di Sergio ROSSI
Pubblichiamo in questo numero la seconda parte dell’articolo di Sergio Rossi dedicato al suo Viaggio numero 4 (in Olanda) e che l’autore ha voluto intitolare:
In Olanda: l’ambizione della pittura da Vermeer a Ovartaci II
Dopo l’intensa ed entusiasmante visita alla mostra di Vermeer, ci siamo concessi una pausa relax con una gita in battello tra i canali, per ammirare dall’acqua i palazzi e le case del “Secolo d’oro” e poi il bellissimo edificio del Nemo, il Museo della Scienza costruito da Renzo Piano agli inizi degli Anni Novanta con la sua forma che ricorda quella di una gigantesca prua di una nave, Museo che avevamo già visitato nel corso del nostro soggiorno precedente.
Quindi, sotto una pioggia battente, abbiamo raggiunto il ristorante Kaagman & Kortekaas, situato in una tipica stradina vicino al Dam, accogliente ma informale, che propone un’ottima cucina olandese sapientemente rivisitata e ha nei paté, nell’agnello e nella cacciagione (oltre al buonissimo pane servito in abbondanza accompagnato da un delizioso burro all’aglio) i suoi punti forti. Sempre accompagnati dalla pioggia insistente siamo poi rientrati in albergo attraversando una città francamente troppo mal illuminata, forse per un malinteso senso dell’ecologia e del risparmio energetico che non dovrebbe comunque mai prevalere sulla sicurezza degli abitanti.
Accanto al Rijks vi è il Museo Van Gogh che raccoglie la maggior collezione al mondo del grande Vincent e che noi già cinque anni fa avevamo visitato in stretto raccordo col museo Kröller Müller di Otterloo in modo da avere una visione veramente a 360 gradi di questo pittore. Otterloo la avevamo raggiunta comodamente da Amsterdam, in treno più taxi che ci aveva portato direttamente all’Hotel Gran Café Kruller, spartano ma pulito e confortevole e dove ho cenato con un’ottima fonduta di camembert. A mattino seguente, adeguatamente riposati, abbiamo raggiunto il Museo Kröller Müller dopo un bellissima passeggiata a piedi di alcuni chilometri all’interno del parco nazionale De Hoge Veluwe che occupa 5500 ettari di foreste, brughiere, pianure erbose e basse dune di sabbia e dove vivono diverse specie animali tra cui cervi, mufloni e cinghiali.
Naturalmente noi abbiamo attraversato il parco solo per un breve tratto iniziale fino al museo, che non è solo il secondo al mondo dopo quello di Amsterdam per opere di Van Gogh ma ospita anche una delle migliori collezioni d’arte contemporanea che io abbia mai visto. A volerlo è stata Helene Kröller Müller moglie di un ricco industriale e raffinata collezionista d’arte, che seppe riconoscere precocemente il genio di Van Gogh acquistandone molti dipinti. Il complesso è stato inaugurato nel 1938 su progetto di Henry Van De Velde, mentre il giardino delle sculture che ospita opere di Rodin, Henry Moore, Dubuffet, Fontana, Oldemburg e Serra, solo per citare alcuni nomi, venne aggiunto nel 1961 e una nuova ampia sala espositiva nel 1977. Come dicevo il Museo ospita al suo interno non solo un’ottantina di quadri di Van Gogh ma anche capolavori di Seurat, Odilon Redon, Mondrian, Picasso ed uno dei più struggenti e poetici quadri di Renoir, il Clown musicista [fig.1].
Tornando a Van Gogh, ho concluso il mio recente volume Caravaggio allo specchio tra salvezza e dannazione (Paparo editori, Napoli 2022) proprio con un confronto tra l’arte del Merisi e quella del Maestro olandese che non mi sarebbe stata possibile senza i miei viaggi ad Amsterdam ed Otterloo.
Come Caravaggio anche Van Gogh ha un rapporto totalizzante con il colore: solo che qui si passa dal troppo scuro delle prime opere, quasi impastate con la pece, ai bagliori esplosivi dell’ultimo periodo. Come se il Nostro, dopo aver saputo controllare la materia al nero, attraverso gli impasti densi e pieni che richiamano anche la pittura olandese del Seicento, dopo essersi impadronito di tutti i segreti delle mezze luci, dopo aver saputo ottenere la padronanza assoluta delle tenebre, novello Orfeo alla rovescia, abbia voluto guadagnare la luce del sole, inseguendo, fino all’autodistruzione, il sogno della luce assoluta, del giallo puro. Paradossalmente però, per lui le tenebre corrisposero alla vita e la luce alla morte, ribaltando, appunto, il messaggio caravaggesco che identificava le tenebre con il male e la luce con la salvezza; il viaggio di Vincent dal buio alla luce è un viaggio che porta alla morte.
E quest’accostamento con Caravaggio, per quanto possa apparire inconsueto, non è certo casuale. Tutta la pittura vangoghiana degli anni 1883-1885, la più legata alle tematiche sociali, si riallaccia infatti esplicitamente ai caravaggeschi olandesi del ‘600 ed alle loro scene di interni. È noto, del resto, l’interesse politico e religioso che il giovane Van Gogh nutriva per il mondo dei poveri e dei diseredati e la funzione sociale che egli voleva che avesse la sua pittura, una pittura nera e solida, terrigna, tutta immersa in un mondo senza luce, che però non è angoscioso, bensì ricco di una sua intima, ancorché dolorosa, dignità poetica. Capolavoro di questo periodo è senz’altro I mangiatori di patate del 1885 [fig.2], di cui esistono tra l’altro varie versioni preparatorie.
E a proposito di quest’opera così Vincent scriveva al fratello Theo:
“Potrà dimostrarsi un vero quadro contadino. So che lo è. Chi preferisce vedere il contadino col vestito della domenica faccia pure come vuole”.
A Van Gogh interessava invece parlare del “lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnati il cibo”.
E indubbiamente l’artista dimostra una assoluta capacità di far corrispondere forma e contenuto rendendo la semplicità e rozzezza della vita contadina attraverso una analoga semplicità e “rozzezza”, ovviamente solo apparente, dell’impianto cromatico e formale, attraverso l’essenzialità assoluta della resa pittorica. Essenzialità che tuttavia non poteva più essere sufficiente all’artista che ben presto si rese conto della reale impossibilità di aiutare in qualche modo le classi contadine attraverso la sua opera pittorica.
Questo scacco esistenziale di fondo porterà Van Gogh a tentare altre vie, da Parigi alla Provenza, pur senza abbandonare mai del tutto le componenti utopistiche e populistiche della sua arte. A contatto con la pittura impressionistica prima e con i colori violenti della Provenza poi, si attuerà in Van Gogh una sorta di esplosione cromatica che porterà alle estreme conseguenze quello che ancora era solo implicito nei quadri olandesi.
L’andamento stesso della pennellata, che prima era come compresso e centripeto, si fa espanso e centrifugo, secondo delle direttrici che dal centro si irradiano verso i lati e verso l’alto, come risulta ad esempio dall’Autoritratto con cappello grigio del 1887 [fig.3]: lo studio dei rapporti cromatici ne costituisce sempre la ragione di fondo, solo che ai bruni e grigi si sostituisce lo studio dei rossi e dei blu, che raggiungono la loro massima intensità in poche rapide pennellate intorno al colletto ed al bavero della giacca. O, come risulta ancora nei tragici e celebri autoritratti con l’orecchio mozzato del 1889. Così come Caravaggio si era raffigurato, con una sorta di atto espiativo, nella testa di Golia, ostentando la propria ferita alla fronte, così Van Gogh ostenta la ferita che egli stesso si è procurato, sempre nell’ottica di una simbolica offerta di sé che vuol anche significare il desiderio di sublimare e riscattare attraverso l’arte le proprie sofferenze interiori.
Intanto, il simbolismo solare come metafora insieme di vita e di morte aveva iniziato ad assumere per Van Gogh i toni dell’ossessione, come dimostra il Piatto di patate [fig.4] del 1888, in cui l’artista torna ad uno dei temi preferiti del suo primo periodo, ma sviluppandolo in un modo del tutto diverso: il piatto al centro della composizione, di un giallo vivo, altro non è che una specie di disco solare rinchiuso in un interno di cucina. Siamo in una fase in cui le esperienze si succedono alle esperienze in una accelerazione fatale.
L’incontro-scontro con Gauguin, l’interesse per l’arte giapponese, l’aggravarsi ormai incontrollabile della malattia nervosa, il ritorno alle tematiche contadine del primo periodo. Poche opere esprimono bene questa fase convulsa come il Seminatore al tramonto [fig.5] e il Campo di grano con mietitore del 1888-89 [fig.6], sorta di dittico-metafora sulla vita e sulla morte.
Nel primo dipinto il sole, che è “giallo di cromo I con un po’ di bianco, mentre il resto del cielo è giallo di cromo I e II mischiati”, come scrive lo stesso artista, domina la parte superiore della tela ed è ancora il sole delle utopie socialiste, capace di produrre delle ombre (la figura del seminatore proietta appunto un’ombra, pur se appena percettibile) e di irrorare di luce i campi seminati, anche se i corvi sono già in agguato per mangiare i semi lanciati, prima che essi possano fruttare. Nel secondo dipinto il sole avvolge ormai tutto di una luce uniforme e spietata, dolcemente mortuaria:
«Oh il mietitore è finito, penso che sia una di quelle tele che terrai a casa tua (scrive Vincent a Theo): è una immagine della morte come quella di cui parla il grande libro della natura, ma quella che ho cercato è quasi sorridente È, a prescindere da una striscia di colline viola, tutta gialla, di un giallo pallido. È divertente che l’abbia vista così da dietro le sbarre di una cella».
Infine, Campo di grano con corvi eseguito ad Auvers [fig.7] pochi giorni prima del suicidio ha il tono tragico e ultimativo dell’estremo canto funebre.
Il ritmo delle pennellate, più che vorticoso è ormai incontrollato, autentiche sciabolate di colori puri inferte alla tela. Il cielo, plumbeo e minaccioso coi suoi toni di morte, schiaccia letteralmente il campo sottostante, facendolo come schizzare verso gli spettatori in un ultimo disperato sussulto di luce verso cui si protendono i corvi neri: e sarà proprio in questi campi che Vincent porrà fine alla sua tragica esistenza con un colpo di pistola al petto il 27 luglio del 1890, anche se la morte giungerà solo due giorni dopo.
E vi sarà ancora una paradossale coincidenza con Caravaggio: così come il Merisi sarà infatti raggiunto dalla tanto sospirata grazia papale, che gli avrebbe consentito di tornare a Roma, solo in punto di morte, così Van Gogh riuscirà a vendere il suo primo quadro, testimonianza di un successo di pubblico e di critica che incominciava delinearsi, solo pochi mesi prima di morire; anzi sarà forse proprio il “timore” di stare finalmente per raggiungere il tanto sospirato successo a determinare nell’artista il definitivo crollo psichico.
Come e forse ancor più che per Vermeer l’ambizione ultima di Van Gogh è quella della pittura stessa intesa come fine ultimo del proprio essere uomo ed artista; certo può sembrare fuorviante paragonare la vita e l’arte di un tranquillo e rispettabile borghese timorato di Dio come il pittore di Delft con quella un di bohémien giramondo probabilmente afflitto da disturbo bipolare e che porrà tragicamente fine alla propria esistenza, ma è proprio questo connubio totalizzante con la pittura, anzi direi con la luce, questo identificare in essa tutto se stessi che accomuna alla fine i due grandi artisti.
Il terzo grande museo del Museum Plein di Amsterdam è lo Stedelijk, che raccoglie una delle più impressionanti collezioni d’arte contemporanea d’Europa che viene esposta a rotazione insieme a mostre contemporanee a tema, spesso integrando le une con l’altra attraverso un percorso che risulta sempre nuovo e stimolante. Come indica lo stesso Museo nella sua breve guida introduttiva, «nell’intero piano terra e in parte del primo piano sono mostrati i punti salienti dell’arte moderna dal 1980 ad oggi.
Attraverso un mix di arti visive e design vengono illustrate diverse correnti come Bauhaus, De Stijl, COBRA e pop art, con opere di artisti quali Karel Appel, Paul Cézanne, Marc Chagall, Marlene Dumas, Wassili Kandinsky, Edward Kienholz, Willem De Kooning, Jeff Koons, Kazimir Malevich [fig.8], (di cui viene presentata una serie di dipinti veramente strepitosa nda) Henri Matisse, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Jackson Pollock, Gerrit Rietveld, Ettore Sottsass, Andy Warhol.
Questo allestimento unico e innovativo, ideato da Rem Koolhaas, guida lo spettatore attraverso gli sviluppi dell’arte moderna e contemporanea seguendo un percorso logico in cui vengono illustrati i vari legami trasversali. Il piano terra è dedicato invece a presentazioni a tema basate sulla collezione, che analizzano le opere da prospettive sempre nuove e attuali come nel caso di “Arte e guerra”. Il primo piano è riservato invece a mostre temporanee in continua rotazione.
In questo momento l’esposizione è articolata secondo tre grandi momenti: Yesterday Today, con opere dal 1980 al 1950; Everyday, Someday and Other Stories, con opere dal 1950 al 1980 e Tomorrow is a Different Day con opere dal 1980 ad oggi. Ma come dicevo non si tratta di un criterio puramente cronologico, perché questa ripartizione si intreccia appunto con “presentazioni a tema” per cui ne risulta un connubio altamente stimolante che offre un panorama dell’arte degli ultimi centocinquant’anni veramente unico. La visita allo Stedelijk è risultata alla fine anch’essa stimolante ma oltremodo impegnativa.
Alla fine del nostro viaggio siamo voluti tornare al COBRA Museum voor Moderne Kunst, che già cinque anni fa ci aveva impressionato e che avevamo scoperto dopo una sorta di caccia al tesoro durata due giorni, perché il museo è malissimo segnalato ed in realtà si trova ad Amstelveen un comune autonomo di oltre 90.000 abitanti a circa mezz’ora dal centro di Amsterdam e dove vivono ben 137 comunità etniche differenti. La cittadina è sede di una Università ed è caratterizzata da un enorme centro commerciale al coperto e da una gigantesca biblioteca pubblica, ma il museo sembra comunque quasi nascosto e non vi è una targa o un segnale che lo indichi. Ed è per questo che giunti al suo interno, dopo un viaggio in tram in una mattina grigia e piovosa, quell’improvvisa esplosione di colori quel vitalismo selvaggio, primitivo e spregiudicato che caratterizza le opere di Karel Appel, Asker Jorn, Corneille, Costant, Alechinsky ci aveva entusiasmato.
Come è noto il nome COBRA deriva dalle iniziali delle città di provenienza dei principali protagonisti del gruppo, Copenhagen, Bruxelles, Amsterdam ed è da un lato la risposta europea all’action painting americana ma dall’altro attesta la ribellione contro il razionalismo ascetico spinto alle estreme conseguenze di Mondrian e di De Stijl, riuscendo a conciliare figurativo e astratto attraverso la forza espressionistica del segno pittorico.
Ricordo ancora quando da studente ho ascoltato una lezione di Giulio Carlo Argan (che del resto aveva dichiarato in altra sede “da razionalista sono vissuto e da razionalista voglio morire”) tenuta nella sede della Galleria Nazionale d’Arte Moderna davanti ad un Mondrian [fig.9] e ad un Alechinsky [fig.10] in cui naturalmente esaltava il primo e direi quasi disprezzava il secondo o meglio non riusciva proprio a comprenderlo.
Ben presto mi sono reso conto come il mio Maestro in questo caso si sbagliasse (può capitare anche ad Argan) perché il secondo deriva dal primo e in qualche modo ne è la logica conseguenza, anche se diametralmente opposta. Premesso che tra tutti i protagonisti del COBRA Alechinsky non è tra i miei preferiti, che sono Appel [fig.11], Jorg e Constant [fig.12], mi sembra però ovvio che si possa benissimo considerare Piet Mondrian uno dei maggiori protagonisti del Novecento e contemporaneamente riconoscere ai pittori prima citati un ruolo fondamentale all’interno dell’arte europea dell’immediato dopoguerra.
Siamo pertanto inizialmente rimasti delusi quando tornati nel museo dopo cinque anni abbiamo visto i maggiori esponenti del movimento, che fra l’altro dà il nome alla sede, relegati in una stanza al primo piano mentre il resto dell’edificio era occupato da altre mostre, la principale delle quali, dedicata ai pittori danesi tra il 1934 e il 1948 mi è parsa tutt’altro che memorabile. Ma la nostra delusione è immediatamente rientrata quando ci siamo imbattuti nella esposizione delle opere di Ovartaci, alla nascita Louis Marcussen ((1894 – 1985), personalità folle e geniale solo da poco assurta agli onori della ribalta. Lo avevo già incontrato durante l’ultima Biennale veneziana, ma confuso con molti altri artisti confesso che mi era quasi sfuggito mentre qui ad Amstelveen ha tutto lo spazio che merita.
Nato uomo all’anagrafe ma sentitosi molto presto una donna, dopo un periodo di sei anni in Argentina ancoro avvolto nel mistero ma durante il quale aveva sicuramente fatto un pesante uso di droghe, tornato in patria già in preda a deliri schizofrenici e divenuto presto un pericolo per se stesso e per gli altri, nel 1929 Ovartaci è stato ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Risskov; trasferito nel ‘32 in una altro Istituto è poi rientrato a Risskov nel 1942 dove è rimasto fino alla morte [fig.14].
In definitiva quindi egli ha trascorso in manicomio ben cinquantasei anni della sua lunghissima vita. Nel 1954 egli si è staccato il pene con il ferro di una pialla e tre anni più tardi ha subito un’operazione per il cambio di sesso anche se, una volta diventato donna, ha voluto poi nuovamente riacquistare un’identità maschile nel 1972. Come sottolinea Byan B. Hansen nel suo libro Ovartaci: The Signature of Madness (Aarus 2022) sarebbe comunque riduttivo circoscrivere l’esperienza del Nostro entro l’ottica dell’Art brut teorizzata da Jean Dubuffet, perché Ovartaci era molto di più di un pazzo che dipinge, era (o era convinto di essere) uno sciamano, uno sperimentatore di altre vite e altri mondi e soprattutto era un vero artista [fig.14]. In più era assolutamente consapevole di essere pazzo, come indica lo stesso appellativo da lui creato, Ovartaci appunto, che potrebbe tradursi proprio come “Capo Pazzo”.
Ancora Hansen individua come componente fondamentale della sua arte il binomio, meglio sarebbe dire la dialettica, del togliere e dell’aggiungere, sperimentata anzitutto sul proprio corpo e provata nel primo caso dalle continue mutilazioni e nel secondo nelle continue “trasmigrazioni” da un sesso all’altro [fig.15]. Ma questa dialettica la troviamo anche nella sua arte, perché proprio come Pontormo (e il paragone non sembri irriguardoso verso l’artista che io amo su tutti) egli “disfaceva di notte quello che faceva di giorno” come mirabilmente sintetizzava il Vasari. E a questo proposito tra i tantissimi aneddoti che si possono raccontare su Ovartaci questo può valere su tutti: incaricato dal direttore dell’ospedale di decorare una cappella, compito che l’artista aveva tra l’altro eseguito in modo abbastanza tradizionale [fig.15] ma essendo stato rimproverato da Gesù Cristo in persona per averlo relegato in un luogo “impuro”, di notte egli aveva sostituito l’immagine sacra con quella di una donna nuda, con lo scandalo che possiamo immaginare.
Dicevo prima che a Venezia Ovartaci non lo avevo quasi notato, perché poche opere isolate non gli rendono certo giustizia; per apprezzarlo bisogna seguirlo nel suo cammino, ammirare la sua straordinaria capacità di trasformare in arte le proprie allucinazioni, cogliere il sottofondo autoironico che non ostante tutte le tragedie egli ha saputo sempre conservare.
Per concludere, lungi da me il voler porre questa personalità allo stesso livello di Vermeer o di Van Gogh, ma quando si parla di “ambizione della pittura” certo non si può negare che di questa ambizione Ovartaci si nutrisse. E’ un’ambizione che puoi nascondere sotto la rispettabile veste di borghese di Provincia e lasciarla sfogare solo sui tuoi quadri, come per Vermeer; che può bruciarti l’anima e il corpo e condurti alla morte, come per Van Gogh; o farti comunque arrivare a novantun anni nonostante tutto e nonostante tutti, come per Ovartaci. Ma è in definitiva il filo rosso che ha contraddistinto il mio viaggio in Olanda e che ho cercato con questo scritto di tramettere a tutti i miei lettori.
Sergio ROSSI Amsterdam Aprile / Maggio 2023