di Giulio de MARTINO
Il 29 luglio 2022 si è svolta al Teatro di San Carlo a Napoli la “Conferenza dei Direttori e delle Direttrici degli Istituti Italiani di Cultura” all’Estero per celebrare il 100° anniversario della nascita della rete degli IIC, il primo dei quali fu istituito dal Regno d’Italia nel 1922 a Praga.
Una data che ci riporta al compito originario di quegli Istituti che era di tipo nazionalista e di tipo statalista: di contatto con le popolose comunità degli italiani emigrati all’estero – per lo più in Europa e nelle Americhe – e di avamposto dell’azione politica e militare italiana nel mondo.
Oggi gli IIC svolgono tutt’altre funzioni. Sono ancora dipendenti dal Ministero degli Affari Esteri, ma sono gestiti in collaborazione con il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Svolgono una mission articolata su due assi: la tutela e la divulgazione della lingua e del patrimonio culturale italiano all’estero e il rapporto con le comunità degli italiani residenti in terra straniera e con gli stranieri che vogliano entrare in contatto con i territori e le culture presenti nel nostro Paese.
Certamente l’ultimo periodo non ha agevolato il lavoro degli IIC: fra le emergenze ecologiche, la pandemia, la guerra tra Russia e Ucraina e, da ultimo, la crisi del Governo italiano, l’immagine e l’attività degli IIC è stata sottoposta a un forte stress.
A fare bilanci e a delineare prospettive, oltre ai funzionari e ai dirigenti degli IIC, sono stati chiamati a intervenire artisti e direttori dei musei (come il grafico Davide Toffolo, la scrittrice Giulia Caminito, la direttrice del MAXXI di Roma Giovanna Melandri). La sintesi finale è stata affidata ai Ministri Luigi Di Maio e Dario Franceschini e, infine, al Sindaco di Napoli Gaetano Manfredi in qualità di Ospite della manifestazione.
La rete degli IIC è consistente ed è composta da 85 istituti, collocati nelle principali Capitali del mondo. Il bilancio finanziario, alla base delle loro attività, non è enorme. Si osservato che è il 10% di quello che la Germania spende nello stesso campo. Al convegno di Napoli è giunta, però, sollecita, la rassicurazione da parte degli esponenti del Governo che: «saranno presto assunti 100 nuovi funzionari» per potenziare la rete.
Senza entrare nel merito delle singole iniziative locali ci si è cimentati in una descrizione generale delle attuali attività degli IIC. I Ministri hanno parlato di “Soft power” per elogiare la funzione dialogante degli istituti con le collettività straniere: al di fuori delle tensioni e dei posizionamenti politici e militari internazionali. Non si è esagerato, ovviamente, con questa rivendicazione, restando sul generico per evitare di mettere i piedi sul terreno scivoloso delle polemiche e delle opinioni contrapposte.
L’ambasciatore Pasquale Quito Terracciano, direttore generale alla Farnesina della diplomazia culturale, ha cercato di andare oltre le considerazioni di circostanza e ha caratterizzato la fase presente degli IIC come quella del contrasto, o almeno del confronto, fra tra la «tradizione» e l’«attualità».
I discorsi si sono quindi annodati intorno al caleidoscopio di temi racchiuso nell’art. 9 della Costituzione che – nella nuova e recente formulazione – recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni».
Quindi, quando si parla di interscambio fra tradizione e attualità, per tradizione si intende il «patrimonio storico e artistico della Nazione» e per attualità si intende la galassia dei «nuovi linguaggi» che – derivando da una rete tecnologica e culturale globalizzata – poco o nulla hanno a che vedere con la «tradizione» italiana.
Sul carattere nazionale del «prodotto culturale italiano» e sul «turismo esperienziale» che si può effettuare nel nostro Paese, ci sarebbe da osservare che derivano, in larghissima parte, non tanto dalla storia culturale dello stato italiano sorto nel 1861, quanto piuttosto dalle variegate ed eterogenee popolazioni e vicende – antiche e preunitarie – svoltesi nella nostra Penisola. È un fatto che giustifica la nozione di «patrimonio storico e artistico della Nazione» (cioè: il diversificato insieme di resti, cimeli e culture custodito per conto della collettività nazionale) al posto di quella – più aggressiva e integralista – di «identità culturale» della Nazione.
Il Ministro Franceschini, nel suo intervento, ha adoperato due locuzioni: gli IIC come «magnifica vetrina dell’Italia nel mondo» e quella dell’Italia come Paese debole da molti punti di vista, ma che, nel campo della diplomazia dell’arte e della bellezza, costituisce una vera e propria «superpotenza della cultura». E ha citato la recente riunione dei Ministri della cultura dell’UE e dei Paesi del Mediterraneo e il «dialogo internazionale» che dallo scambio dei beni culturali – materiali e immateriali – trae alimento.
L’Italia, in realtà, custodisce un «patrimonio culturale e paesaggistico» che è in sé stesso di una tale rilevanza che susciterebbe l’attenzione del Mondo e dell’UNESCO, anche se gli IIC non facessero nulla. Potenti energie culturali, economiche, artistiche ecc. provenienti da ogni parte del mondo – cominciando dal Grand Tour dei tedeschi e degli inglesi nel ‘700 – raggiungono e dialogano da secoli con l’Italia e la sua storia.
Lo stato italiano si inserisce quindi – per svolgere il suo ruolo – in un processo storico e in un mercato aperti. Addirittura – e provocatoriamente – si potrebbe sostenere che ciò che viene presentato come «brand Italia» o come «Made in Italy» sia esattamente ciò che il mercato mondiale ha ritenuto che ci fosse di interessante e di bello in Italia, non già ciò che l’Italia – di suo – abbia deciso di esportare negli altri Paesi.
Riguardo all’impegno degli IIC in relazione ai «nuovi linguaggi» e per la promozione di artisti, operatori e prodotti artistici e culturali nostrani va ribadito che lo stato italiano si inserisce in un mercato che è – da decenni – ampiamente globalizzato. Non si tratta quindi di impegnarsi di più per dedurre da un presunto «paradigma nazionale» i prodotti culturali che sarebbero da esportare all’estero. Occorrerebbe piuttosto produrre – meglio di come lo fanno gli altri Paesi – ciò che il mercato mondiale ci richiede.
Nel discorso conclusivo, superando ogni residua forma di «nazionalismo culturale», il Sindaco Manfredi ha – con garbato localismo postmoderno – osservato che Napoli concorre notevolmente allo sviluppo del nostro PIL poiché gran parte degli spot che pubblicizzano i prodotti alimentari italiani vengono girati avendo come location panorami e paesaggi del Golfo di Napoli e delle aree circostanti.