadori, per esempio?). E ancora, non mancano paesaggi di affascinanti “notturni”, nella sezione appunto denominata Lo stupore della notte, con un emblematico e incantevole dipinto del napoletano Salvatore Fergola (1799-1874), Notturno a Capri, 1843ca. [fig. 8], Napoli, Museo di Capodimonte.
Scrive, a proposito Mazzocca:
“E’ sempre la luce della luna a rischiarare e a dare una nuova suggestione ai notturni delle località più amate dai viaggiatori e predilette da pittori italiani e stranieri, come Venezia e le località del Golfo di Napoli.” (cat. p.148);
e la luna compare infatti anche in dipinti del Bagetti e del viennese Joseph Rebell (1787-1828), pittore affine alla “Scuola di Posillipo”, con la sua tenebrosa veduta col Vesuvio in fiamme sullo sfondo, in Burrasca al chiaro di luna nel Golfo di Napoli, 1822 [fig. 9], Parma, Galleria Nazionale.
Il paesaggio continua a fare da protagonista laddove lo scenario della natura include
soggetti mitologici e storici, ma sinceramente mi sembra alquanto strano, e mi fa persino sorridere, vedere in apertura di codesta sezione di Domenico Induno (1815-1878) il Ritratto del poeta Aleardo Aleardi, 1850 [fig. 10], coll. Sperone; l’Aleardi, come sappiamo, fu autore di canti e di idilli sentimentali in un romanticismo di maniera, è qui raffigurato seduto su una roccia a picco su un mare banalmente ondoso, con il volto appoggiato alla mano sinistra, e un’espressione che più stupida non potrebbe essere. (L’avrà fatto apposta il Domenico Induno, in un momento di ironica perfidia? Chissà).
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La mostra prosegue poi dagli scenari della natura a quelli urbani con le sue architetture. Spiccano qui, per eccellenza, di Luigi Bisi (1814-1886), Il coro di Brou con monumenti di Filiberto duca di Savoia, di Margherita d’Austria e di Margherita di Borbone,
1842 [fig. 11], coll. Litta, in una monumentale, grandiosa prospettiva, descritta con un sapiente gioco di luci e di ombre a dare rilievo alla minuziosa architettura gotica “fiammeggiante” del mausoleo (va ricordato che proprio nell’Ottocento romantico il “gotico” veniva riscoperto con interesse); inoltre, sono degne di nota le piccole figurine di devoti, si direbbero miniate nella loro precisione, che contribuiscono ad esaltare la vastità della storica chiesa di San Nicola da Tolentino. Stesso effetto, ma in tono meno grandioso, è ravvisabile nel dipinto di Giovanni Migliara (1765-1837), Veduta dall’interno dell’Abbazia di Altacomba, 1833 [fig. 12], Milano, coll. Cariplo;
da questi interni di celebri monumenti religiosi, nella medesima sezione, ci troviamo davanti ad uno scorcio cittadino della più famosa piazza meneghina, assai diversa da quella odierna: il pittore bresciano Angelo Inganni (1807-1880) coglie, si direbbe quasi fotograficamente, una Veduta della piazza del Duomo dal Coperto dei Figini, 1838 [fig. 13], Milano, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio;
l’angolare, prospettica, inusitata veduta brulica di figure a passeggio, di venditori ambulanti, di mendicanti, di piccoli cani e signore cuffiate con bambini, e gentiluomini in tuba; ma si vedono anche operai al lavoro nella porzione del porticato dei Figini, sostenuto da colonne piene di disordinate affissioni con immaginette pubblicitarie di un teatrino popolare di burattini; di fronte, in secondo piano, rispetto al portico, svetta una parte dell’architettura laterale del più famoso duomo italiano.
Basterebbe solo questo dipinto a darci un’idea della vita cittadina quieta e molto animata, ancora lontana dai futuri moti risorgimentali quarantotteschi. Invece l’altra veduta dell’Inganni, del medesimo soggetto eseguita nel 1842, viene ripresa dall’artista dall’interno del Coperto dei Figini [fig. 14],
giocando fortemente fra l’ombra del porticato, anch’esso affollato e ingombro dei materiali di esercizi commerciali, e l’apertura sulla piazza che inonda con la sua luce le due figure femminili all’ingresso dell’arcata d’entrata; esse sono di diversa condizione sociale, a giudicare da quella che tiene per mano una bambina in evidente stato di trascuratezza. I due dipinti dell’Inganni, data la predilezione dell’artista a dipingere la celebre piazza milanese, ebbero grande successo già all’epoca delle loro prime esposizioni, come leggiamo nelle accurate schede bibliografiche e descrittive di Paola Segramora Rivolta. (cat. nn. 42-43).
Mi sono dilungato un po’ su queste tranche de vie della città italiana più evoluta dell’epoca (allora come oggi), proprio per sottolineare l’aspetto di una quotidianità dell’Ottocento “romantico” a Milano, e certamente, con le dovute differenze, anche in altre città della penisola, quali Venezia, Firenze, Roma, Napoli, dove la declinazione del romanticismo assume però caratteristiche diverse. Mi sono chiesto infatti, soprattutto esaminando la pittura della napoletana “Scuola di Posillipo”, illustrata con dovizia in numerosi pregevoli dipinti a partire da Turner a Carelli, a Fergola a Catel a Duclère, Vervloet, Smargiassi, La Volpe, Gotzloff, Ščedrin, e naturalmente dai grandi maestri che hanno dato inizio a questa fortunatissima “scuola”, come Anton Sminck Pitloo e Giacinto Gigante; mi sono chiesto, dicevo, se le opere di costoro abbiano davvero posto nel filone della pittura cosiddetta romantica. La domanda non è retorica, come potrebbe giustamente essere considerata, ma devo premettere che non c’è bisogno di spiegare al lettore la bellezza e l’attrattiva delle vedute del Golfo di Napoli, della costiera sorrentina, di quella amalfitana, delle affascinanti, un po’ misteriose e rustiche immagini di Cava de’ Tirreni, località molto amata dal Gigante e dai suoi epigoni; nella mostra e nel catalogo è puntuale la sezione curata da Luisa Martorelli che dà ampio rilievo all’importanza di questa scuola napoletana nota in Italia e all’estero. Mi è sembrato, quindi, proprio in questa occasione, opportuno riflettere, se in questa vasta esposizione, le opere di codesti autori possano essere considerate davvero “romantiche”. Mi permetto di dire questo, non certo per sminuirne il fascino e il valore, ci mancherebbe, ma perché le ho studiate da lunga data, ed esse mi appaiono adesso in una luce diversa dalla prospettiva romantica, che è il tema centrale della mostra. Con ciò voglio dire che in Campania, a mio avviso, non aleggia fortemente lo spirito propriamente romantico del nord, e gli artisti che la hanno raffigurata, come quelli sopra indicati, sono inevitabilmente avvolti e condizionati da un paesaggio che poco concede alla immaginazione fantastica, sublime del romanticismo in senso proprio, come abbiamo visto nelle opere di un Bagetti, del De Gubernatis, del Basiletti (citati più sopra); i paesisti napoletani e stranieri sono condizionati da albe e tramonti su temi popolareschi nella dolce, svagata malinconia dell’ora dorata e rosata sul golfo e sulle rive, spesso affollate dal popolino che indugia, commercia, chiacchiera, affolla il teatrino dei burattini nel tempo che scorre verso la sera. Emblematico, tra le opere esposte in questa sezione, è La Marinella, 1840, Napoli, coll. priv. [fig. 15] di Giacinto Gigante,
che come sappiamo, dipingeva luoghi e paesaggi con immancabile precisione topografica, come nella Napoli vista dalla Conocchia, 1844 [fig. 16], Napoli, coll. priv.,
dipinti molto spesso con annotazioni scritte (cosa inconcepibile nelle rappresentazioni del paesaggio sublime). In sostanza, e per non tediare il lettore, voglio semplicemente dire che il “romanticismo” è un sentimento essenzialmente e storicamente nordico (da noi si arresta nell’area piemontese-lombarda). E, come ho fatto cenno all’inizio di questa nota, il romanticismo non è dello spirito italiano, e se ha potuto raggiungere talvolta anche il mediterraneo, lo ha fatto attraversando i Balcani, per arrivare alla penisola ellenica e oltre, ma non in quella italica, come sostenevano nei loro scritti i fratelli de Chirico, che furono in adolescenza stupiti testimoni e artisti in pectore, osservando la Grecia antica di fine Ottocento, ancora intrisa degli arcaici riti e miti cari al sentire romantico degli artisti e dei poeti stranieri che scendevano al sud dal nord Europa.
Ha scritto Alberto Savinio in questa curiosa metafora:
“…le correnti del romanticismo seguono in Europa l’itinerario delle cicogne. Nei loro viaggi periodici dall’Europa all’Africa e viceversa, le cicogne traversano la Francia da una parte e la penisola balcanica dall’altra, ma non sorvolano affatto l’Italia, o la sorvolano in numero molto ristretto.”
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Non ho detto finora che della metà della mostra; e il suo prosieguo conferma che l’aura romantica si promana essenzialmente in area lombarda; nella sezione dedicata al Manzoni e ai suoi personaggi più noti si veda di Eliseo Sala (1813-1879), Lucia Mondella che guarda dalla finestra se ritorna il fidanzato nel giorno stabilito per le nozze, 1843, coll. priv. [fig. 17] (mai titolo di un’opera fu più didascalico); né poteva mancare di Giuseppe Molteni (1880-1867), La Signora di Monza, 1847, Pavia Musei Civici [fig. 18]; la religiosa è inquadrata, seduta e composta nella sua stanza; la luce inonda il suo volto in meditazione che non esclude una sensuale attrattiva, ed è per questo che non guarda dalla parte del Crocifisso; una rosa in lieve appassimento è poggiata sul libro delle preghiere chiuso e bloccato dall’elegante fermaglio. Molteni non poteva esprimere meglio il dramma della donna non vocata alla clausura monastica. Hayez poi ci ha lasciato un potente Ritratto dell’Innominato, 1845c., coll. priv. [fig. 19], nella piena, aristocratica fierezza della posa.
Anche le successive partizioni della mostra parlano lombardo nelle diverse sequenze, tra grandiosi ritratti, scene di conversazione, e dipinti di nudo, di cui sempre Hayez ne dà un conturbante esempio con il (fino ad ora inedito e, a mio avviso, stranamente courbettiano), Modella in riposo, 1850-1860, coll. priv. [fig. 20].
Va segnalata infine la sezione che integra con maestria i temi della pittura con la scultura, in confronti sempre calzanti, e ben studiati nella sezione La svolta romantica nella scultura, dove primeggiano il Tenerani e il Bartolini.
Mario URSINO Milano Gennaio 2019