di Rita RANDOLFI
L’11 maggio sembra una data fatidica per Roma e, se associata ad un anno bisestile come il 2020, con tutto quello che sta accadendo a livello mondiale, semina letteralmente il terrore tra i più superstiziosi.
Solo nove anni fa i mass media seminavano il terrore sbandierando ai quattro venti la previsione, secondo il calendario maya, di un terremoto catastrofico che si sarebbe abbattuto sulla città eterna l’11 maggio. E invece gli abitanti dell’Urbe si sono svegliati di soprassalto l’11 maggio dell’anno in corso, alle ore 5.03 del mattino, per un sisma di tipo sussultorio di magnitudo 3.3, con epicentro Fontenuova.
Fortunatamente non si sono registrati danni né a persone, né a cose,ma la domanda che è sorta e che tormenta persone di ogni età è la seguente: «Ma a Roma il terremoto è un evento possibile?» In frangenti come questo, infatti, i romani ripetono come un mantra che la città sotto è vuota, convincendosi della sua immunità. La realtà però è un po’ diversa, e nonostante il Colosseo, venga additato come un baluardo indistruttibile, simbolo della storia che ha attraversato i secoli senza disturbare, documenti più o meno noti testimoniano che in più di un’occasione la terra ha tremato anche a Roma.
Nel 443 d.C. un terribile terremoto, raccontato persino da Paolo Diacono, fece crollare i portici e le statue del Teatro di Pompeo, la navata centrale della basilica di San Paolo fuori le mura e una parte dell’anfiteatro Flavio, che subì restauri ad opera dei Praefecti Urbi Flavio Sinesio Gennadio Paolo e Rufio Cecina Felice Lampadio. Il Colosseo fu oggetto di interventi di ripristino nel 470 sotto il console Messio Febo Severo e tra il 484 ed il 508, durante la prefettura di Decio Mario Venanzio Basilio, in quanto un violento sisma aveva distrutto una parte delle arcate e delle gradinate interne.
Nell’801 il tetto ed i portici esterni della basilica di San Paolo fuori le mura rovinarono nuovamente a seguito di scosse che colpirono anche il cimitero dei Santi Nereo e Achilleo, sulla via Ardeatina, e la parte superiore del portico e delle gradinate del Colosseo.
Altri eventi simili si verificarono nel 1091 e nel 1231, ma sicuramente l’evento più disastroso si verificò nel 1348, e interessò tutto l’Appennino centrale. A Roma franò il campanile di San Paolo fuori le mura, la parte sommitale delle torri delle Milizie e dei Conti, la volta della basilica di San Giovanni in Laterano, e danni vennero registrati a San Pietro, a Santa Maria in Aracoeli, e naturalmente al Colosseo.
Il dissesto fu descritto, tra gli altri, anche dall’attonito Francesco Petrarca, il quale restituì l’immagine di una città ferita e devastata, che mai prima di allora aveva vissuto un tale incubo. Il papa Clemente VI, in previsione dell’imminente giubileo del 1350, si affrettò a promuovere restauri alle basiliche, ricordati dalle fonti cronachistiche dell’epoca.
In ogni caso, sembra che dopo quella data, l’Urbe abbia vissuto un periodo di relativa tranquillità almeno fino al 1703, anno in cui un sisma provocò, oltre a danneggiamenti sugli edifici, anche qualche vittima.
Ma nel secolo successivo la terra ricominciò a tremare.
Nel 1806 alcune scosse compromisero la statica dei lati liberi dell’anello più esterno dell’anfiteatro Flavio; in particolare chiedeva attenzione la situazione dei conci pericolanti del terzo anello sul lato ovest. Intervenne l’architetto Raffaele Stern, che aggiunse lo sperone in laterizio, tamponando le prime due arcate per ogni ordine. La notte tra il 21 ed il 22 marzo del 1812 Roma fu nuovamente colpita da un terremoto, che non risparmiò gli edifici del centro storico. Il fenomeno emerge chiaramente dalla lettura delle carte private di alcune famiglie nobiliari, costrette a prendere provvedimenti in tempi brevi. Tra i fabbricati coinvolti vi era anche quello dei Lante, in piazza dei Caprettari, in verità costituito da due stabili comunicanti internamente per via di scale, definiti nei documenti «Palazzo», con doppio ingresso uno su piazza dei Caprettari al civico 70 (figg. 1, 1bis)
e uno su via del Teatro Valle al n. 41 (fig. 2) ,
e il «Palazzetto» con un accesso in via Monterone n. 84A (fig. 3) e l’altro in via del Teatro Valle ai civici 48, 49[1].
Alessandro Lante, dal 1816 cardinale, che allora dimorava nell’edificio, si affrettò a contattare Virginio Bracci, architetto di fiducia della famiglia, affinché fornisse un «Parere sui danni cagionati» da tale fenomeno.
L’esperto suddivise la sua relazione in più parti, e dopo aver descritto le lesioni più consistenti, che interessarono in particolare la loggia dell’ultimo piano, esaminò anche gli altri ambienti, dedicando particolare attenzione al cortile del palazzo grande, dove
«Nel sito della fontanella che resta al pian terreno del Palazzo grande dell’Ecc.ma Casa Lante nel lato destro della facciata e precisamente nel muro che divide esso palazzo Lante dall’annesso palazzetto si è riconosciuto che i due muri tramezzi, che intestano con il muro della facciata [h]anno indissolubilmente strapiombati all’altezza circa del palazzo per cui da qualche tempo sono stati sbadacciati con legni a traverso, che si contrastano tra loro, e formano quasi un arco di legname. La causa immediata di questo danno può attribuirsi alla spinta delle due volte delle camere contigue, cioè la cucina, che resta alla destra sotto al palazzetto, e la credenza antica, ove è la fontana, e che resta alla sinistra sotto il palazzo grande».
Con l’occasione l’architetto effettuò persino un’indagine sulle condutture dell’acqua che, difatti, risultarono compromesse, per cui propose un restauro generale, che prevedeva la tamponatura della loggia, il rifacimento dei tetti, la sostituzione sia dell’arco di legno con uno in muratura, sia dei materiali degradati con altri più resistenti.
Il ripristino fu condotto materialmente dall’equipe di muratori diretti dal capomastro Gregorio Ripetti, che di lì a poco diventerà il fedele collaboratore del figlio di Virginio, Pietro, il quale sostituì il padre a partire dal 1815, anno della morte.
Ancora nel 1825 Pietro Bracci affermava:
«I danni che mi è stato ingiunto di esaminare nel Palazzo spettante all’Ecc.mo Patrimonio Lante consistono in alcune lesioni nell’arco e parapetto del Loggione coperto ed in altre crepaccie e distacchi nel muro divisorio colla casa spettante alli sig.ri Maccarani. In quanto alle lesioni del parapetto ed arco del loggione verso mezzogiorno non sembra che abbiano un motivo recente di risentimento, ma piuttosto che esistano da molto tempo, prodotte forse da assestamento di fabbrica e da scossa di terremoto, oltre però il danno del muro esiste ancora un qualche disordine nel legname del tetto che o per la scarsa lunghezza o per mossa protezione si vede poco posato sulli sottoposti travi delle armature chiamati Paradossi. Non sarà difficile di provvedere a questi danni primieramente col murare ad una testa di mattoni tutto il vano del balcone e col inzeppare tutte le crepacce che si vedono sul parapetto e sul muro dell’arco, curando sempre di collegarli con smorze e legature e buona calce e mattoni, quindi riassettare il tetto in quella porzione al posto del pianellato, e tenendo legati tra loro quegli barcarecci che si vedono poco addossati con sbarre di ferro gettone chiodati ed ambedue segni che l’intestano.
Ed ancora:
“Di maggior conseguenza potrebbe essere altro danno nel muro divisorio colla casa Maccarani giacché dimostra che il muro di facciata abbia fatto un qualche distacco, ed a tal fine da molti anni a questa parte vi fu posta una catena di ferro al posto del primo appartamento. Osservasi ancora nel secondo appartamento abitato da Monsignor Arcivescovo di casa altre crepe oblique che dimostrano la continuazione del distacco, sarebbe opportuno che in questo piano di mettere una catena di ferro coi rispettivi staffoni e paletti anche tenere a freno il muro della facciata. Per far fronte al lavoro della loggia sarà sufficiente la somma di s. 25. L’apposizione delle catena e tutti gl’altri lavori al muro divisorio colla casa Maccarani apporterà s. 40. Tanto mi occorre di riferire questo dì 4 ottobre 1825. Pietro Bracci architetto».
Dunque se Virginio era intervenuto soprattutto sui muri di confine tra palazzo grande e palazzetto (fig.4, 5),
Pietro invece si occuperà di restaurare l’altro lato, quello limitrofo a palazzo Stati Maccarani di Brazzà (fig. 6).
Le uscite registrate nei libri dei conti della famiglia dimostrano che il duca Giulio sfruttò la situazione non solo per portare a termine i lavori iniziati da Virginio, ma per suddividere internamente i due stabili di sua proprietà, in diversi appartamenti da affittare per far fronte ad una nuova situazione finanziaria decisamente sfavorevole.
Dal canto suo Pietro Bracci si dimostrerà un architetto capace ed accorto, sensibile alle esigenze dei suoi committenti, che soddisferà in tutto e per tutto, conferendo agli edifici Lante l’aspetto che tutt’oggi mantengono, anche se con altre sostanziali modifiche apportate soprattutto all’interno nel secolo scorso dai successivi proprietari.
I documenti rintracciati illustrano nello specifico le modalità di intervento praticate nel XIX su edifici antichi, costituendo materiale di studio non solo per gli storici dell’architettura e per i restauratori, ma anche per i geologici, i sismologi e per quanti studiano i fenomeni naturali ed i movimenti della terra.
Noi ci accontentiamo del fatto che i Maya non hanno indovinato, e continuiamo a ripeterci che Roma, sotto, è vuota.
Rita RANDOLFI Roma 17 maggio 2020
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