di Stefania MACIOCE
Alessandro Zuccari, Cantiere Caravaggio. Questioni aperte • indagini • interpretazioni, Roma De Luca, 2022
Cantiere Caravaggio è il titolo del recentissimo volume di Alessandro Zuccari, un titolo che offre un appropriato riferimento al contenuto. Caravaggio, la cui popolarità non mostra segni di decrescita, è infatti oggetto di continue indagini, talvolta spigolature maniacali, ma anche sorprendenti colpi di scena tanto che alcuni anni fa Richard Spear parlò di Caravaggiomania. La mole più che consistente degli studi sul pittore, cui si aggiungono di continuo contributi critici ,potrebbe disorientare uno studioso privo della consolidata acribia di Alessandro Zuccari: basti pensare che alla voce Caravaggio della Bibliotheca Hertziana, che prendiamo come punto di riferimento, corrispondono più di 4500 rimandi bibliografici, cui vanno ad aggiungersi tutti i saggi specifici inerenti argomentazioni diverse: dall’ambiente, alle frequentazioni, ai committenti che nella storia si relazionano all’opera del Merisi, il cui nome tuttavia non compare in copertina.
Il sottotitolo è anch’esso indicatore di contenuto: dalle questioni ancora aperte, alle indagini recenti sui sui dipinti, sulla cultura e sull’ambiente dell’artista. La disamina dei vari argomenti è condotta secondo una rigorosa impostazione metodologica, basata in primis sul metodo storico, sull’analisi e il confronto tra le fonti antiche. Si tratta di una indicazione di metodo offerta agli studenti universitari, cui il libro è dedicato, che trova il suo fondamento nella lezione su Caravaggio iniziata da Lionello Venturi un secolo fa, secondo un indirizzo di scuola ben delineatosi poi nel tempo.
Nel volume di Alessandro Zuccari si coglie infatti l’eredità di quella fondamentale esperienza metodologica, maturata dallo studioso a partire dagli scritti di Lionello Venturi, di Giulio Carlo Argan e poi di Maurizio Calvesi. Le fonti storico- artistiche costituiscono un elemento guida nell’analisi di Caravaggio e della sua opera tanto da divenire una sorta di fil rouge all’interno del volume, contrassegnato da una meticolosa attenzione alle fonti antiche.
L’indagine compiuta dall’autore interessa vari piani di lettura: dalla risistemazione della cronologia caravaggesca, riorganizzata in base alle nuove acquisizioni documentarie relative agli anni romani del genio lombardo, che si ipotizzava avessero avuto inizio nel 1592 e che, invece, sono documentati partire dal 1595/96. Ne consegue un rinnovato percorso stilistico del pittore e del catalogo delle sue opere, anche se l’autore accoglie e valuta di volta in volta tutte le novità e gli apporti critici, mantenendosi aperto ad una oggettiva flessibilità di giudizio.
Tangibile si rivela poi l’ eredità delle ricerche condotte negli anni ‘80’ che restituivano Caravaggio ad un ambiente a lui contemporaneo, demolendone l’aura romantica di artista ribelle e maledetto, in favore di una personalità attenta ai valori religiosi del suo tempo particolarmente incline alla spiritualità coltivata nell’Oratorio di San Filippo Neri. Tale imponente eredità di studio e di pensiero approda ora ad una valutazione complessiva dell’operato caravaggesco attraverso la selezione di alcune opere emblematiche di un modus operandi ed anche cogitandi dell’artista.
I singoli soggetti rappresentati sono il prodotto di un pensiero che a sua volta riflette non soltanto l’originalità creativa del pittore, ma anche il contesto, l’ambiente e la cultura in cui egli opera. La conoscenza di un preciso contesto storico irrobustita da continui rimandi bibliografici, nonché dagli sorprendenti risultati delle indagini diagnostiche condotte in tempi recenti da Rossella Vodret sui dipinti di Caravaggio[1] costituiscono l’ossatura di questo volume.
Nella prima parte del libro si affronta la riflessione critica sulla dibattuta questione del disegno. L’idea che Merisi fosse avulso dalla pratica del disegno si è consolidata nel tempo sulla base dell’assunto di Roberto Longhi che, nel 1914, ravvisava in Caravaggio il ripudio del valore fondativo del disegno così evidente nella tradizione pittorica fiorentina. L’osservazione longhiana, non priva di una sostanziale veridicità, basti pensare alla radice veneta riscontrata sin dai tempi antichi nella pittura di Caravaggio, si fonda però sulla lettura parziale e troppo radicale di alcune fonti. Come a suo tempo aveva osservato Maurizio Calvesi, in alcuni contratti sottoscritti dal pittore a Roma con i propri committenti, compare la richiesta fatta a Caravaggio di attenersi allo “sbozzo”, termine con cui si indica un progetto grafico o un bozzetto dipinto. Così anche a proposito della perduta Natività di Palermo, e ancora per la Morte della Vergine di Santa Maria della Scala, nel contratto stipulato con Laerte Cherubini, l’artista si impegna a dipingere secondo il designum preliminare; a ciò si aggiungono i risultati diagnostici sul Suonatore di liuto, che smentiscono l’assertività longhiana e aprono al dibattito.
A tal proposito molto e giustamente si è insistito su un contatto diretto di Caravaggio con l’ambiente veneziano secondo una consuetudine diffusa, basti pensare al Cavalier d’Arpino che si trova a Venezia nel 1598 per studiare le collezioni veneziane di cui scrive al cardinale Pietro Aldobrandini. Al momento le ricerche non hanno portato a conoscenza riferimenti documentari circa una possibile presenza di Caravaggio a Venezia. Ma basterà risalire al giudizio che il grande teorico e accademico Federico Zuccari ebbe a proposito dei teleri Contarelli: egli dichiarò infatti di non vedervi altro “che il pensiero di Giorgione”;
con ciò egli si riferiva alla cifra speciale del naturalismo giorgionesco, ma ancor più alla sua poetica degli affetti, come ha rilevato Salvatore Settis, presentando il volume di Alessandro Zuccari.[2]
Dopo aver analizzato attraverso le fonti storico artistiche la consistenza reale di quella definizione di pittura “dal naturale” applicata così di frequente alla pittura di Caravaggio, l’autore coglie proprio nell’ambiente veneziano il ruolo radicalmente innovativo svolto da Tintoretto nel trattamento della luce. Come ha sottolineato Francesca Cappelletti[3] la lettura della Cena in Emmaus di Caravaggio, si basa sulla dialettica della luce e dell’ombra, espressione di una esperienza spirituale che da Caravaggio si ripercuote a distanza in Rembrandt e diviene connotato della pittura del ‘600, con gemmazioni in ambienti diversi che approdano alla felice espressione di una ‘Europa della luce’.
La seconda parte del libro concerne alcune interpretazioni specifiche particolarmente legate alla valutazione di un clima culturale e letterario che fa da contorno ai dipinti come, ad esempio, il Ragazzo con vaso di rose.
Si tratta innegabilmente di un’invenzione caravaggesca, ascrivibile ai cosiddetti iuvenilia del pittore, spesso mezze figure giovanili; si rintracciano a tal proposito elementi documentari relazionabili a questo dipinto la cui autografia è però dubbia. Si tratta dunque di un soggetto che rimanda a soggetti pittorici la cui natura, a metà tra “il devoto et profano,” riporta all’invenzione caravaggesca, il cui testo originale è andato perduto.
La complessa e dibattuta vicenda dei cosiddetti “doppi” di Caravaggio è un nodo critico centrale: si incontrano infatti casi diversi e non assimilabili, che presuppongono un attento vaglio degli aspetti documentari e filologici e ancor più una disamina degli aspetti tecnico-stilistici, attraverso un puntuale confronto delle versioni in esame. Nel gruppo delle doppie versioni, la Medusa nota come la “rotella Murtola” è un caso unico e la sua vicenda, come pure la sua autografia, sono oggetto di attenti studi.
Autorevoli studiosi considerano la ‘Medusa’, oggi in collezione privata di Milano, una prima versione, di proporzioni inferiori, del celebre scudo da parata degli Uffizi dipinto da Caravaggio per il cardinale Francesco Maria Del Monte e da questi donato al granduca Ferdinando de’ Medici. Dopo un’iniziale posizione negativa, Zuccari accoglie l’ipotesi, che si tratti effettivamente di una prima versione databile al 1597-1598, della straordinaria invenzione destinata a Ferdinando de’ Medici, sebbene egli non ritenga autografa la firma che il pittore avrebbe dipinto sul bordo dello scudo. Cercando di dipanare la questione, intervistando anche alcuni protagonisti della vicenda del quadro tra attribuzioni diverse, da Borgianni a Ligozzi, attraverso un’accurata disamina del percorso critico e diagnostico dell’opera, lo studioso giunge ad ammetterne l’autografia cui fa da supporto la valutazione di un esperto come Marco Cardinali:
« […]Al di sotto della superficie che mostra un esatto duplicato della versione più nota e conservata agli Uffizi, le indagini – rese note nella documentata pubblicazione del 2011 – hanno rivelato una gestazione lunga e travagliata, attraverso due redazioni distinte, l’una condotta graficamente e la seconda in abbozzo pittorico, che solo in parte accoglie e sviluppa le tracce disegnative. L’assoluta mancanza di corrispondenza tra il disegno sottogiacente la “rotella Murtola” e la redazione dipinta degli Uffizi – dove peraltro non si ravvisano tratti disegnativi né modifiche in corso d’opera – rendono improponibile una derivazione di quella da questa….».[4]
Altra problematica interessa il riesame dei laterali Contarelli, dalle prime radiografie del 1951 ai nuovi dati emersi dalle analisi chimiche, dalle fotografie agli infrarossi e dalle nuove radiografie realizzate durante il restauro del 1965-1967, non meno rilevanti sono state le indagini diagnostiche del 2009, che hanno portato a nuove acquisizioni che permettono di fare alcune considerazioni sull’iconografia delle tele caravaggesche.
Le recenti osservazioni interessano le complesse fasi di realizzazione del Martirio di san Matteo: l’analisi degli strati pittorici ha permesso di stabilire che il Merisi non realizzò due parziali versioni anteriori a quella definitiva, come si supponeva in precedenza, bensì due redazioni complete che presentano entrambe dei pentimenti. Nel progettare la nuova versione del Martirio di San Matteo, Caravaggio si attenne in modo scrupoloso al programma stabilito, forse su sollecitazione dei committenti. Tali probabili interferenze si notano, come riferisce Zuccari, soprattutto nella Vocazione di San Matteo, in particolare nella figura di san Pietro, aggiunta in un secondo momento.
La presenza dell’apostolo accanto al Cristo rimarca inoltre l’azione salvifica di Cristo. Analogamente la figura di san Matteo, che nella prima versione del Martirio di San Matteo non è riverso a terra, ma in piedi sulla destra della scena, vestito con paramenti liturgici di tipo orientale. La rappresentazione di Matteo inoltre, come un prete di rito romano ucciso presso l’altare, poteva essere connessa a un fatto di cronaca, segnalato proprio da Zuccari, relativo all’uccisione di un eretico nei pressi di un altare: questo episodio attirò l’attenzione di Francesco Maria Del Monte, proprio nei mesi in cui il pittore lavorava ai laterali Contarelli. Le valenze politico-religiose, cui si aggiunge il celebre confronto con Michelangelo e la tradizione cinquecentesca nella scena della Vocazione di Matteo, mostrano come Caravaggio, creatore di uno stile fortemente innovativo, abbia avuto la capacità di coniugare le più autorevoli tradizioni, e in particolare il cromatismo e il realismo della pittura veneto-lombarda con la lingua tosco-romana rappresentata al massimo livello dal Buonarroti.
Un’altra problematica specifica riguarda l’indagine della complessa iconografia delle Sette Opere di Misericordia, un dipinto incredibilmente unitario sotto il profilo compositivo sebbene ripartito in due zone, una “celeste” e una terrena. Si ravvisano in esso sedici azioni simultanee, compiute da diversi personaggi dipinti a grandezza “naturale”, che si concentrano con la medesima efficacia in uno spazio ridottissimo. In alto la Vergine col Bambino come sorretta da due angeli in volo, uno dei quali abbraccia l’altro, nella parte inferiore si addensano, e talvolta interagiscono i protagonisti fortemente individualizzati, delle sette opere di misericordia.
Si tratta di un dipinto studiatissimo in ogni suo particolare iconografico e dunque assai colto in merito ai rimandi e alle diverse fonti. L’affacciarsi sulla scena di Maria “Nostra Signora della Misericordia”, si riferisce al titolo connesso alla dedicazione che la chiesa confraternale aveva avuto fin dall’origine (1606-1607) e mantenuto in occasione della sua riedificazione (1658- 1671). Il manto verde scuro di Maria, che giunge quasi a lambire gli astanti, è la creativa parafrasi del tradizionale mantello protettivo della Mater Misericordiae. La scelta iconografica, i cui precedenti sono ampiamente ricostruiti da Zuccari, riconduce all’ambiente filo-pauperista della SS. Trinità, cui afferivano molti collezionisti e committenti di Merisi, in gran parte vicini alla religiosità borromaica e all’Oratorio Romano, fondato da Filippo Neri. L’insieme di questi dati conferma gli orientamenti religiosi e culturali del pittore, come pure le sue frequentazioni romane.
Nel riesame della pittura di Caravaggio diviene elemento significativo comprendere la natura del contesto in cui maturarono specifici orientamenti spirituali, come pure il peso crescente delle tematiche pauperistiche nella sua pittura degli anni romani. Proprio in base alla sua pregressa esperienza, il lombardo saprà trattare in modo impareggiabile il tema assegnatogli a Napoli: qui tra l’altro, nella Congregazione del Pio Monte, il pittore deve aver trovato esponenti delle famiglie Carafa e d’Aragona. Si tratta di famiglie imparentate con i Colonna, il casato che sostenne il pittore lungo l’intera sua carriera, continuando a proteggerlo nella fuga da Roma e durante i suoi soggiorni partenopei. La scelta di affidare a Merisi, giunto da poco nella città partenopea, un’opera così altamente rappresentativa del sentire religioso della giovane istituzione, documenta inoltre, come si evince dalle Icones operum misericordiae di Giulio Roscio del 1586, che «La fede se non ha le opere è morta» .
Rapportabile alla trattatistica post-tridentina è anche l’affascinante essenzialità riscontrabile nell’Annuciazione di Nancy la cui scarna composizione mostra una stretta connessione con il pauperismo di Carlo e Federico Borromeo come di altri austeri personaggi del tempo. Non a caso, lo stesso cardinal Federico usava ritirarsi «in una stanza nuda, dove erano soltanto una tavola rozza con un Crocefisso, una seggiola impagliata ed un saccone su due cavalletti».
Nel dipinto di Nancy si registra un intento di semplificazione e di adesione alle Scritture, poiché Caravaggio mira ad una figurazione essenziale che, attraverso uno sconvolgente realismo e un inedito utilizzo della luce, valorizzi i poveri elementi indispensabili al soggetto.
Nel suo trattato sulle immagini sacre pubblicato a Lovanio nel 1570, anche il gesuita Johannes Molanus esprime un pensiero analogo, tanto che Merisi non manca di dare rilievo a uno degli elementi essenziali indicati dal gesuita, e cioè il giglio cui viene conferita una forma tripartita per farne un simbolo trinitario. Si tratta di una scelta iconografica derivante da una complessa tradizione che poneva la questione del rappresentare ‘l’irrapresentabile’.
A tal riguardo Caravaggio elimina la consueta rappresentazione dello Spirito Santo, sostituendola con il digitus paternae dexterae che sovrasta la Vergine: egli affronta così in modo innovativo il tema dell’Annunciazione, senza discostarsi troppo dal testo evangelico, ma anzi offrendone una lettura dotta e originale.
Il dettaglio evidenziato da Zuccari, riguarda la presenza di un accenno all’inginocchiatoio presente nella nuvola dove compare l’angelo: si tratta di un particolare iconografico tipico dell’Annunciazione, reinterpretato in chiave “pauperistica” e trasformato con singolare creatività e straordinaria efficacia comunicativa.
Così anche la pala messinese con la Resurrezione di Lazzaro tiene conto di antiche tradizioni: è stato notato, infatti, che il corpo di Lazzaro appare “sospeso” tra la morte e la vita e allarga le braccia formando una croce, così da comporre una forma simbolo che prefiguri la morte e la resurrezione di Cristo. Come notava Roberto Longhi con la sua ineguagliabile prosa: «l’invenzione sublime del gesto di Lazzaro che stirandosi nell’emergere dal sonno eterno attraversa col braccio destro l’oscurità fino ad attingere, con la punta delle dita, la luce, e più in basso, il corpo madido, il sudario agghiacciante e la funerea natura morta di tibie e di teschi».
La pala messinese non intende però evocare spunti di derivazione protestante o il dibattito teologico sorto attorno alle teorie di Luis de Molina sulla cooperazione della grazia e del libero arbitrio, come qualcuno ha sostenuto. Essa esprime invece il drammatico confronto tra la vita e la morte, che tanto spazio aveva avuto sin dall’epoca patristica, a partire dalla teologia di san Paolo e degli altri scritti neotestamentari, sintetizzato nel e versetto della sequenza liturgica di Pasqua: Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus.
Nel dipinto è indubitabile come Caravaggio abbia voluto privilegiare la dimensione simbolica dei diversi elementi compositivi: lo si ravvisa esemplarmente nel valore semantico dei gesti compiuti da vari personaggi e dalla luce che rischiara, come un lampo, l’oscurità della scena. Il “motore” dell’azione è costituito dal braccio teso e dal dito puntato di Gesù di cui è stata riconosciuta la stretta affinità con l’analogo gesto della Vocazione di san Matteo, a sua volta ispirato alla potenza espressiva del digitus dextrae Dei della Creazione di Adamo di Michelangelo.
Si tratta tuttavia di un gesto antichissimo, derivato dalla Morte di Meleagro, una vera pathosformel, segno di una costante riflessione del pittore sui modelli antichi.
Il volume, raccoglie dunque una serie di approfondimenti su alcune opere cardine della pittura di Caravaggio, selezionate per delineare una sequenza evolutiva sul piano stilistico e compositivo, ma anche la persistente natura iconologica del realismo caravaggesco.
Esso infatti affonda le sue radici nel pensiero e nella cultura della storia che il pittore stesso vive, confrontandosi con il dibattito ideologico del suo tempo. E il fondamento storico del metodo adottato in questo libro, è un esempio significativo di quanto sia irrinunciabile la valutazione di un contesto entro cui un’opera d’arte vive. Come pochi Caravaggio ha avuto la capacità di analizzare la natura umana a tal punto da rendersi vicino alla sensibilità del nostro tempo. Egli non ha dipinto personaggi, ma persone vere, incomplete e fragili, ma anche cariche di passioni e di energia vitale. Nella sua straordinaria pittura si palesa una vera esperienza di vita, Caravaggio infatti resta nei suoi sensi: egli vede veramente ciò che sta guardando, manifestando così il suo profondo rispetto per la realtà umana e per la natura tutta, senza gerarchia alcuna. Come a proposito di Caravaggio sottolineava Lionello Venturi più di un secolo fa:
«Poiché nessun preconcetto di tipologia o di correzione al vero albergava nell’animo suo, appianata la via, semplificata la tecnica, un solo scopo poteva proporsi: scrutare l’uomo».
Si creava così il presupposto ideologico di una metodologia di indagine ancora oggi vitale, come attesta il bel libro di Alessandro Zuccari.
Stefania MACIOCE Roma 30 Otobre 2022
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