di Nica FIORI
“Caravaggio, in luogo dell’ultimo pittore del Rinascimento, sarà piuttosto il primo dell’età moderna… Il pubblico cerchi dunque di leggere ‘naturalmente’ un pittore che ha cercato di essere ‘naturale’, comprensibile: umano più che umanistico: in una parola, popolare”.
Con queste parole di Roberto Longhi (1890-1970), sempre attuali anche se scritte nel 1951 (in occasione della prima grande mostra Caravaggio e i caravaggeschi, tenutasi nel Palazzo Reale di Milano), veniamo introdotti alla mostra “Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi”, ospitata nei Musei Capitolini fino al 13 settembre 2020.
L’esposizione, promossa dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e dalla Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, è curata da Maria Cristina Bandera, direttore scientifico della stessa Fondazione, nel cinquantenario della scomparsa del grande storico e critico d’arte, cui si deve il merito di aver fatto riscoprire la genialità di Caravaggio, quando era ancora un pittore poco conosciuto ed apprezzato.
Dopo la sospensione degli eventi legata al covid-19, i Musei Capitolini riaprono alla grande la loro stagione di mostre, con “un percorso di luci, ombre ed emozioni soprattutto”, come ha sottolineato la sindaca di Roma Virginia Raggi: un percorso programmato per essere inaugurato il 12 marzo 2020, che finalmente si snoda tra più di quaranta emblematiche opere di pittori della cerchia di Caravaggio, partendo dal Ragazzo morso da un ramarro, dello stesso Caravaggio, appena giunto dal Rijksmuseum di Amsterdam, dove è stato esposto nella mostra sul Barocco.
La Sovrintendente capitolina Maria Vittoria Marini Clarelli ha tenuto a precisare che Roberto Longhi ebbe con Roma “un rapporto lungo, intenso e non sempre facile”, pensando in particolare alla delusione della mancata assegnazione nel 1949 della cattedra universitaria di Storia dell’Arte moderna. Un rapporto iniziato con la sua tesi di laurea su Caravaggio, discussa nel 1911 all’Università di Torino, e proseguito tra il 1912 e il 1915, quando si stabilì a Roma iniziando a insegnare nei licei. Dopo una parentesi a Milano e un tour tra Francia, Spagna ed Europa centrale, Longhi tornò nella capitale negli Anni Venti, divenendo uno dei protagonisti della vita culturale romana negli incontri al Caffè Aragno con Ungaretti, Cardarelli, Soffici e altri intellettuali, occupandosi anche di arte contemporanea (scrisse sui Futuristi e fu lui a dare il nome al gruppo della Scuola Romana di via Cavour).
Fu a Roma che sposò Lucia Lopresti (sua ex allieva al liceo Visconti, nota con lo pseudonimo di Anna Banti) nel 1924, e a Roma ottenne il comando della Direzione generale delle Antichità e delle Belle Arti per il biennio 1937-38, dopo il precedente trasferimento a Bologna (nel 1935-1937), dove aveva vinto la cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna, mentre dal 1939 si trasferì con la moglie a Firenze.
L’acquisto del Ragazzo morso da un ramarro risale al 1928. Fu proprio Longhi con la sua competenza ad attribuirlo a Caravaggio. L’opera, come viene spiegato nella lunga didascalia, risale all’inizio del soggiorno romano del Merisi (databile intorno al 1596-1597): ci colpisce innanzitutto per l’orrore, il dolore e la sorpresa del ragazzo, espressi nella contrazione dei muscoli facciali, nella bocca aperta e nella contorsione della spalla in primo piano. Ma anche per la “diligenza” con cui il pittore ha reso la caraffa trasparente con i fiori, come sottolineò Giovanni Baglione, l’artista rivale del Merisi, già nel 1642 (del resto è proprio con Caravaggio che la natura morta acquista una sua dignità autonoma). Questo soggetto, che appariva decisamente innovativo, deve aver avuto fortuna, visto che se ne conosce un’altra versione originale, conservata alla National Gallery di Londra, ma questa della Fondazione Longhi probabilmente è precedente.
Nella sala introduttiva è esposto un disegno a carboncino della sola figura del ragazzo, realizzato dallo stesso Roberto Longhi, firmato e datato 1930. È un documento che dimostra non solo la sua abilità nel disegno, ma anche la perfetta comprensione della composizione e della luce del dipinto. Una comprensione della grandezza di Caravaggio che Longhi aveva manifestato fin dagli studi universitari. Scrive a questo proposito la curatrice Maria Cristina Bandera:
”La scelta dell’argomento della tesi, a quella data, è da vedersi come il riflesso dello spirito d’avanguardia da cui lo studioso era mosso, tanto all’epoca il pittore era «uno dei meno conosciuti dell’arte italiana», ma dimostra anche come il giovane Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria del Merisi, così da intenderlo come il primo pittore dell’età moderna. All’epoca, per lo studioso voleva dire, come precisò nelle dispense del corso liceale tenuto nel 1914, gettare un ponte fino a Courbet: «Caravaggio è la fondazione essenziale su cui imposta la tradizione di nuova plasticità ottenuta in materia pittorica e coll’ausilio della luce…»”.
In seguito, a Caravaggio e ai suoi seguaci lo storico dell’arte dedicò molti dei suoi studi, dal saggio del 1913 su Mattia Preti, a quelli su Battistello Caracciolo, sui Gentileschi padre e figlia, fino alla monografia Caravaggio del 1952, collezionando allo stesso tempo una serie di opere in relazione con i suoi interessi. Nella sua dimora fiorentina, la villa Il Tasso, oggi sede della Fondazione a lui intitolata, ha raccolto un numero notevole di opere di maestri di tutte le epoche, ma il nucleo più rilevante è proprio quello che comprende le opere di Caravaggio e dei cosiddetti “caravaggeschi”, acquistate da lui o dalla moglie.
Nella prima sala alcuni dipinti ci introducono al clima artistico del manierismo lombardo e veneto, in cui si è formato Caravaggio. Tra i suoi predecessori, troviamo Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti, e soprattutto Lorenzo Lotto (1480-1556/57), del quale sono esposte quattro tavolette di santi. Come scriveva Longhi nel 1911 “Lotto è un luminista immenso, che va oltre Vermeer”.
È a lui, sempre secondo Longhi, che Caravaggio deve la sua prima maniera luministica. Nelle sale successive sono rappresentati grandi artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla rivoluzione figurativa di Caravaggio. Anche questa volta, è stata evidenziata nell’allestimento una frase di Longhi:
“Dopo il Caravaggio, i ‘caravaggeschi’. Quasi tutti a Roma, anch’essi, e da Roma presto diramatisi in tutta Europa. La ‘cerchia’ si potrà dire, meglio che la scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regola fissa; e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari”.
Tra questi grandi “spiriti liberi” troviamo in mostra Carlo Saraceni (1579-1620), con ben tre tele. Saraceni, detto anche Carlo il Veneziano, fu un pittore di spicco nella Roma del primo Seicento, tanto da avere importanti committenze e una fama che travalicava l’Italia. L’interesse crescente per Caravaggio portò il Veneziano a una maggiore attenzione ai dettagli naturalistici e alla ricerca di effetti chiaroscurali, ma il contrasto tra luce e ombra è più sfumato rispetto a Caravaggio, come vediamo nella Giuditta con la testa di Oloferne (1618), di chiara impronta caravaggesca, mentre il Ritrovamento di Mosè (1610 ca.) riflette l’attaccamento all’eredità veneziana e la lezione del suo maestro Adam Elsheimer.
Il romano Angelo Caroselli (1585-1652) è presente con l’Allegoria della Vanità (olio su tavola, 1620), un’opera che rispecchia il suo interesse per le figure femminili, a volte misteriose e conturbanti, come le maghe agghindate come donne di piacere. Le è accanto l’affascinante Maria Maddalena penitente (1610-13) di Domenico Fetti (1589-1623), che è influenzato dalle novità luministiche di Caravaggio, ma anche dalla pittura veneta.
Tra i capolavori del primo caravaggismo spicca un gruppo di cinque tele raffiguranti Apostoli (1612 ca.) del giovane Jusepe de Ribera (1591-1652): sono state eseguite prima del suo trasferimento a Napoli, dove sarebbe diventato uno degli esponenti più importanti della pittura napoletana del Seicento.
Altro grande nome è Battistello Caracciolo (1578-1635), tra i primi seguaci napoletani del Caravaggio, presente con il suo Cristo morto trasportato al sepolcro, di grande impatto emotivo e allo stesso tempo elegante e raffinato nelle anatomie delle figure e nel decorativismo delle preziose stoffe raffigurate.
Di Valentin de Boulogne (1591-1632), il più acclamato dei caravaggeschi francesi, è La Negazione di Pietro (1615-17), un episodio evangelico che sembra quasi una scena di taverna, con un preciso riferimento alla famosa Vocazione di San Matteo di Caravaggio, conservata nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi. Una nota particolare è data dal fatto che i soldati giocano a dadi al di sopra di un sarcofago istoriato.
Questo capolavoro, che è appartenuto anche a papa Clemente XIV, è stato recentemente esposto al Metropolitan Museum of Art di New York e al Museo del Louvre di Parigi.
Troviamo in mostra anche alcuni artisti fiamminghi e olandesi, come Dirck van Baburen (1594-1624), la cui Cattura di Cristo con San Pietro che recide l’orecchio di Malco (1616-17) è stata una delle prime opere acquistate da Longhi; Gerrit van Honthorst (1592-1656), noto come Gherardo delle notti per via delle sue scene “a lume di notte” (è presente l’opera Monaco che legge, del 1618 ca.); e soprattutto Matthias Stom (o Stomer, 1600 ca. -1649), anche lui attratto dalle scene notturne rischiarate da luci artificiali. Il suo Annuncio della nascita di Sansone (1630-32) sembra collocarsi nel periodo giovanile per i riflessi rilucenti di matrice fiamminga, evidenti nell’angelo, mentre la Guarigione di Tobit (1640-49 ca.) risale al periodo italiano, e più precisamente siciliano.
Diversi sono i soggetti amati da Caravaggio e riproposti da altri pittori, come per esempio David con la testa di Golia (1630), del napoletano Andrea Vaccaro, Giuditta con la testa di Oloferne (1630) di Francesco Cairo o il San Girolamo del Maestro dell’Emmaus di Pau. Al Maestro dell’Annuncio ai pastori, attivo tra il terzo e il quinto decennio del Seicento, si deve una monumentale Adorazione dei pastori. Sono presenti anche due piccoli ma significativi paesaggi di Viviano Codazzi e Filippo Napoletano.
Tra gli altri grandi nomi troviamo Bernardo Strozzi, Giovanni Andrea De Ferrari, Gioacchino Assereto, Carlo Ceresa, Pietro Vecchia e il tedesco Eberhardt Keil, detto Monsù Bernardo, autore di una umanissima Pastorella addormentata (1655 ca.).
Del calabrese Mattia Preti (1613-99), l’artista che Longhi definì “il terzo tra i geni pittorici del Seicento italiano”, dopo Caravaggio e Battistello Caracciolo, sono in mostra due tele: Concerto a tre figure del 1630 ca. e Susanna con i vecchioni (1656-59).
In entrambe le opere è evidente il fascino che Caravaggio esercitò su Mattia Preti, tanto da seguirne le orme recandosi da Roma a Napoli, e poi a La Valletta, dove avrebbe finito i suoi giorni come cavaliere dell’Ordine di Malta.
La mostra chiude in bellezza con due bellissime tele di Giacinto Brandi (1621-1691), un altro pittore di successo della Roma barocca. Si tratta di Santo certosino in lacrime (1665 ca.), che Longhi aveva ricevuto in dono dal pittore e critico bolognese Nino Bertocchi e teneva davanti al suo letto come memento mori, e di San Sebastiano curato dagli Angeli (1660-70), secondo Longhi “una delle opere più perfette del barocco italiano”, la cui tavolozza preziosa si accorda con il dinamismo delle figure quasi scultoree.
La mostra è consigliabile per la grande qualità delle opere esposte, selezionate tutte da Longhi, e anche l’allestimento è gradevole. Di ogni pittore è tracciata una breve biografia e notizie sulle opere esposte, in italiano e in inglese. Peccato che nella biografia dedicata a Brandi venga ancora riportato “Poli” come luogo di nascita di questo artista, nato invece a Roma, come ha documentato la studiosa Guendalina Serafinelli, autrice del catalogo ragionato delle opere di Giacinto Brandi, edito da Allemandi nel 2015.
Nica FIORI Roma 28 Giugno 2020