di Mario URSINO*
*Qualche giorno fa il, 6 ottobre, ci ha lasciati Piero Guccione, uno dei grandi protagonisti della pittura italiana del Novecento. La scomparsa di un grande artista è sempre motivo di profonda tristezza e sconforto per tutti ed in particolare certamente per gli addetti ai lavori e gli amanti delle belle arti. Mentre esprimiamo le più sincere condoglianze alla famiglia, per ricordarne la figura e l’opera presentiamo il testo (riaggiornato) che Mario Ursino scrisse in occasione della mostra da lui curata, insieme a Francesco Gallo Mazzeo e Norberto G. Kuri, per il Catalogo “Piero Guccione le Opere Monumentali”, Palazzo Sant’Elia di Palermo, Il Cigno GG. edizioni.
GUCCIONE, TRA SUBLIME E STORIA DELL’ARTE
La pulsione (o la compulsione) a ripetere brani di mare e cielo azzurrissimi e luminosissimi, come è dato di vedere soprattutto nel sud dell’Italia, non è stata solo un’esclusiva visione d’incanto naturalistico per Piero Guccione (Scicli, 1935 – Modica, 2018). Queste prevalenti pitture marine che trasmettono silenzi ed evocano nello spettatore pause inconsuete della natura, sono state invece, a mio parere, necessarie all’artista per definire il suo rapporto con l’arte che l’ha preceduto.
Qualcosa di simile accade a chi scrive (ancora a mano) davanti al foglio bianco (o lo schermo trasparente del computer), sia pure con la dovuta diversità, perché codesti strumenti non hanno niente di sublime, mentre la vastità dei paesaggi di mari e cieli di Guccione aspirano proprio a quella condizione. Dunque Guccione fu un pittore del sublime? E’ stato l’ultimo dei moderni sfiorato dall’ala del romanticismo? In un certo senso sì. Ma quando e dove sarebbe stato investito da questo afflato, dallo spirito che credevamo sepolto circa due secoli fa? Ebbene, qui l’incontro che il maestro ebbe oltre trent’anni or sono con l’opera di Caspar David Friederich (1774-1840) deve essere stato decisivo.
Ne dette conto nel 1984 Giovanni Carandente (1920-2009) nella significativa mostra alla Galleria Bergamini di Milano, Guccione, Viaggio intorno a Caspar David Friederich, con un gruppo di opere che il nostro pittore aveva dedicato (ed interpretato) ad uno dei più romantici pittori tedeschi.
Guccione, infatti, racconta Carandente, aveva visitato attentamente la mostra parigina (all’Orangerie, nel 1977 ndA) dedicata ai pittori romantici, con particolare riguardo alla sala ove erano esposte le opere di Friederich. Ciò che dovette colpire la sensibilità di Guccione fu probabilmente la radicalità del romanticismo friederichiano, senza che il pittore tedesco avesse compiuto il consueto “viaggio in Italia”, così diffuso tra i suoi contemporanei, attratti dal clima e dalle rovine dell’antico, presenti nella nostra penisola. Insomma il “Grand Tour”. Inoltre c’è da dire che Friederich espresse l’idea del “sublime” sì davanti alla vastità della natura, ma anche a prescindere da essa, affermando appunto il valore autonomo della pittura, rendendola, precocemente per il suo tempo, in una visione interiorizzata e quindi sublimandola. Ed è ciò che ha fatto, a mio avviso, Piero Guccione con il suo linguaggio naturalmente prossimo alla modernità.
Mi pare, infatti, osservando in particolare le sue opere Studio per l’Autonomia il muro del mare, olio su tela cm.26×80 [fig. 1], e i quattro pannelli, Il muro del mare per l’Autonomia. tecnica mista su quattro pale lignee, misura complessiva cm. 200×4,60, realizzati tutti nel 2010 per la Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis a Palermo, che davvero egli sfiori il “sublime” da queste premesse.
Ma l’angoscia, l’Angst degli spazi immensi osservati da un personaggio sulle rocce, visto di spalle nel mirabile dipinto di Friederich, Viandante sul mare di nebbia, 1818 (Amburgo, Kunsthalle), opera, come è noto, ricca di simboli, diviene in Guccione motivo di riflessione sul limite dello sguardo davanti all’immensità che egli trasmuta quasi in pittura astratta, come nella bella serie di pastelli con un titolo simile al dipinto tedesco, Viandante che guarda il mare [figg. 2-3]; essi furono eseguiti tra il 1982 e il 1983, e presentati nella mostra sopra citata a cura di Carandente.
Perciò, se in Friederich ciò che si vede è motivo di introspezione, dramma di essere vivi nell’immensità del cosmo, in Guccione quella stessa immensità, da lui intensamente osservata, magari da una finestra della sua Scicli, è mutuata dal linguaggio della pittura stessa; l’immagine appare così più pacata, distante e senza angoscia, con effetti benefici e distensivi anche sull’osservatore. Difatti rimaniamo sedotti e turbati davanti alla pittura inquieta dell’artista tedesco, viceversa siamo affascinati dalla calma silenziosa di quel ”muro di mare” dipinto dal pittore siciliano.
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E quel “muro di mare” è anche lo schermo dove Guccione proietta fantasmi della storia dell’arte: sono immagini che premono la sua memoria e danno consistenza di studio nell’immaterialità sublimata del paesaggio. Tra tutti, tra i molti capolavori del passato che scorrono davanti agli occhi del nostro pittore, da Masaccio a Michelangelo, a Dürer, al Greco, al Caravaggio, al Velázquez sino ad Hayez (gli splendidi d’après, illustrati da Maurizio Calvesi nella retrospettiva di Guccione alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 2008) ha maggiore evidenza, a mio avviso, l’opera di Jacopo Carrucci, detto il Pontormo (1494-1557), il più originale e stravagante pittore del primo manierismo fiorentino. A lui solo è riferita quella leggerezza nella quale coesistono – secondo le parole di Argan – “il tragico e sublime proprio nel fatto che il pathos non si localizza nei gesti e nelle espressioni delle figure, ma si manifesta proprio nella loro voluta inconsistenza, nel loro trapassare dalla concretezza della forma all’astrattezza dell’ immagine”. Parole dettate dal noto studioso a proposito di quel capolavoro del Pontormo, la Deposizione, 1526-28 [fig. 4, part.] nella decorazione della Cappella Capponi nella Chiesa di Santa
Felicita a Firenze. E da quest’opera Guccione desume quell’intenso pastello del 2003, raffigurante il volto dolcissimo del Cristo deposto [fig. 5] che pare immerso in un profondissimo sonno. E ancora, sempre dal Pontormo, possiamo vedere la bella serie, fatta di incantevoli interpretazioni che Guccione trae da altro soggetto che ricorre più volte nell’opera del maestro toscano, la Visitazione, 1514, un olio su tavola [fig. 6], conservato in Palazzo Vecchio a Firenze: le due sacre figure si salutano e si abbracciano su quello schermo azzurro di mare e cielo, dove oltre lo sguardo non può andare; Guccione ne elabora sette versioni in forma di trittico e dittici, tra il 2007 e il 2009 [fig. 7]; e ogni scomparto ha una valenza cromatica diversa, e le stesse sacre figure vestono panni di colori diversi resi in trasparenza dal controluce del mare e del cielo, dove esse appaiono evanescenti e leggere dal deposito della storia dell’arte, o come in procinto di scomparire per dissolvenza in quell’immensità pervasa dall’eco romantica che aleggia in questa singolare pittura di Piero Guccione.
Mario URSINO Roma ottobre 2018