di Lisa SCIORTINO
Fin dall’antichità i temi religiosi hanno rivestito un ruolo determinante nella cultura figurativa siciliana, sia perché rispondono al primordiale bisogno dell’uomo di garantirsi una difesa nei confronti dell’avverso affidandosi al trascendente dove la ragione non può arrivare, sia perché storicamente hanno espresso le capacità della Chiesa di esercitare un controllo sulla fede di una massa in gran parte illetterata e ancora influenzata da reminiscenze pagane, scaramanzia e superstizione [1]. Le immagini devozionali hanno costituito così un’eloquente testimonianza dell’esigenza individuale di realizzare un sistema protettivo nei confronti della precarietà esistenziale e, in tal senso, la Chiesa ha condotto una vera e propria campagna agiografica.
L’uso dell’immagine sacra ha da sempre avuto lo scopo di riportare l’attenzione del fedele ad una presenza divina che, nel ritmo vorticoso della vita quotidiana, spesso rischia di essere trascurata, tralasciata o perfino dimenticata.
Nella storia bimillenaria della Chiesa, le immagini di Cristo e della Madonna occupano certamente un posto di rilievo per l’arte, accompagnati dai Santi più celebri come Giuseppe, Pietro e Paolo, Giovanni Battista, Francesco – solo per indicarne alcuni – e dai Santi patroni o di devozione locale [2]. Per citare San Basilio, ciò che la parola comunica attraverso l’udito, la pittura lo mostra silenziosamente per mezzo della rappresentazione.
Dopo il Concilio di Nicea, le immagini devozionali diventarono uno strumento straordinario di evangelizzazione popolare, nonché espressione antropologica e culturale del territorio.
La Madonna del Latte [3], o Galaktotrophousa, è un’iconografia cristiana assai frequente in arte, anche in ambito ortodosso. La sua raffigurazione prevede la Vergine a seno scoperto, colta nell’atto di allattare il Figlio, o in procinto di farlo, oppure mentre un singolo getto di latte o distinte gocce scendono direttamente nella bocca di Gesù. In questo modo Maria è ritratta come Madre di Dio e Patrona delle puerpere, presenta carattere intimo e materno esprimendo la natura umana insita in Cristo assieme a quella divina.
Le rappresentazioni della Madonna del Latte, in cui l’effigie di Maria non è più ieratica e inaccessibile ma umanizzata e sentimentale, ebbero grande diffusione nel Medioevo. Peraltro, proprio nel Medioevo, si divulgarono alcune eresie che negavano la vera umanità di Cristo. La più famosa fu quella catara che tanto a lungo aveva impensierito la Chiesa di Roma. E non è un caso che il topos della Madonna del Latte trovi particolare diffusione proprio in concomitanza alla diffusione del catarismo. Al di là dell’aspetto puramente devozionale, le Madonne del Latte riuscirono ad esprimere concetti teologici importanti, sottolineando appunto l’incarnazione di Cristo mostrato nel momento del suo bisogno più terreno, quello di nutrirsi dalla propria Madre.
Talora la Vergine è ripresa nell’atto di offrire il proprio latte anche ad un Santo o ad altri soggetti legati alla religione cristiana. Lo scopo della composizione è quello di mostrare la predilezione di Maria per un personaggio realmente vissuto, il quale, volendo essere presentato come esempio da seguire, è proposto nell’atto di ricevere la benevolenza direttamente della Vergine. A volte tale benevolenza è diretta a un gruppo di uomini, come ad esempio le anime del Purgatorio, che ricevono sollievo dalle loro sofferenze grazie al latte generosamente concesso.
L’iconografia cristiana derivò dai prototipi egiziani di Iside intenta ad allattare il figlio Horus. Non stupisce che molte sculture della dea furono successivamente venerate come Madonne. Le prime raffigurazioni della Madonna del Latte si ritrovano proprio nell’Egitto ormai cristianizzato del VI-VII secolo d.C. Da qui, l’iconografia si diffuse in Oriente, attraverso l’arte bizantina, per raggiungere poi l’Occidente dove divenne molto popolare nella scuola pittorica toscana e nel Nord Europa già a partire dal Trecento, quando si abbandonò anche la rigidità della stilizzazione a favore di una immagine più realistica.
Nell’Europa occidentale, con il culto si diffuse anche l’uso di custodire nelle chiese ampolle contenenti il latte della Madonna, cui si attribuivano effetti miracolosi. Un esempio è il Reliquiario del latte e dei capelli della Vergine [4] (Fig. 1) di argentiere siciliano dell’ultimo quarto del XIII secolo realizzato in argento, argento dorato, paste vitree e cristallo proveniente dalla Cattedrale di Monreale ed esposto al Museo Diocesano.
Una serie di celebri artisti si cimentarono nella rappresentazione della Madonna del Latte, da Ambrogio Lorenzetti a Leonardo, da Andrea e Nino Pisano a Van Eyck. Ma il Concilio di Trento, con il decreto De invocatione, veneratione, et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus definì la posizione della Chiesa riguardo alle iconografie devozionali al fine di evitare immagini percepite come sensuali dalla morale dell’epoca. La Riforma annoverò tra le opere sconvenienti anche le rappresentazioni di Maria a seno scoperto, accusate di distogliere i fedeli dalla preghiera. Pertanto, fu demandato ai vescovi il compito di valutare le varie opere e di decidere se queste dovessero essere ritoccate o addirittura rimosse. A Milano, Carlo Borromeo trovò sconvenienti alcune immagini, provvedendo in molti casi a coprirle con modifiche, invece alcune chiese intitolate alla Virgo Lactans mutarono denominazione.
Mentre l’iconografia della “Madonna del Latte” decadeva, per contro la venerazione popolare delle antiche immagini continuò nel tempo, essenzialmente legata al desiderio di maternità.
Il Museo Diocesano di Monreale custodisce alcune opere che presentano l’immagine della Virgo Lactans. Seguendo l’itinerario espositivo, all’ingresso del Lapidarium si ammira il dipinto su parete raffigurante la Madonna col Bambino tra San Placido e il Cardinale Alessandro Farnese (Fig. 2), opera della metà del XVI secolo attribuita ad Antonino Spatafora [5].
La Vergine circondata da nubi e coronata da due angeli, è ripresa nel momento in cui alcune gocce di latte bagnano la bocca del Bambino, seduto sulle sue gambe. Ai lati sono le figure stanti di San Placido e del Cardinale Farnese stesso e, sotto, il motto FELIX CELI PORTA. Ancora in basso, lo stemma del porporato ne evidenzia la committenza.
La Sala Normanna del Museo ospita la Madonna dell’Umiltà [6] (Fig. 3), tavola attribuita da Maria Concetta di Natale a Barnaba da Modena e da Giovanni Travagliato ad un più generico pittore meridionale.
Tale tipo iconografico, che vede la Vergine non più assisa su un trono ma humilis e nell’atto di allattare il Figlio, ha grande diffusione. In riferimento all’opera in esame, nel volume di Luigi Lello si legge di
un quadro della Madonna, il quale dicono, che soleva star sopra l’altare maggiore della chiesa di Monreale, si vede in ginocchioni l’immagine di questo Arcivescovo vestito d’una Cappa rossa con le mostre di pelli di Vari e una croce in mano con queste lettere di sotto ‘Guilielmus Montisregalis Archiepiscopus Decretorum Doctor natione Catalanus anno Domini 1379 fecit fieri’. E attorno vi sono le sue arme [7].
Recuperato nei locali del Seminario Arcivescovile nel 1994, dopo il restauro il dipinto fu proposto come derivazione dal prototipo iconografico della Mater Omnium di Roberto Oderisio a Napoli [8]. La tavola con la Madonna dell’Umiltà parrebbe essere la più antica opera d’arte commissionata da un Arcivescovo di Monreale, Guglielmo Monstri, in carica dal 1362 al 1379, sopravvissuta al tempo ma decurtata su tutti i lati per eliminare la figura del Cardinale e poter riutilizzare il dipinto forse come semplice arredo.
Per questa particolare rappresentazione iconografica, dove la Vergine presenta un seno assai prossimo alla spalla, si è scritto molto in ambito antropologico sulla credenza (e differenza) di latte di spalla e latte di cuore[9]. Il latte di cuore era considerato di scarsa qualità, dal momento che il cuore, sede dei sentimenti, avrebbe potuto trasmettere, tramite il fluido del latte, emozioni negative al bambino, esponendolo a possibili rischi. Si riteneva che il latte di cuore avesse una consistenza acquosa e fosse insufficiente a soddisfare un neonato, a differenza del latte di spalla che si presentava denso e ricco di sostanze nutritive.
La tela di Filippo De Vadder raffigurante la Madonna della Misericordia [10] (Fig. 4), opera del 1634 proveniente dalla chiesa dell’Odigitria di Monreale, trova posto nella Sala dei Vescovi del Museo.
L’analisi dell’opera rivela l’adozione di uno schema iconografico lineare che taglia trasversalmente la scena, collocando la Vergine col Bambino al vertice di una diagonale che parte dal gesto di devozione con cui San Bernardo, inginocchiato, appare accogliere la manifestazione divina. Il taglio diagonale sembra scandire progressivamente il passaggio dalla dimensione spirituale di Maria, pervasa da luce mistica e sorretta da puttini, a quella più strettamente umana in cui si colloca l’abate, delimitata dalla presenza della mitria e del pastorale. La Vergine spruzza il proprio latte nella bocca del santo e il gesto segna con una diagonale il dipinto. Lo schema iconografico, che ha radici cinquecentesche nella pittura di Raffaello e Tiziano, è riconducibile, nel Seicento, a un tipo di pittura di ambito napoletano e siciliano. Si veda, ad esempio, la Madonna con Bambino e San Carlo Borromeo di Filippo Vitale o San Bruno che riceve la regola dell’Ordine di Simon Vouet entrambe custodite a Napoli.
La Madonna delle Grazie [11] (Fig. 5), dipinta su ardesia nel 1620 da Pietro Antonio Novelli e proveniente dalla collezione Renda Pitti [12], impreziosisce la Sala Etnoantropologica del Diocesano.
L’opera, già edicola votiva a Monreale smurata e trasferita a casa del collezionista, è riconducibile al Novelli sulla scorta di altre sue opere (42) secondo lo studio di Susanna Sportaro[13]) dal medesimo soggetto diffuse nel territorio siciliano. I soggetti iconografici delle edicole votive, com’è noto, si relazionano ai canoni figurativi dell’arte culta a soggetto religioso.
Anche in questo caso, il culto per la Panaghia Galaktotrophousa si traduce in una raffigurazione di estrema dolcezza e designa Maria come Madre di Gesù e di tutti gli uomini. Le distinte gocce di latte che direttamente cadono nella bocca di Gesù sono di simbolica benevolenza per tutti gli uomini. Come detto, l’opera è dipinta su ardesia, che è una roccia tenera, facilmente divisibile in lastre sottili, leggere, compatte, di colore nerastro. Generalmente considerata materiale di impiego popolare, fu utilizzata anche per pitture di uso domestico, immagini devozionali, capezzali o edicole votive. La sua fragilità ha fatto sì che molti esemplari, con il tempo, si deteriorassero o si rompessero. Per tale motivo, la lastra custodita al Museo, in buono stato di conservazione, risulta ancora più preziosa.
Non è irrilevante il fatto che l’iconografia della Vergine che allatta sia anche scolpita sui pizzi dei carretti, dalla funzione esplicitamente apotropaica, nascosti sotto la cassa del folclorico mezzo isolano, tra le mensole che la sostengono fra le ruote, come una specie di sacrario (Fig. 6).
I temi a carattere religioso sono molto diffusi nella tradizione figurativa popolare siciliana sia perché rispondono alla umana necessità di oggettivare la dimensione ecclesiale sia perché sono sempre stati strumento di infiltrazione culturale della Chiesa specie negli strati sociali meno abbienti. L’immagine sacra diviene mediazione tra realtà umana e mondo divino e, d’altra parte, ad essa è attribuito un valore didascalico di divulgazione della fede, di propaganda agiografica, di edificazione morale. La raffigurazione sacra nel carretto siciliano, considerata anche l’esiguità dello spazio nel pizzo, si riduce all’essenziale mantenendo comunque intatta la devozione del committente.
La “Madonna delle Grazie”, pur non essendo presente in modo specifico nel calendario liturgico della Chiesa cattolica, è tuttavia vivo riferimento devozionale, taumaturgico, di mediazione di prodigi verso i suoi devoti.
Lisa SCIORTINO Monreale, 17 Marzo 2024
NOTE