di Nica FIORI
I luoghi sacri a Esculapio a Roma. Dall’isola Tiberina al tempietto settecentesco di Villa Borghese.
“Amymonos”, che in greco vuol dire “infallibile, senza macchia” è il termine che Omero usa nell’Iliade per indicare il medico Asclepio (4. 193), i cui figli, Macaone e Podalirio, curavano i greci durante l’assedio di Troia. Secondo fonti molto antiche, tra cui le Pitiche di Pindaro, Asclepio era nato da Apollo e da Coronide, figlia del mitico re dei Lapiti Flegias. Poiché Coronide, durante la gravidanza, si era innamorata del giovane Ischi, Apollo, avvertito del tradimento da un corvo, in preda all’ira uccise Ischi e fece morire Coronide per mano di Artemide (foto 1).
Si preoccupò, però, di salvare il bambino, che venne estratto da Ermes dal grembo della madre morta. Il piccolo Asclepio venne affidato al centauro Chirone, che lo educò nell’arte medica.
Divenuto un vero maestro nell’esercizio della medicina, tanto da riuscire a riportare in vita i defunti, Asclepio venne folgorato da Zeus, che volle così punirlo per aver infranto le leggi divine. Ma, su richiesta di Apollo, fu lo stesso Zeus a collocarlo in cielo, tra le stelle, nella costellazione dell’Ofiuco (o Serpentario, colui che domina il serpente). E da allora cominciò a essere venerato come dio della medicina, il cui attributo principale è il bastone con un serpente attorcigliato, bastone che è diventato simbolo della professione medica, da non confondere con il caduceo di Ermes/Mercurio, che ha due serpenti attorcigliati.
Il serpente, presente nella mitologia, nel simbolismo e nel culto di diverse religioni e in particolare delle Grandi Madri, probabilmente è stato scelto come simbolo del dio Asclepio perché perde periodicamente la pelle, volendo vedere in ciò un segno di eterna giovinezza, o di rinascita. Egli, almeno in origine, era una divinità oracolare sotterranea e il serpente, che d’inverno va sottoterra, rappresenta l’energia ctonia della terra. Un altro motivo potrebbe essere connesso a un primordiale concetto di vaccinazione, perché si sapeva che solo l’uso costante del veleno dei serpenti poteva salvare dal loro morso. Oltretutto in greco il termine pharmakon ha il duplice significato di veleno e di medicina (foto 2).
Secondo alcune tradizioni Asclepio era nato a Epidauro, luogo dove sorse in suo onore un grande santuario, nel quale i suoi sacerdoti-medici esercitavano la loro arte e allevavano dei serpenti. Nessun nuovo tempio a lui dedicato nel mondo panellenico poteva fare a meno di avere un serpente proveniente da Epidauro, in quanto ritenuto una personificazione del dio della medicina.
La stessa cosa avvenne a Roma dove il dio, che nella versione romana è chiamato Esculapio, arrivò sotto forma di un serpente. Il leggendario avvenimento si sarebbe verificato tra il 292 e il 291 a.C., quando, in seguito al divampare di una terribile pestilenza, furono inviati a Epidauro, su suggerimento dei mitici Libri Sibillini, dieci uomini per fare in modo che il dio guaritore potesse venire a Roma (Livio, X, 47). Pare che un serpente fosse uscito in quell’occasione dal sacrario e salito sulla nave romana, dalla quale sarebbe disceso solo quando questa giunse all’altezza dell’Isola Tiberina, come racconta dettagliatamente Ovidio nel XV libro delle Metamorfosi; lì prese terra e disparve tra la vegetazione, facendo cessare miracolosamente l’epidemia. Proprio nel punto in cui scomparve il rettile, fu eretto il tempio dedicato al dio, sui cui resti fu in seguito costruita la chiesa di Sant’Adalberto, poi San Bartolomeo all’Isola (foto 3 e 4).
Ovviamente, insieme al tempio sorsero gli ambienti ospedalieri a esso annessi, dove i sacerdoti di Esculapio si prendevano cura dei malati. Il luogo non solo era appartato e tranquillo, ma presentava anche ampia disponibilità d’acqua, essenziale per le sue virtù purificatrici.
Vi sgorgava una fonte salutare, ritenuta miracolosa, probabilmente la stessa che alimenterà in seguito il pozzo medioevale di San Bartolomeo. Inoltre veniva a essere rispettata la norma secondo cui i santuari di divinità straniere dovevano sorgere al di fuori del confine sacro dell’abitato. Per di più, vi era già nell’isola un culto affine a quello di Esculapio: quello del dio fluviale Tiberino, cui si attribuivano facoltà taumaturgiche. Nella stessa isola si ricordano anche i templi di Fauno, di Veiove, di Iuppiter Iurarius (Giove dei giuramenti), di Bellona.
Le terapie praticate nell’isola erano varie: medicine a base di erbe e altre sostanze naturali, bagni, interventi chirurgici, e soprattutto l’incubatio, un rituale arcano che aveva lo scopo di far guarire l’ammalato attraverso i sogni. Appena arrivati, i malati venivano messi a giacere in particolari locali disposti intorno al simulacro del dio e durante il sonno egli appariva loro (foto 5).
Esculapio era una divinità oracolare e pertanto concedeva a chi dormiva nei suoi santuari dei sogni rivelatori. I sacerdoti li interpretavano e agivano di conseguenza. C’è da pensare che i sogni venissero favoriti dalla somministrazione di particolari erbe e droghe, o anche da una suggestione di tipo ipnotico, simile a quella praticata nei secoli XVIII e XIX dai medici magnetisti. Lo stesso Ippocrate, che è considerato il fondatore della medicina scientifica, ammetteva la possibilità di un’influenza divina nei sogni, attribuendo a essi un valore diagnostico. Egli sosteneva che l’anima, occupata durante lo stato di veglia nelle funzioni corporee, può, mentre il corpo dorme, percepire le cause della malattia.
Così, se i sogni danno una rappresentazione della vita corrispondente a quella da svegli, il corpo sta bene, mentre se nel sogno si verifica una cosa anomala, allora c’è qualcosa che non va nell’organo del corpo posto sotto l’influenza dell’elemento che si è manifestato. Rituali così suggestivi e soprannaturali come quelli praticati nei santuari del dio dovevano determinare nei pazienti una reazione simile all’effetto placebo. La volontà di guarire faceva il resto. Si attuava, quindi, nell’incubatio una sorta di psicoterapia molto efficace. Si sa che in epoca imperiale gli schiavi ammalati e inabili al lavoro venivano abbandonati dai loro proprietari nell’isola Tiberina e, se guarivano, ritornavano liberi in una sorta di riscatto voluto dal dio e dall’imperatore. C’è da credere che la voglia di libertà provocasse diversi miracoli.
La tradizione dell’isola come luogo di cura e sanatorio si è mantenuta nel tempo, tanto che molti romani identificano l’isola Tiberina con il noto ospedale “San Giovanni Calibita” (con omonima chiesa) fondato nel XVI secolo dagli Ospedalieri di San Giovanni di Dio (chiamati Fatebenefratelli), eppure questo sito, per quanto sacro alla medicina, è molto di più di un semplice ospedale, ma uno di quei luoghi romani dove si può ancora respirare l’atmosfera del passato nelle sue diverse stratificazioni. Forse per questo il Gregorovius, guardando l’isola dal Ponte Fabricio (detto anche dei Quattro capi per le erme quadrifronti che lo caratterizzano), con le due chiese e la torre medievale dei Caetani (già Pierleoni), ebbe l’idea di scrivere la sua monumentale Storia di Roma nel Medioevo (foto 6 e 7).
La suggestione nasce dalla ricchezza di memorie storiche, ma ancora di più dall’intreccio di leggende, simboli e miti, in parte suggeriti dalla sua stessa forma che ricorda quella di una nave. Del resto, secondo un’antica leggenda, l’isola Tiberina si sarebbe formata da una grande imbarcazione incagliatasi nel mezzo del fiume e riempita in seguito di sabbia e di detriti dalla corrente. Un’altra curiosa leggenda parla invece di un’origine legata al grano dei Tarquini, raccolto nelle loro terre e gettato nel Tevere nel giorno in cui l’odiata dinastia di origine etrusca fu cacciata da Roma (Tarquinio il Superbo fu messo al bando nel 509 a.C.); anche in questo caso, sul prezioso cereale si sarebbero ammassati i depositi fluviali favorendo la formazione di una piccola lingua di terra. Lo racconta Livio e Plutarco aggiunge che i Romani, dopo aver gettato i mucchi di frumento,
“abbatterono e scaraventarono nel fiume gli alberi che crescevano nella pianura, sì da lasciarla completamente spoglia e sterile in onore del dio”.
Il dio è Marte e la pianura che era stata dei Tarquini divenne da allora il Campo Marzio.
Secondo quanto riportato da Livio, Strabone, Plutarco, nel I secolo a.C. l’isola venne trasformata in una nave di pietra per ricordare la trireme che aveva portato a Roma il serpente di Esculapio. Ed è sulla base di questa tradizione che molti disegnatori dei secoli passati hanno proposto suggestive ricostruzioni dell’isola, che, inquadrata tra i due ponti Cestio e Fabricio, appare proprio come una nave. Nell’incisione di Nicolaus van Aelst (fine XVI sec.), da un disegno di E. du Pérac, la nave di pietra appare orientata con la prua rivolta verso il mare (sud-est), e sono visibili i rilievi marmorei tuttora esistenti. Sull’isola sono rappresentati a sinistra l’antico ospedale e il tempio di Esculapio, a destra il tempio di Giove Licaone e quello di Fauno all’estremità nord-ovest. Un obelisco egizio completa il disegno, suggerendo l’idea di un’alberatura necessaria a una vera imbarcazione (foto 8).
In altre immagini l’orientamento è inverso, ovvero la nave sembra navigare controcorrente. Anche l’incisione con Veduta dell’isola Tiberina di Piranesi sembra mostrare la poppa là dove altri collocano la prua (foto 9).
Non disponiamo in realtà di alcun riscontro scientifico che possa avvalorare l’ipotesi che tutta l’isola fosse stata trasformata in un’imbarcazione, ma, sulla punta orientale, si notano alcuni resti in peperino e travertino di quella che doveva essere la prua e si conserva anche un bassorilievo raffigurante il serpente attorcigliato al bastone del dio (foto 10 e 11) e una testa di toro, che fungeva probabilmente da ormeggio.
In epoca cristiana, intorno all’anno 1000, Ottone III di Sassonia fece costruire la chiesa che accoglie le reliquie di San Bartolomeo apostolo e di Sant’Adalberto vescovo di Praga (ucciso nel 997 mentre evangelizzava popolazioni pagane), chiesa che quasi sicuramente ha utilizzato le colonne del tempio di Esculapio e ha conservato il pozzo, trasformato in un simbolo evangelico. Nella piazza antistante, al posto dell’obelisco è stato innalzato un monumento cristiano.
Nell’isola, pertanto, non si ha più la percezione delle sue architetture di epoca romana, ma è dal suo modello di pietra che nacque probabilmente la moda a partire dal Rinascimento in poi, di utilizzare la nave o la barca come vasca di alcune fontane. Proprio all’Isola Tiberina si è ispirato, in effetti, Pirro Ligorio per la sua “Rometta” di Villa d’Este a Tivoli, una fontana costituita da una vasca rievocante il Tevere, entro cui è collocata una nave con un obelisco nel mezzo (foto 12).
Ed è sempre il suo ricordo che rivive nello straordinario Giardino del Lago di Villa Borghese, dove sorge su un isolotto il delizioso tempio settecentesco dedicato a Esculapio, con la raffigurazione nel frontone dello sbarco del serpente divino a Roma (foto 13).
La creazione di questo romantico giardino è dovuta all’architetto Antonio Asprucci, affiancato probabilmente dal figlio Mario, e va inquadrata nell’ambito del rinnovamento della villa voluto dal principe Marco Antonio IV Borghese verso la fine del Settecento e proseguito poi nei primi anni dell’Ottocento dai figli Francesco e Camillo, marito quest’ultimo di Paolina Bonaparte. L’opera dell’Asprucci prima, e di Luigi Canina poi, fece perdere alla villa il suo originario aspetto secentesco, che secondo i canoni del giardino all’italiana obbediva alle leggi della prospettiva e della geometria, per trasformarla in un grande parco all’inglese, che è sostanzialmente quello a noi pervenuto, dove prevale una maggiore libertà.
Immerse nel verde troviamo qua e là statue, urne, fontane, false rovine, che danno all’insieme un preziosismo artistico e accentuano il carattere romantico della villa. Ma la cosa spettacolare è proprio il lago dell’omonimo giardino che appare quasi naturale, con i contorni spesso nascosti dalla vegetazione.
Per la gioia dei bambini le sue acque sono solcate da cigni e papere e un gruppo di tartarughe vi passeggia indisturbato sui bordi (foto 14 e 15).
Un’isoletta artificiale, collegata alla terraferma da un ponticello, ospita il tempietto d’imitazione greca, costruito dall’Asprucci tra il 1785 e il 1792, dedicato ad Asclepio Soter, come si legge in caratteri greci, sottolineando con il termine Soter, che vuol dire Salvatore, l’aspettativa di rinascita che gli antichi attribuivano al dio e in seguito i cristiani a Cristo.
Nel progetto iniziale era prevista solo la costruzione di un semplice prospetto architettonico, da collocarsi in fondo al Viale dei Licini, destinato ad accogliere la colossale statua di Esculapio, rinvenuta nei pressi del Mausoleo di Augusto. Nella successiva sistemazione il progetto si trasformò in quello di un tempietto visibile da tutti i lati, che riflette la sua facciata con quattro colonne ioniche sormontate da un timpano sulla superficie verdastra del lago (foto 16, 17 e 18).
Sul frontone e sull’attico vennero collocate dieci statue antiche di divinità, restaurate e rilavorate nella bottega di Vincenzo Pacetti per adattarle al culto di Esculapio, mentre ai piedi del tempio due grandi statue raffiguranti le ninfe Tungria e Imera (rispettivamente opera degli scultori Agostino Penna e Pacetti), gettano acqua sedute su due finte scogliere. Sul coronamento del frontone, in posizione centrale è la statua di Apollo (foto 19),
il padre di Esculapio, mentre ai lati sono due statue di Vittoria. Sul retro dell’attico sono collocate le statue di Igea, la dea figlia di Esculapio corrispondente alla Salus romana, due statue di Artemide (sorella di Apollo) ed Ermes. Queste sette statue, sopravvissute ai furti dei primi anni Ottanta del secolo scorso, sono state rimosse nel 1989 e sostituite sul luogo da copie moderne.
Come spiega Alberta Campitelli nel suo volume “Villa Borghese. Da giardino del Principe a parco dei Romani” (2003), la presenza di un tempio dedicato a Esculapio in un giardino è “inconsueta”, mentre ha un suo perché la sistemazione su un’isola, il cui legame con Esculapio era certamente noto all’archeologo Ennio Quirino Visconti, al servizio dei Borghese, che ebbe probabilmente un ruolo nel progetto. L’idea di costruire un tempio dedicato a Esculapio fu però casuale e dovuta alla disponibilità della grande statua romana, che Pacetti aveva fatto portare nel suo studio per restaurarla e al cui acquisto pare fosse pure interessato il pontefice Pio VI.
La statua (con testa e altre parti di restauro) è in marmo bianco a grana fine ed è alta 3,5 metri. È collocata all’interno della cella (aperta su tutti i lati) su un basamento ove si legge: MAXIMUS AEGRIS AUXILIATOR ADEST ET FESTINANTIA SISTENS FATA SALUTIFERO MITIS DEUS INCUBAT ANGUI (Qui c’è il più grande aiuto per i malati e il dio benigno, trattenendo il destino che incombe, agisce in sogno con il serpente apportatore di salute). Il dio è raffigurato in una delle sue iconografie più diffuse (tipo Asclepio Giustini), come un personaggio anziano e barbuto, con un mantello che lascia scoperto in parte il busto e con il suo lungo bastone appuntato sotto l’ascella destra, attorno al quale è avvolto il serpente (foto20).
Pure la statua di Igea, di età romana, è raffigurata con un serpente cui dà nutrimento, mentre la testa, chiaramente settecentesca, è più simile a quella delle personificazioni di Stagioni, per la presenza di grappoli d’uva tra i capelli (foto 21).
Niva FIORI Roma 17 maggio 2020