Il “Trionfo della morte” torna al museo Diocesano di Torino. La vicenda e il valore simbolico nel libro di Arabella Cifani e Franco Monetti

di Massimo FRANCUCCI

Giovanni Battista Della Rovere: il Trionfo della morte ritrovato

Le molteplici vie della produzione artistica hanno sempre dato vita ad uno sfaccettato e diversificato modo di intendere l’opera d’arte e la sua creazione, ed è dunque compito dello storico il ricostruire tutti questi gangli vitali senza cedere alla tentazione di limitarsi a quel che si potrebbe definire mainstream. Attenendosi a questo rigore scientifico e disciplinare è finalmente tornato alla fruizione presso il Museo Diocesano di Torino, accompagnato da un’agevole quanto esauriente pubblicazione a cura di Arabella Cifani e Franco Monetti (Effatà editrice) e da una serie di eventi collegati, il Trionfo della morte di Giovanni Battista Della Rovere, che aveva lasciato la chiesa di San Francesco d’Assisi del capoluogo piemontese più di quarant’anni fa, in attesa di fondi per il suo restauro, che è stato finalmente completato grazie alla generosità dell’impresa Genta, e accuratamente realizzato dal laboratorio “Nicola” di Aramengo.

Il dipinto, dall’iconografia molto particolare, al contempo accattivante e respingente, pagava lo scotto di essere firmato e datato (Io. Bap. de Ruere taur. faciebat 1627) dal pittore Giovanni Battista Della Rovere, torinese, di cui nonostante alcuni elogi nella biografie settecentesche e alcune importanti novità presentate nel volume, non si sa poi molto. A volte confuso con l’omonimo pittore milanese attivo negli stessi anni, soprannominato il Fiammenghino, il nostro risulta già morto ancora in giovane età – la data di nascita andrà collocata tra il 1600 e il 1603 – nel 1634 allorché il padre, il miniatore Girolamo, che aveva un privilegio sulle immagini della Sacra Sindone, fece testamento, mentre l’ultimo documento che lo certifica ancora in vita risale a tre anni prima. La morte del suo autore nel fiore degli anni conferisce un senso di oscuro presagio a un dipinto dedicato al tema angosciante del termine della vita umana, alla natura effimera dell’esistenza che si sarebbe rivelata tale di lì a poco con l’epidemia di peste che avrebbe sconvolto l’Europa, tanto da trovare imperituro risalto letterario nell’epopea manzoniana, facendoci correre il rischio di perdere nell’oblio del passato un pittore dalla personalità peculiarmente interessante.

Intrigante, ad esempio, è la ricostruzione della sua formazione eterogenea che, a un primo apprendistato limitato al contesto artistico locale, in cui lo aveva bene introdotto il padre, avrebbe fatto seguire un soggiorno romano negli anni in cui l’Urbe occupava senza dubbi un ruolo trainante rispetto agli altri centri pittorici continuando ad attrarre da tutta Europa le maggiori personalità pittoriche dell’epoca. A Roma si trovava Giovanni Battista nel luglio del 1621 allorché venne richiamato in patria dal cardinale Maurizio di Savoia che, trasferitosi a sua volta a Roma, ivi sarebbe in breve tempo divenuto una delle personalità più importanti attraendo alla sua corte artisti, poeti e intellettuali di varia estrazione. Solo sei anni dopo, il pittore, chiamato a cimentarsi con il soggetto del Trionfo della morte ovvero dello Speculum humanae vitae, mostrava di aver preso contatto con i modi dei pittori di cultura contro riformata lombarda, quali Morazzone e Cerano, come sottolineato da Gianni Romano che nel 1989 ha dedicato un’attenta biografia alla famiglia Della Rovere (Dizionario biografico degli italiani, vol. 37): nella stessa occasione il dipinto in San Francesco veniva apprezzato quale straordinario ed emblematico apice della breve carriera dell’artista.

Come ricostruito da Arabella Cifani nel bel saggio dedicato al valore semantico del dipinto, esso è il risultato di una tradizione iconografica incredibilmente fortunata, iniziatasi con ogni probabilità con l’incisione di Andrea Andreani (Mantova, 1560-1623),

tratta da un disegno senese di Giovanni Fortuna Fortunio del 1588, la cui diffusione ha però travalicato perfino le Alpi, potendosene contare esempi dalla Spagna alla Polonia. Incorniciato da un’architettura tardo manierista in cui abbondano richiami all’antico, come la coppia di obelischi sormontati da teschi e croci, il teatro della morte scrittura una miriade di elementi volti a sottolineare il valore effimero dell’esistenza terrena, come le Parche pronte da un momento all’altro a recidere il filo della vita, o la clessidra che sul timpano sta per gettare in basso una roccia ed è affiancata da due geni alati che abbassano in contemporanea le loro torce a simboleggiare l’estinzione del ciclo vitale. La morte ha fatto il suo ingresso trionfale nel creato con il primo uomo e con la mela che, simbolo del peccato originale, viene infatti condivisa da Adamo ed Eva: pentiti del loro gesto scellerato, ma è troppo tardi, se ne stanno assisi sulla quella ruota che rappresenta il vero fulcro dell’immagine per rammentare, perfetto memento mori, che la vita terminerà per tutti, anche per papi, imperatori, vescovi, sultani, re orientali, dogi e cardinali. La ruota gira per tutti, come si suol dire, e se la morte è certa, la vita è di conseguenza effimera come le bolle di sapone con cui il putto al suo perno è intento a giocare.

Il tema del trionfo della morte aveva avuto i suoi incunaboli in età medievale, allorché si andavano diffondendo nelle chiese e nei cimiteri le raffigurazioni della grande mietitrice con la falce, presentando spesso l’episodio dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti, ma avrebbe goduto di una fortuna capillare anche in età di controriforma e nella successiva epoca barocca. Nel dipinto va in scena il teatro del mondo, in cui tutto è una finzione cui porrà fine, ma nessuno sa quando, la morte stessa quale deus ex machina di questa inane recita: tali risvolti macabri vengono mitigati dal ricorso a raffigurazioni complicate, quali allegorie ed emblemi che, tipici del raffinato contesto manierista cinquecentesco, ci ricordano l’importanza del modello a stampa, più antico.

Allo stesso modo si addicono bene a quella cultura ormai prossima a scomparire all’apparir del vero seicentesco i riferimenti aulici alla mitologia antica, alla letteratura e, come più adatto a un’incisione che a una biblia pauperum come prescritta dal Concilio di Trento, il ricorso a numerose iscrizioni latine, tra le quali la celebre Bonis Bona Malis Mala. Di lì a poco il genere della Vanitas avrebbe conquistato nuovi spazi fino a venire apprezzato perfino come quadro da stanza, da collezione, spesso associato ad immagini non immuni da implicazioni pruriginose come ci si può aspettare da un tempo alquanto ipocrita quale fu il Seicento. Non è difficile rilevare, infatti, l’ardua conciliazione tra questi temi millenaristici e l’incessante ricerca del divertimento e dell’appagamento tipica del secolo barocco, possibile solo considerando il mondo un teatro dell’effimero in cui tutto è apparenza e nulla è vero, – si giustifica così il frequente ricorso alla prospettiva ingannevole ed al trompe-l’oeil – un palcoscenico in cui si debba nonostante tutto recitare una parte che consenta di strappare, nell’aldilà, il velo di Maya.

Ed è così che lo Speculum humanae vitae di Giovanni Battista Della Rovere si pone sul perfetto crinale tra due epoche e tra due mondi così diversi e affascinanti.

Massimo FRANCUCCI    Roma  Gennaio 2019