Il senso sell’esistenza nei libri di Franco Campegiani intervistato da Silvana Lazzarino

di Silvana LAZZARINO

INTERVISTA A FRANCO CAMPEGIANI SCRITTORE, POETA E CRITICO D’ARTE

Come   può   rapportarsi  l’individuo   in   armonia   nei   confronti   della   vita e  dell’universo   stesso? Come conciliare la sua unicità e la molteplicità che lo circonda? Come considerare il modo con cui egli oggi si rapporta alla complessità di un’esistenza in costante   trasformazione dove si   avverte  sempre  più  una profonda solitudine dettata dalla difficoltà nel costruire rapporti autentici e trovare il vero senso di questa vita? A questi interrogativi intende rispondere senza alcuna pretesa di giungere a definizioni assolute, il saggio del filosofo, poeta e critico d’arte Franco Campegiani: “RIBALTAMENTI” premiato in diversi concorsi letterari tra cui citiamo: il Primo posto al Premio “Mario Arpea” 2017 e il Premio Speciale Saggistica –Narrativa edita al Concorso letterario “Città di Pontremoli” (2017). Nel saggio “Ribaltamenti“ è mostrato come l’uomo si sia adattato nel corso delle epoche a cambiamenti culturali, sociali e ambientali   perdendo  di  vista  il  senso  ultimo  del  suo   essere   che   coincide   con  la riscoperta dell’autenticità delle proprie origini dove abitano i miti da cui ripartire per riappropriarsi della bellezza e armonia dell’esistenza. Franco Campegiani, partendo da una proiezione autocentrica con cui viene identificato l’uomo di oggi, guida il lettore verso una visione nuova dell’essere in questo mondo di cui recupera equilibrio e armonia n quanto parte di un tutto pur nella sua specificità.  Edito dalla David and Matthaus (2017) con prefazione di Nazario Pardini e postfazione a cura di Sandro Angelucci entrambi poeti, saggisti e critici letterari, il saggio filosofico aiuta ad entrare in contatto con il senso della vita cogliendo il punto di incontro tra inizio e fine verso la ciclicità della vita stessa.

INTERVISTA DI SILVANA LAZZARINO

D – Franco Campegiani, hai pubblicato diverse raccolte poetiche tutte di grande spessore per contenuto e profondità emotiva, dove si avverte l’amore per la terra e il cercare di avvicinare l’uomo a questa risorsa e dono, la Madre Terra  che rappresenta la vita. Tra le raccolte citiamo “L’ala e la gruccia” (1975),per le collane di Mario dell’Arco, “Selvaggio pallido 1956 (Carte Segrete, Rossi & Spera) con prefazione di Vito Riviello e disegni di Umberto Mastroianni, “Cielo amico 1959 (Ibiskos) in una collana inaugurata da Domenico Rea e“Canti tellurici”2000 (Sovera Multimedia). Emerge in diverse liriche la tua riflessione sul rapporto tra l’uomo la natura, il bisogno dell’uomo di infinito che si cela nella stessa natura e ancora la ricchezza della terra dono dato all’umanità da proteggere e rispettare. Un discorso profondo, il tuo, che mette in luce come l’individuo si stia oggi sempre più allontanando dagli aspetti autentici e profondi dell’esistenza trascinato verso effimere conquiste legate al potere e al successo che schiacciano quella parte più pura e sincera che ci appartiene. Cosa mi puoi dire a riguardo?

R.La natura che amo non ha nulla a che vedere con l’Arcadia e con le pastorellerie che hanno imperversato nelle storie letterarie, diffondendo l’immagine aristocratica del poeta sfaticato e mellifluo, comodamente sdraiato tra i fiori olezzanti di un prato e il cinguettar degli augelli, mentre osserva il pascolare di mandrie lontane e riposa il povero corpo stanco di oziare, ma ancor più lo spirito provato dal male di vivere (sic), in smidollata attesa della Musa. Della terra, io amo il fermento tellurico, il ribollimento creativo, l’energia prorompente ed infinita, l’intelligenza viva, illimitatamente creatrice. La terra che amo non ha alcunché di georgico, bucolico, virgiliano, ma è un’entità vulcanica e misterica, armoniosa in profondità, capace di rinnovare in continuazione la vita, la potenza creatrice delle origini, il guizzo inesauribile dell’iniziale big bang. Un rinnovamento perenne che si genera dall’annullamento, come la primavera dall’inverno e il giorno dalla notte. Un’armonia di contrari, un equilibrio crudo, scomodo, violento se vogliamo, da accettare possibilmente senza battere ciglio, come sa fare ogni essere del creato che non sia l’uomo.

D – Come e quando nasce il tuo interesse per la poesia?

R – La poesia non si sceglie, è lei che ci sceglie e non sappiamo perché. E’ un flusso misterioso cui si obbedisce, ovviamente con le dovute cautele e sorvegliando il processo con razionalità. Io non so se posso definirmi poeta, ma che di tanto in tanto tutto questo mi accada è una realtà. La mia prima passione, in età adolescenziale, è stata la pittura. Ero stregato dal colore, come ancora oggi lo sono, poi è subentrata la poesia, e successivamente la filosofia. Può sembrare un guazzabuglio, e forse lo è, ma è la pura e semplice realtà.

D – Trovi che la poesia sia uno dei canali privilegiati per affrontare tematiche e riflessioni legate all’esistenza?

R – Se così non fosse, la poesia, e con essa l’arte, sarebbe una semplice evasione dalla realtà. I pensatori classici hanno difatti creduto di poterla confinare  nella ricerca vanitosa e narcisistica del Bello, ma io non la penso così. Che ci siano aspetti ludici, nell’arte, è scontato, ma per poter giocare veramente occorre mettersi in gioco, ossia rischiare, fare sul serio. Non c’è nulla di più serio del gioco, e questo ogni bambino lo sa. Ovviamente, la poesia non è l’unico canale disponibile per affrontare tematiche e riflessioni esistenziali. Ogni branca dello scibile nasce e si sviluppa rispondendo a tali esigenze, ma alla radice di tutto c’è il mito (e dunque la poesia in forma privilegiata): quel mito che in nuce contiene ed anticipa lo scibile intero (arte, religione, filosofia, scienza, etc.) in formule elementari concentrate.  

D – Sei stato impegnato da sempre nella realizzazione di rassegne eventi culturali nazionali e internazionali svolti anche nella tua città Marino ai Castelli Romani e in qualità di critico d’arte hai scritto in merito a diversi artisti e per diverse esposizioni… Tra i primi appuntamenti culturali legati alle mostre d’arte quale quello di cui conservi un ricordo particolarmente piacevole?

Alba Gonzales

R – E’ vero, ho promosso in passato moltissimi eventi, sia artistici che letterari, e ho contribuito alla nascita di numerosi movimenti e cenacoli culturali. Li ricordo tutti con identico trasporto, ma oramai ho chiuso con questo attivismo culturale che finiva per togliere tempo ed energie a quello che per me conta di più: la scrittura creativa. Va da sé che si può essere creativi anche promuovendo eventi culturali, ma la scrittura è sempre stata, per me, la cosa più importante. Ed oggi, in età avanzata, sento di dovermi concentrare in modo sempre più esclusivo su questo tipo di attività.  

D – Alba Gonzales è tra le artiste che tu hai seguito con grande interesse in particolare quando lei era agli inizi. Mi riferisco alla Biennale della Pietra Città di Marino del 1978/’80. Cosa ti ha colpito di questa grande scultrice diventata negli anni un’artista tra le più affermate a livello internazionale?

R – Conobbi Alba Gonzales credo nel ’77, durante le fasi organizzative della prima edizione della Biennale della Pietra “Città di Marino”, cui lei partecipò. Di questo evento artistico, da me promosso per due edizioni, ma che non ebbe seguito per lo scarso interesse dell’ente pubblico, si parlò moltissimo nel mondo artistico a livello internazionale. A quei tempi non esisteva internet, ma la manifestazione ebbe una tale risonanza, che le richieste del bando di concorso giunsero in segreteria da ogni parte del mondo e continuarono a pervenire nel decennio successivo, a iniziativa archiviata, con inalterata regolarità. La Giuria, di cui era Presidente Fortunato Bellonzi, Segretario Generale della Quadriennale di Roma, si avvaleva di artisti e critici d’arte di primissimo piano, quali Lorenzo Guerrini, Cesare Vivaldi, Elio Filippo Accrocca, Mario dell’Arco, Giorgio Segato, Aldo Calò ed altri. La manifestazione consisteva in una mostra d’arte riservata a bozzetti di massimo 50 cm., realizzati in qualsiasi pietra esistente, e il bozzetto vincitore veniva realizzato in dimensioni monumentali con la pietra del luogo, il noto peperino (lapis albanus), per essere collocato in punti strategici della Città. Di Alba Gonzales mi colpì l’impianto classicheggiante e modernissimo a un tempo, con quella sua poetica legata agli archetipi della femminilità e della mediterraneità. 

D – Nelle sue sculture, figurative legate alla leggenda e al mito per parlare dell’uomo, Alba Gonzales fa anche riferimento a motivo degli opposti a partire dallo stesso individuo in cui convivono bene e male, materia e spirito, nel difficile tentativo di riconciliarli. Questo del mito e della necessità di trovare armonia tra gli opposti è un tema che tratti nel tuo recente romanzo che sta avendo molto successo: RIBALTAMENTI edito da “David and Matthaus”-Saggio dedicato all’esistenza in cui è fondamentale per superare la superficialità di oggi, il risveglio del pensiero prelogico proprio dello sciamano, del bambino che agisce con naturalezza e purezza senza sovrastrutture. Mi accenni a questo motivo del mito e della riconciliazione degli opposti quale via per recuperare quella parte autentica di sé che è sopita nell’uomo di oggi troppo preso dalla frenesia del successo e del potere dove la razionalità ha esaurito il proprio compito?

R – I miti più arcaici sono bifronti, sul modello dell’Araba fenice. Una complementarità, un’armonia di contrari, una relazionalità che sembra estranea alla cultura contemporanea malata di razionalismo e di pensiero univoco, dimentica di quel dialogo interiore, ben noto al pensiero prelogico del bambino e dello sciamano, dove tutto diviene conciliabile nella più feroce inconciliabilità: notte e giorno, primavera e inverno, morte e vita, bene e male, maschile e femminile, etc. Ecco perché del mito c’è estremo bisogno per superare l’impasse di una cultura omologata e stantia, naufragata nel Nulla e priva di entusiasmi, non più vogliosa di nuove avventure. Non sto parlando di mitologia ripetitiva e stanca, ma di mitopoiesi, di mito allo stato sorgivo. C’è bisogno di forti scosse per abbandonare la rotta del razionalismo imperante, che tutto divide, e tornare a navigare nelle acque arcigne e vivide dell’armonia dei contrari. Occorre dar corpo a una reinvenzione possente del senso della vita.

D – Sempre restando nell’atmosfera avvolgente di questo tuo libro cosa intendi per Autotrascendimento? E’ presente  in questa azione di autotrascendimento il canale per recuperare un autentico rapporto con sé e gli altri?

R – Se trascendere è oltrepassare i limiti, sta in quest’atto l’apertura degli orizzonti e la capacità di entrare in relazione con l’altro, chiunque esso sia. Occorre tuttavia comprendere che l’altro è innanzitutto l’altro che noi stessi siamo, dacché la prima relazione è quella dell’uomo con se stesso, con il suo doppio ultrafisico, con qualcosa di sé che sta fuori di sé. Se salta questo primo anello della catena relazionale, salta l’intera catena e l’uomo non riesce a stabilire relazioni autentiche.  

D – Sempre nel libro “Ribaltamenti” parli di “archè”. Mi ha colpito il commento di Roberto De Luca riguardo questo concetto e in particolare quando sottolinea che ” in noi vive ancora, e dobbiamo dire fortunatamente, l’essere archetipo che prima del pensiero razionale viveva in armonia con la natura, con l’universo intero, con la Madre Terra e con il Padre Cielo, con le piante e con gli animali e che, al pari dell’intelligenza appartenente alla sfera della ragione, usava l’intelligenza dello spirito”.  Da quando poi il lato razionale ha preso il sopravvento sull’essere archetipo l’individuo ha perso di vista la sua vera essenza. E’ questo il fulcro del tuo discorso?

R – Roberto De Luca ha colto nel segno. Gli archetipi, a mio parere, non sono le idee universali delle cose sensibili di cui parlava Platone, e neppure le immagini primordiali che Jung immagina depositate nell’inconscio collettivo. Mi sento più vicino a Socrate, che parlava di daimon, di spirito custode, quindi di intelligenza viva. L’avvento della dea Ragione comporta una messa in crisi di questo essere alare che ci vive dentro, ben noto al pensiero prelogico del bambino e dello sciamano che su di esso fondano il loro sapere. Avviando questo percorso critico, la ragione ha un indiscutibile ruolo positivo da svolgere, purché non esorbiti dai limiti del confronto confidenziale, pensando di poter artigliare una volta per tutte il mistero, o addirittura di poterlo eludere.  

D – Per uscire dalla condizione in cui oggi si trova l’uomo, volto al controllo di tutto e tutti tra potere, conquiste in diversi campi, denaro, sfruttamento di ogni risorsa naturale senza preoccuparsi del dopo, è necessario  guardare all’archetipo. “E’ alla sfera dell’archetipo” come afferma sempre nel suo commento Roberto De Luca che l’uomo dovrà volgersi per salvarsi, “che dovrà senz’altro volgere nuovamente lo sguardo”.  La sfera dell’archetipo come prosegue De Luca “è immersa e avvolta nel Mistero e, più precisamente, nel mistero di se stessi. La Dea Ragione non dovrebbe svincolarsi dal mistero e con esso dovrebbe dialogare, essergli amica, entrare in confidenza, invece di aggredirlo o ignorarlo come spesso fa”. Roberto De Luca da queste frasi ha ben centrato il senso del tuo discorso in cui affermi come sia necessario staccarsi da una visione auto-centrica  per iniziare il viaggio verso la scoperta di quella parte autentica e fanciulla di sé da cui ripartire.

R – Il saggio “Ribaltamenti”, recentemente pubblicato dalla “David and Matthaus”, è in realtà un approfondimento del pensiero già espresso nel precedente saggio intitolato “La teoria auto-centrica”, edito da Armando nel 2001. Il mio discorso parte propriamente da una prospettiva auto-centrica, nel senso che l’uomo dovrebbe mettersi in discussione di fronte a se stesso, scindendosi – interrogato e interrogante – per andare alla scoperta della propria verità di partenza, che è, come tu dici, la “parte autentica e fanciulla di sé”. Interrogare e rintracciare questa parte, che in fondo è la parte divina di sé, significa abbassare la presunzione razionalistica e sperimentare il grande valore dell’umiltà. 

D – La natura con i suoi spazi e infiniti volti ti ha sempre affascinato, tantoché hai deciso di dedicarti da subito ad un’attività che  ti porta ad essere a contatto diretto con la stessa. Ti occupi di viticultura e con la tua azienda producete un ottimo vino. Mi parli di questa tua passione che  è il tuo lavoro ?

R – Ricordi l’indovinello veronese dell’VIII-IX secolo, il noto incunabolo della lingua italiana, dove si paragona l’aratura alla scrittura? “Se pareva boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, negro semen seminaba”: “Spingeva innanzi a sé i buoi (le dita), arava un campo bianco (il foglio di carta), teneva un bianco aratro (la penna d’oca), seminava un seme nero (l’inchiostro)”. Ho sempre pensato che fra l’aratro e la penna esistano grandi affinità, ma ho amici contadini che non comprendono le ragioni dei miei interessi culturali e amici scrittori che nel legame con la terra non vanno al di là del fatto romantico. Per me la campagna è lavoro, oltre che spiritualità. Un lavoro che non mi ha certo risparmiato delusioni, amarezze e difficoltà. Con le uve del mio vigneto, sono conferente di un grande stabilimento cooperativo dei Castelli Romani, ma produco per me stesso un vino, ovviamente fuori commercio, molto apprezzato da amici ed estimatori, che considero un sfizio letterario: il Campus Jani (Campo di Giano), giocando con il mio cognome.

D –  Il libro Ribaltamenti ha ricevuto numerosi primi premi. Quale quello che ti è rimasto più impresso e in cui hai provato maggior soddisfazione? 

R – Senza alcun dubbio il “Mario Arpea” di Rocca di Mezzo, patrocinato dalla Società “Dante Alighieri”. Era l’agosto 2017, a pochi mesi dalla pubblicazione dell’opera e l’affermazione fu molto lusinghiera. Ne seguirono altre, altrettanto significative, che ricordo con identica gioia, ma quella fu la prima, inaspettata, e il primo amore non si scorda mai.

Silvana LAZZARINO   Roma settembre 2018