di Francesca SARACENO
“L’ambiente in cui oggi viviamo è pieno di linguaggi che non comprendiamo: linguaggi che riguardano il mondo dell’economia, della tecnologia, dell’arte, della politica, della scienza ecc. La difficoltà, molto spesso, non è nei concetti, ma nel modo in cui sono espressi. […] La divulgazione deve infatti fare i conti con questi due problemi, che richiedono competenza e immaginazione: cioè da un lato comprendere nel modo giusto le cose, interpretandole adeguatamente per trasferirle in un diverso linguaggio; dall’altro essere non solo chiari ma anche non-noiosi, pur mantenendo integro il messaggio […]” [1]
Era solo il 1982, i social ancora non esistevano, ma si cominciava ad affermare la comunicazione generalista, e già un gigante come Piero Angela (fig. 1, Torino 22/12/1928 – Roma 13/08/2022) aveva individuato i problemi principali della divulgazione: “competenza e immaginazione”. Perché la parola divulgazione non va intesa esclusivamente come “trasmissione di contenuti” ma va inserita in un contesto ben preciso, dove avviene un interscambio tra chi trasmette quei contenuti e chi li riceve. Divulgazione si fa ovunque si comunichi qualcosa, e ovunque vi sia qualcuno che recepisce – ascoltando o leggendo – ciò che viene comunicato. La differenza, spesso, la fa il contesto; perché da esso dipende l’uditorio e dunque l’operato del divulgatore.
Divulgazione fa l’insegnante, che trasmette le conoscenze relative alla propria materia di insegnamento agli alunni. Divulgazione fa il giornalista, che scrive o registra un report, un fatto accaduto, una qualsiasi notizia per la propria testata, della quale il pubblico verrà a conoscenza. Divulgazione fanno certi operatori della comunicazione che entrano nelle case delle persone dagli schermi televisivi o dagli smartphone, dalle pagine di libri o riviste, o ancora da svariati blog o siti internet, a cui può accedere praticamente chiunque. Divulgazione, infine, fa anche l’individuo qualsiasi che riporta nel proprio ambiente familiare, o di lavoro, o sui social, notizie reperite qua e là un po’ ovunque, il più delle volte senza alcuna verifica e spesso senza avere ben chiaro cosa esattamente stia riportando.
Ecco, per comprendere qualità e metodo dei contenuti divulgati da ciascuna di queste categorie di comunicatori è necessario valutare a chi – nello specifico – essi si rivolgono, e quale obbiettivo si prefiggono. L’insegnante, ad esempio, ha davanti ragazzi che deve istruire e preparare a “stare” nel mondo con coscienza e consapevolezza; pertanto il suo obbiettivo non è solo che essi acquisiscano nozioni e competenze specifiche, ma che siano anche e soprattutto capaci di discernere, di valutare, di “pensare” con la propria testa; questo si ottiene anzitutto facendo in modo che essi vedano la “lezione” scolastica come un’attività stimolante, interessante, un’alternativa “superiore” alla costante presenza sui social. Impresa ardua ma non impossibile; dipende dal metodo comunicativo dell’insegnante che, qualora si rivelasse deficitario, si può sempre migliorare. E in tal senso, ad esempio, ritengo che togliere ai ragazzi il telefono durante le ore scolastiche senza fornire un’alternativa più allettante, non è certo una misura efficace, meno che mai “risolutiva”.
Il giornalista, in teoria dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere il divulgatore più imparziale e attendibile, avendo egli come prerogativa deontologica professionale, l’impersonalità della comunicazione, ovvero raccontare “i fatti”. Tuttavia il giornalista si rivolge a un pubblico certamente ampio ma non così variegato, perché i lettori o ascoltatori della testata per cui lavora spesso sono abbastanza ben definiti: seguono quella testata perché sanno di trovarci contenuti di un certo tipo che incontrano il loro interesse. Dunque il giornalista di quella particolare testata avrà come obbiettivo anche quello di non deludere le aspettative dei propri lettori/ascoltatori. Il che parzializza il valore dell’informazione e renderebbe opportuno, da parte dell’utente, leggere o ascoltare anche altre “voci”, per poi valutare la correttezza delle informazioni acquisite. Il divulgatore ad ampio raggio, scientifico o culturale che sia, ha davanti a sé la platea più vasta e composita che si possa immaginare. E anche la più “distratta”, quando non addirittura ignorante (termine da leggersi non in senso dispregiativo, ma nel suo significato etimologico, ovvero “colui che ignora”).
Ebbene, Piero Angela giustamente individuava nei contenuti e nella metodologia di trasmissione degli stessi, i due problemi fondamentali del divulgatore: cosa divulgare e come divulgarlo. Soprattutto quando il recettore è un pubblico estremamente eterogeneo, quasi sempre poco informato e – a volte – ancor meno interessato. L’imperativo, in questo senso, è: catalizzare l’attenzione. Fare in modo che anche il più distratto e disinteressato utente “di passaggio” venga attratto e si disponga all’ascolto o alla lettura. Questo risulta abbastanza semplice quando si tratta di gossip, di spettacolo, cronaca mondana ma anche cronaca nera. Sono tutte tematiche che, per loro stessa natura, sollecitano la curiosità e dunque l’interesse del pubblico, il quale è istintivamente disposto alla ricezione di questo genere di informazioni. Non così, invece, per la storia, le scienze e la cultura in generale; materie che inducono inconsciamente un’infausta equazione: difficile = noioso.
Eppure in una società moderna e globalizzata la diffusione delle conoscenze nei più disparati ambiti del sapere, anche quelli meno “attrattivi” in quanto percepiti come ostici, è più che mai necessaria proprio presso quella fascia enorme di pubblico non informato: anzitutto perché l’accesso al sapere è un diritto costituzionale da perseguire con ogni mezzo, poiché costituisce elemento primario nella formazione completa dell’individuo; e poi perché l’assimilazione di questo genere di informazioni può influire fattivamente sulla qualità della vita delle persone e sulla loro interazione nella società.
Ciò è tanto più importante oggi, nell’era della comunicazione di massa sui social, dove ciascun individuo reclama ed esercita il proprio diritto a esprimersi e interagire liberamente su qualunque argomento o questione si ponga alla sua attenzione. Mai come in questo caso è fondamentale, anzitutto, che la qualità dei contenuti divulgati non venga “sacrificata” in favore dell’attrattiva, e della semplificazione estrema che la favorisce. Peraltro verrebbe da chiedersi perché mai il sapere (in generale) debba essere reso “attraente”. Forse perché esso soffre un retaggio antico, quello dell’impegno scolastico che – nell’immaginario giovanile, ma non solo – sottrae tempo ed energie ad attività più gradevoli e, soprattutto in certe materie, non viene percepito come realmente “utile” nella vita di tutti i giorni; si associa l’idea della conoscenza a qualcosa di noioso, di faticoso, o addirittura fuori portata rispetto alle reali possibilità di comprensione da parte dei soggetti interessati. Dunque, rendere facile e gradevole l’acquisizione di contenuti impegnativi è elemento indubbiamente necessario a far sì che l’utente si predisponga alla ricezione; perché questa comunque avviene, a prescindere dal tipo di notizia e dal metodo con cui è stata trasmessa. Il rischio è che essa venga mal recepita, o male interpretata e – di conseguenza – mal riportata, e che a causa di ciò, dilaghi la disinformazione o peggio, la cattiva informazione. Con tutte le implicazioni del caso che, lungi dal restare un fatto “virtuale”, si ripercuotono con conseguenze devastanti nella vita reale. Tre anni di pandemia, e di lotte tra scienziati e “tuttologi”, dovrebbero averci insegnato qualcosa…
Ecco perché sarebbe fondamentale anzitutto, qualunque sia il contenuto che si intenda divulgare, che esso abbia solide basi di attendibilità e che sia correttamente – prima ancora che “semplicemente” – riportato. Sul divulgatore grava l’enorme responsabilità di veicolare informazioni che incidono fattivamente sulla formazione culturale del soggetto che le riceve e sulle sue interazioni interpersonali successive. Dunque diffondere notizie non verificate, parziali, decontestualizzate, se non addirittura false, pur di “attrarre” l’attenzione di un pubblico frettoloso, o addirittura orientarne il pensiero, è una “colpa” della quale il divulgatore serio e coscienzioso non dovrebbe mai macchiarsi; tanto meno sui social, ma neanche su altri canali, dove egli spesso costituisce – di fatto – solo un volto e una voce prestati alla divulgazione, mentre i contenuti vengono selezionati e predisposti da un apposito team di autori. Il pubblico non sa “chi ha deciso cosa”; semplicemente “si fida” di chi parla o scrive. Se poi il divulgatore gode grande fama in quanto personaggio di successo, la sua responsabilità è ancora maggiore perché, paradossalmente, l’utente tende a misurare l’attendibilità di una notizia dalla “celebrità” – ovvero ampia affermazione professionale – di chi la diffonde. Ma Piero Angela aveva purtroppo ragione nel ravvisare la necessità di rendere il sapere accessibile, ed è quindi opportuno che la divulgazione trasversale e ad ampio raggio venga realizzata attraverso una forma di comunicazione adeguatamente sintetica e che risulti facilmente comprensibile; questo, però, senza che ne patiscano la qualità e la funzione “sociale” dell’informazione.
Nel mare magnum del sapere l’ambito dell’arte è uno di quelli che, negli ultimi anni, sta riscuotendo maggiore attenzione. Il che – diciamolo subito – è un fatto assolutamente positivo. La bellezza – va da sé – costituisce fattore d’attrazione per sua stessa natura, e l’incremento delle visite alle maggiori città d’arte e ai siti museali ne è la prova inconfutabile. L’attività di promozione e marketing avviata negli ultimi anni dagli operatori di settore ha visto affermarsi anche strategie – per così dire – “atipiche” ma evidentemente di successo. Si prestano sale prestigiose per girare video musicali, si organizzano mostre che mirano a far dialogare i linguaggi espressivi più diversi e lontani nel tempo. Ultimamente è sempre più in uso il “prestito” di opere di altissimo valore per eventi di vario genere, come sfilate di moda o manifestazioni enogastronomiche, nonché la collocazione temporanea in contesti diciamo “insoliti” (un esempio per tutti, il Salvator Mundi attribuito a Gian Lorenzo Bernini, esposto per quasi cinque mesi in una teca all’aeroporto di Fiumicino e da poco ricollocato nella sua sede consueta nella Basilica di San Sebastiano fuori le Mura a Roma, fig. 2).
Ma quelle che sembrano dare i maggiori frutti sono strategie in qualche modo mutuate dagli ambiti commerciali, dove sempre più spesso per promuovere un prodotto o un bene di consumo, si ricorre al “volto noto”.
Ed ecco che alcuni siti museali si avvalgono della popolarità di personaggi famosi del mondo dello spettacolo o dei cosiddetti “influencer” piazzati davanti a opere celeberrime (fig. 3); non tanto e non solo per promuovere l’offerta museale in sé (che il più delle volte non ha bisogno di “pubblicità”), ma per sfruttare quella tendenza innata – e più spesso indotta – nel pubblico, all’emulazione del personaggio di successo. Ciascuno secondo la propria sensibilità e attitudine, ne assimila idee, comportamenti, modo di vestire, ecc. e quindi è anche spinto a recarsi in quei luoghi che il personaggio famoso mostra di frequentare. L’emulazione diventa un fatto di “moda”; manifesta uno status di appartenenza che in un certo senso identifica l’emulatore e ne esalta l’autostima.
Ora: questo meccanismo apparentemente subdolo, e se vogliamo anche un tantino svilente nei confronti di un pubblico ridotto quasi a un “burattino”, avrebbe in realtà delle potenzialità enormi in termini di apprezzamento delle opere e assimilazione di nuove conoscenze.
Uso il condizionale non a caso; poiché se l’emulazione si ferma alla mera ripetizione di un comportamento ritenuto “cool” che può aumentare la popolarità presso il proprio ambito sociale, allora il risultato che si ottiene è solo di carattere economico per le casse degli enti museali, grazie all’incremento degli ingressi. E Dio non voglia che con ciò si consideri raggiunto l’obbiettivo (o peggio, che sia solo questo lo scopo che ci si prefigge). Fermarsi alla “speranza” che in virtù dell’emulazione sorga pure un reale interesse – o anche solo una maggiore curiosità – nei confronti dell’arte, è un limite che vanifica il raggiungimento di quello che dovrebbe essere invece il vero traguardo, ossia la conoscenza e l’educazione al valore delle opere come “beni culturali”. Gli effetti del mancato raggiungimento di questi obbiettivi, nel corso degli anni, si manifestano ultimamente sempre più spesso, anche nel continuo danneggiamento di monumenti e vari capolavori, percepiti solo come oggetti ludici e “di consumo”.
Ora, senza demonizzare le operazioni promozionali che pure servono, è chiaro che esse vanno quanto meno affiancate da altre attività più strettamente “formative”, destinate al pubblico che si intende far affluire – numeroso – presso i luoghi d’arte. In questo senso diventano estremamente importanti le parole di James M. Bradburne, direttore generale uscente (è stato in carica fino a ieri, 30 settembre) della Pinacoteca e della Biblioteca Nazionale Braidense, il quale individua anche nel turismo di massa un elemento che (oltre a provocare danni al pianeta) impedisce la fruizione piena e consapevole della visita museale:
“Sogno di tornare al turismo che c’era prima del 1977 […] Il turismo di massa (inseguito lungamente da tanti direttori dei musei, che realizzavano grandi mostre per «pompare» i numeri dei visitatori) è colpevole di un reato di cui io non voglio essere complice. Non nego certo l’accesso al museo ma offro altro in cambio. Lotto contro il turismo disimpegnato, per creare un turismo preparato e consapevole, che arrivi in museo già informato. Non è obbligatorio che tutti visitino i musei, l’importante è che, chi lo fa, lo faccia consapevolmente. Il museo che intendo io non è un contenitore, una scatola di oggetti, ma un produttore di cultura. Intendo passare da un «museo sostantivo» a un «museo verbo»: qualcosa che crei cultura e faccia attività differenziate.”
Negli otto anni della sua direzione a Brera, Bradburne ha attivato una serie di attività funzionali allo scopo che si era prefisso, rivoluzionando l’allestimento museale, corredando le opere di particolari schede informative curate da grandi scrittori e artisti; ma, complice il periodo Covid, ha pensato di sfruttare di più e meglio anche le potenzialità del digitale, attraverso una piattaforma multimediale (BreraPlus), in modo che chiunque nel mondo potesse accedere, non solo per visionare le collezioni ma anche approfondimenti, documentari, film, concerti; e addirittura fornire la possibilità di interagire in tempo reale con altri utenti attraverso una chat. Un modo intelligente e moderno per favorire l’acquisizione e l’interscambio di informazioni e conoscenze, creando così i presupposti per una eventuale visita museale di certo meglio “motivata”, più gratificante e consapevole.
Un altro esempio di integrazione divulgativa è quello della direzione della Galleria degli Uffizi di Firenze, che – tra le altre cose – ha da tempo attivato il progetto “Uffizikids”, con cui si prefigge di supportare e ottimizzare la fruizione museale dei più piccoli, attraverso uno staff dedicato e attività on-site e online propedeutiche alla visita; dal sito della Galleria è possibile anche scaricare gratuitamente materiale informativo e didattico. Inoltre l’ente museale prevede un’offerta formativa specifica per le scuole di ogni ordine e grado.
Attività simili sono realizzate da diverse altre istituzioni museali, con lo scopo condiviso – più o meno efficacemente ottenuto – di incrementare l’interesse del pubblico verso il patrimonio artistico del Paese.
Dunque una serie di operazioni mirate, utili a un incontro più ricco e consapevole con il mondo dell’arte, è effettivamente già in atto, e possiamo solo sperare che cresca e si migliori.
Ma nel frattempo, non sarebbe una cattiva idea sfruttare le immense possibilità di diffusione dei social media i quali, per definizione, sono luoghi di interscambio di informazioni (e quindi di potenziale crescita comune) attraverso una comunicazione semplice e immediata; potrebbe essere preliminare – ma volendo anche consequenziale – alle visite ai musei, o alle mostre, o ai monumenti nelle città d’arte. Ed è un dato di fatto che i social siano effettivamente pieni di pagine dedicate e di gruppi in cui viene fatta divulgazione artistica, nonché di singoli utenti (chi scrive ne è un umile esempio) che individualmente si cimentano nella stessa attività. Ne deriva una mole di informazioni colossale e variegata che però spesso finisce per confondere più che informare.
Il problema vero è la qualità delle informazioni diffuse, ed essa dipende in gran parte dalla formazione di base del divulgatore, ovvero dalle sue reali conoscenze dell’argomento, ma anche da quelle dell’utente. Benché fattori potenzialmente fuorvianti, nell’attività di divulgazione sui social, siano anche: l’obbiettivo di raggiungere un numero sempre più elevato di “followers” e interazioni attraverso i cosiddetti “trend-topic”, ovvero i contenuti che suscitano maggiore curiosità e interesse nel pubblico, anche se questo comporta sacrificare la qualità o la stessa integrità delle informazioni, magari cavalcando l’onda consolidante del “già detto e risaputo”; e l’autoreferenzialità, “malattia” del nostro tempo fatta di ambizione e protagonismo.
E se fornire notizie in pillole “appetibili” passandole come certe è il metodo più efficace per assicurarsi una fetta di pubblico vastissima, al contrario, diffondere informazioni potenzialmente meno allettanti, difformi dalla narrazione convenzionale benché più circostanziate e corrette o comunque più realistiche, crea uno stato quasi di fastidio che il cervello umano percepisce come un fattore negativo. Studi di settore hanno rilevato che il tempo di lettura dei post, da parte dell’utente medio, non va oltre i sei-sette minuti. C’è come una sorta di rigetto nei confronti dell’informazione più “estesa” e strutturata, che necessita di una soglia di attenzione maggiore di un certo limite; se poi quell’informazione propone una visione alternativa a quella corrente, se impone una riflessione di fondo o suscita un dubbio, nonostante rimanga “nei tempi”, l’utente per reazione naturale “passa oltre”. Il dubbio è per sua natura destabilizzante e dunque potenzialmente inefficace al fine di consolidare interesse, attenzione e consensi.
Ne sanno qualcosa operatori di settore direttamente impegnati nella divulgazione artistica, ovvero le guide turistiche, alle prese ogni giorno con gruppi eterogenei di persone che però hanno in comune l’aver “scelto” e programmato una visita a monumenti o siti museali; il che presuppone – se non una conoscenza di base – quanto meno un interesse di fondo, più o meno intenso, che fa di quel gruppo un uditorio verosimilmente più attento. Ciò imporrebbe, da parte della guida, una preparazione adeguata; sia nei contenuti da esporre sia nella metodologia di esposizione degli stessi. Le guide dovrebbero incarnare – di fatto – quella sintesi virtuosa auspicata da Piero Angela tra “competenza e immaginazione”. Dovrebbero cioè, essere in grado di catalizzare l’attenzione del gruppo da grandi affabulatori, fornendo al contempo informazioni e notizie di alto spessore culturale in maniera semplice e sintetica; anche perché spesso si trovano a rispondere a domande e considerazioni particolari (non sempre banali) da parte dei visitatori, e sarebbe auspicabile che fossero in grado di rispondere in modo esauriente. Compito non facile in cui pochi riescono; poiché la qualità dei contenuti espressi dipende dal bagaglio di conoscenze delle guide, le quali dovrebbero sentire come un dovere deontologico lo studio e l’aggiornamento costanti.
E poi dovrebbero possedere quella capacità innata (ma volendo anche acquisibile) di tenere un eloquio accattivante che mantenga viva l’attenzione per tutto (o quasi) il tempo della visita. Invece, non di rado (chi scrive ne è stata testimone personalmente), accade che l’esposizione della guida turistica si dimostri frettolosa e meccanica. Inoltre capita che la guida stessa (come e più dei visitatori) sia infarcita delle stesse stringate, parziali e spesso fallaci nozioni facilmente reperibili su testi di larga diffusione e ovunque nel web che, opportunamente infiocchettate, riescono a catalizzare l’attenzione, ma non rendono certo un buon servizio; poiché, oltre a prodursi in molti casi scientemente, secondo la stessa logica “attrattiva” della comunicazione massmediatica, esse disattendono l’auspicata correttezza nella divulgazione culturale che dovrebbe essere il fondamento di ogni attività comunicativa.
Ma va detto che, se la comunicazione mediocre dilaga anche in ambito artistico, accade perché il più delle volte non ha una “controparte”. Infatti laddove si potrebbe, non si opera un’ampia e costante attività divulgativa da parte di chi davvero avrebbe competenza e “autorità” per farla, contrastando così gli effetti nefasti della disinformazione. I primi custodi del sapere sono gli studiosi, i quali però raramente condividono con il cosiddetto “grande pubblico” i preziosi contenuti del loro lavoro. Pochissime le eccezioni, che pure ci sono, e alle quali va tributata la più sincera gratitudine. Saggi, studi, analisi tecniche e critiche restano troppo spesso riservati a una ristretta “élite”; difficili da reperire, diffusi su costose pubblicazioni editoriali o su riviste scientifiche di settore a tiratura limitata, della cui esistenza la maggioranza delle persone non è nemmeno a conoscenza, oppure sui cataloghi delle grandi mostre, spesso fuori produzione dopo un certo tempo. Non vengono diffusi sui canali di comunicazione degli enti museali, non vengono imposti nei corsi di aggiornamento degli insegnanti, né finiscono nei libri di testo scolastici, dove invece darebbero un contributo sostanziale alla formazione di cittadini, nonché fruitori d’arte, coscienti e consapevoli.
In un certo senso comprendo i motivi di questo “confino” elitario nel quale gli esperti spesso si trincerano; c’è forse il timore che il frutto di tanto studio “matto e disperatissimo” venga vanificato o svilito da una estrema sintetizzazione o dal pressapochismo. Ma se, come sostiene giustamente lo storico dell’arte Giacomo Montanari, “la conoscenza scientifica acquisita […] rimane ‘geloso segreto’ degli addetti ai lavori”[2], essa non sortirà mai l’effetto che tutti auspichiamo. Poter accedere più facilmente agli studi di settore, quelli seri e condotti con rigore storico e filologico, darebbe modo a molti operatori della comunicazione di offrire informazioni più ampie e circostanziate, e costringerebbe gli “opportunisti” quantomeno a confrontarsi con teorie molto meglio accreditate, se non con veri e propri fatti conclamati. Questo, presso il grande pubblico, avrebbe come primo effetto l’insinuazione del succitato dubbio ma – in questo caso – percepito come fattore positivo, potenzialmente efficace nel preservare l’utente dall’eventuale informazione fallace.
É proprio attraverso il dubbio che si induce il ragionamento. E il ragionamento conduce alla ricerca. La ricerca allarga l’orizzonte della conoscenza e porta, naturalmente, al pensiero critico e dunque alla capacità di discernere, nonché alla consapevolezza profonda del valore comunitario di ciò che viene definito “bene culturale”.
La capacità di pensare in maniera critica è ciò che manca davvero oggi, a tutti i livelli; si agisce senza riflettere e per le ragioni più sbagliate, si preferisce di gran lunga una verità preconfezionata, facile da ottenere e da comprendere, che non implichi alcuno sforzo cognitivo o interpretativo, e che consolidi le nostre certezze. Jacopo Veneziani (fig.4), giovane storico dell’arte e valente divulgatore dei nostri giorni, qualche tempo fa così si esprimeva:
“Il grande Beniamino Placido ripeteva spesso: ‘La divulgazione è un modo non per saziare, ma per affamare’. Quando parlo di un’opera d’arte sui social network cerco di non dimenticare queste parole. Provo sempre a trasformare l’opera e ciò che dico di essa in trampolini da cui chi mi legge o ascolta possa tuffarsi in modo autonomo per effettuare ulteriori approfondimenti. Sono rigoroso, sì, ma non pretendo di essere esaustivo. Non perdo mai di vista l’accuratezza scientifica – i miei tweet, ad esempio, non sono mai scritti di getto – ma mi limito a comunicare pochi concetti essenziali. Insomma, cerco di semplificare senza banalizzare e spero così facendo di stimolare la curiosità altrui”.[3]
Dunque, si può essere rigorosi senza pretese e si può semplificare senza banalizzare; “volere è potere”.
Alla luce di ciò, davvero possiamo continuare a tollerare, indifferenti, lo stato di prostrazione in cui versa la cultura nel nostro paese, o il continuo vilipendio di opere d’arte, come se non avesse alcun peso nelle nostre vite? Davvero possiamo permetterci – in questo particolare momento storico, ma direi in generale – di accontentarci di informazioni posticce, imbellettate, parziali, o rimarcare all’infinito ciò che è accettato per convenzione, solo per assecondare quell’atavico bisogno di “stabilità” che ci esonera e ci assolve dalla non-conoscenza? Perché se questa fosse realmente la “democratica” volontà della maggioranza, allora sarebbe inutile perfino auspicare quella “rivoluzione” del sistema scolastico che costituirebbe – di fatto – la sola garanzia per le generazioni future di imparare, e usare, il pensiero critico come arma di difesa contro un sistema sociale fondato sull’approssimazione “a scopo di lucro”, non solo economico.
Formare futuri insegnanti, giornalisti e divulgatori a questo scopo, vuol dire cominciare da subito – direi dalla culla – ad allenare bambini e ragazzi al raziocinio, alla ricerca, alla valutazione; educarli alla “verità” come valore imprescindibile da perseguire in ogni ambito della vita; abituarli a non demonizzare i “perché”, i “forse”, i “probabilmente”, ma a considerarli punti di partenza verso nuove e più certe acquisizioni. Ma per far questo serve anzitutto una presa di coscienza collettiva e progressiva del fatto che una società “sana” non si produce “gratis”, ovvero senza sforzo di intelletto, di volontà e di impegno. Una società sana non può prescindere da un’etica dell’informazione così come dalla capacità di “leggere” in maniera critica la realtà che la circonda.
È il solo modo per vivere con pienezza ogni aspetto dell’esistenza, per vivere con coscienza e cognizione la bellezza della natura, dell’arte, della scienza, della letteratura, l’immensa meraviglia del sapere.
Sogno? Utopia? Forse. E sia benedetto il “forse”, che se non altro ci lascia uno spiraglio di speranza.
“Venca dunque la perseveranza; per che, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte cose preziose son poste nel difficile.”[4]
©Francesca Saraceno Catania 1 Ottobre 2023
NOTE