di Vitaliano TIBERIA
Individualità artistiche e condivisione dell’identità cristiana: un’Associazione di artisti fra fede e oscillazioni del gusto.
In ricordo di san Giovanni Paolo II.
1- In premessa ricordo che parlando di identità cristiana non mi riferisco al cristianesimo nelle sue varie storicizzazioni; questo potrebbe prestare il fianco a più di un rilievo critico, anche negativo, ma penso a quella realtà fondata sulla ragione e soprattutto sulla fede e sul senso morale, che, nel corso dei secoli, ha dato speranza e fiducia a miliardi di uomini.
Un’idea ricorrente nella storia dell’uomo è il ridimensionamento o la drastica rinunzia al passato. Ma, nihil ex nihilo ! Certo, la storia è divenire, e proprio per questo, nel suo progredire, rinunzia all’essere e insegue l’esistere, per approdare talora allo sconvolgimento di tradizioni, miti e simboli; strumenti, questi ultimi, essenziali in ogni civiltà per riconoscersi anche senza essersi mai incontrati. Tale dinamismo è consueto nella cosmologia laica, ma sconfina talora nell’ambiguità o nella forzatura quando si tratta di identità religiose. Ad un islamico o ad un indù non penseremmo di chiedere, in nome del nostro progresso, di rinunziare a quanto prescritto dalle loro religioni in materia di alimentazione; viceversa, si ritiene plausibile pretendere, in virtù di un astratto evoluzionismo, la rinunzia nelle chiese a quell’estetica della figuratività cristiana, scaturita nel corso dei secoli da documenti dottrinari e accolta dal gradimento popolare, oltre che per la bellezza trasmessa, soprattutto per la sua comprensibilità. Ars biblia pauperum! Forse, oggi si crede, ripensando a certe conclusioni presenti ab antiquo in aree geopolitiche orientali, di poter riprendere un’estetica dell’aniconicità, che non ha avuto fortuna in occidente, almeno fino all’Ottocento, ma che, fra le attuali oscillazioni del gusto, potrebbe avere il fascino dell’incomprensibile, tanto più apprezzato se disposto perfino oltre la rigida fissità delle icone, che di per sé non formulano un’immagine e che furono superate già dalle intuizioni plastiche di Giotto e di Duccio di Buoninsegna.
Per esemplificare in materia di comprensibilità dei simboli sacri, mi limiterò a ricordare alcuni cicli figurativi molto antichi, ma ancora ben presenti alla nostra coscienza, come quelli facenti parte della produzione musiva romana prima del Mille. E questo per ricordare che ogni opera d’arte, oltre alla bellezza ha trasmesso allegoricamente messaggi sacri, ma anche riferimenti a personaggi d’eccellenza (i santi per esempio) o a fatti storici più o meno favorevoli alla Chiesa cattolica e all’intera umanità. Così è il mosaico nella chiesa di Santa Pudenziana, eseguito dopo il Sacco di Roma del 410, essendo papa Innocenzo I (401-417), probabilmente commemorativo dei primi cento anni dalla vittoria di Costantino su Massenzio, nel 312, ed anche del consequenziale Editto di Milano (313), che concedeva la libertà di culto ai cristiani.
E ancora, il mosaico nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano, prospiciente il foro romano, progettato da Felice IV (526-530), per ricordare il primo cinquecentenario dalla morte di Cristo;
come anche i mosaici absidali del IX secolo nelle basiliche romane di Santa Prassede, Santa Maria in Domnica e San Marco Evangelista al Campidoglio, realizzati non disegnativamente ma iconicamente e in forme impressionistiche avant la lettre, per illustrare la Parusia o la gloria di Maria Vergine, eseguiti ricorrendo anche a maestranze provenienti dall’Oriente, in fuga dagli editti imperiali restrittivi nei confronti delle sacre raffigurazioni ecclesiastiche.
Dunque, lo sottolineo, le opere d’arte figurativa nelle chiese cattoliche, oltre al loro duplice valore formale e comunicativo, sono mezzi di trasmissione di conoscenze teologiche e storiche, con particolare riferimento ai misteri della fede e al valore delle virtù, in particolare la carità. Questo non significa seguire un metodo convenzionalistico, ma vuol dire attenersi alla tradizione della comprensibilità dell’arte cristiana, espressa attraverso storicizzazioni, agiografie e riferimenti allegorici anche nell’interpretazione di fatti o di personaggi storici; la tradizione che è uno dei pilastri dottrinari della Chiesa Cattolica, in cui l’evidenza del significato dispone il dato filosofico nella dimensione teologica della claritas fidei. E’così garantita la struttura diacronica e sincronica dell’estetica pervenutaci dalla tradizione cattolica, che, si badi bene, non va ad incidere sull’autonomia della forma delle opere d’arte, per cui è la committenza che assegna il tema, ma è sempre l’artista che dà la forma.
Dunque, sociologismi e indirizzi psicoanalitici difficilmente si adattano ad un’arte per le chiese, accostabile, semmai, fatte le debite distinzioni concettuali, a quella dimensione trascendentale che Edmund Husserl, riandando etimologicamente allo scetticismo greco, ha definito epoché, in cui si verifica la sospensione del filo dell’esistenza per attingere le forme pure dell’esperienza con la noesis, così che il soggetto cosciente trascende il mondo e la psicologia non prende il sopravvento sulla logica. Non si tratta di respingere lo svolgimento (rifiuto il termine evoluzione che si riferisce convenzionalmente alla scienza) delle forme estetiche nel loro libero corso, spesso attraverso schematismi agnostico-materialistici. Ma tali forme possono avere collocazione sul mercato o in spazi museali o galleristici loro dedicati, come, per esempio, lo spazio espositivo integrato con il territorio che è stato aperto da qualche mese in una ex macelleria del centro storico di Genova.
Le opere destinate ai contesti ecclesiastici hanno fini diversi, perché in questi, ferma restando la ricerca della qualità di un’opera d’arte, si aspira a colloquiare con le anime dei fedeli attraverso la riproduzione comprensibile per tutti dei misteri della fede e soprattutto della figura del Cristo. Si tratta di evitare forzature, per cui addirittura i parroci, secondo un recente punto di vista ecclesiastico, dovrebbero essere chiamati ad istruire il popolo di Dio sulla comprensibilità dell’aniconico, ferma restando la problematicità del mantenimento della presenza figurativa dei simboli cristiani. Rebus sic stantibus, il passo successivo verso la catarsi del significante e del significato potrebbe essere l’adesione all’aniconismo, così che l’estetica ecclesiastica si risolverebbe in istallazioni apodittiche di varie situazioni esistenziali e sociali o in apparati decorativi.
Sull’importanza del rapporto presente-passato, mi sembra utile ricordare il pensiero di Cesare Brandi:
«La vitalità di una cultura non dipende da quello che inventa di nuovo, che spesso può cadere come il grano sulla pietra, ma da ciò che del passato riesce ad assimilare e a incentivare […]. Il Rinascimento si pone sotto il segno stesso della classicità greco-romana: nessun esempio più di questo può essere probante. Sarebbe poi perfino ozioso ricordare quel che Dante e Petrarca, per arrestarci a figure singole invece che a periodi di civiltà, dovettero al passato: l’opera di Dante è addirittura una Summa del tempo che lo precedé, non meno degli scritti di San Tommaso.
«Su questa strada si può fare un altro passo: e riconoscere che l’indice più autentico della vitalità di un’epoca non sta nell’originalità in assoluto, ma nella capacità di rifondare e scegliere le esperienze precedenti. Non più che in natura non esiste nella cultura la generazione spontanea […]»[1].
Insomma, rinunziare al passato significa rinunziare al senso della vita, che, sottolinea ancora Brandi, ci precede da epoche immemorabili. Né Cimabue, che non rinnegò la figuratività bizantina ma la sviluppò, né Giotto, né Raffaello, né Michelangelo iniziarono ex nihilo, ma tutti realizzarono opere straordinarie dopo essere approdati in porti di ampia e variegata frequentazione formale. Il pensiero di Brandi rivolto all’estetica in generale assume ampia rilevanza per l’arte nelle chiese, in cui gli artisti sono chiamati a raffigurare storia, princìpi e dogmi della religione cattolica.
Lo stesso Paolo VI, incontrando gli artisti il 7 maggio 1964, ricordò che era loro amico, ma che certe espressioni artistiche offendevano la Chiesa e, nello stesso tempo, erano incomprensibili per il «linguaggio babelico», di confusione che le caratterizzava [2]. Pur riconoscendo alcuni punti bassi toccati dalla Chiesa con alcune decorazioni ecclesiastiche (soprattutto certe sculture seriali), il papa richiamava gli artisti ad attingere dal magistero ecclesiastico i motivi e i temi dell’arte e «quel fluido segreto che si chiama l’ispirazione, che si chiama la grazia, che si chiama il carisma».
Un pensiero evidentemente incompatibile, richiamato da papa Montini già nel 1965, con i movimenti avanguardistici, a partire da quelli storici di Duchamps, Man Ray e il Dadaismo, i quali hanno rifiutato i significati del passato, non hanno creduto nelle definizioni morfologiche e non hanno pensato al futuro. D’altra parte, la fine dello sperimentalismo modernistico è stata decretata dal Postmodernismo, per opera di teorici dell’architettura come lo statunitense Robert Venturi e Paolo Portoghesi, i quali hanno sottolineato il valore degli elementi decorativi e delle identità locali, ambedue provenienti dalla tradizione[3].
Il campo è stato così sgombrato dagli equivoci socioculturali e dai ricorrenti isolazionismi antifigurativi al limite di un non comunicativo ascetismo formale, mentre si è riaperta la prospettiva di un’architettura bella e gioiosa, che oltrepassa le accuse di convenzionalismo. In tal senso, chiarezza è stata fatta anche dalla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, che ha dimostrato l’insussistenza di un’originalità in contrasto con le tradizioni figurative, anche perché ogni nuova sperimentazione ritiene di essere antimorfologica e l’unica plausibile in una visione individualistica o ristrettamente societaria di sapore romantico ma fuori tempo[4]. E torna alla mente un pensiero di Levi-Strauss, secondo il quale «La storia non è mai la storia, ma è la storia per». Nel nostro caso, la volontà di annullare il passato è ancora una volta un tentativo incongruo perché riferito a datità spirituali o metafisiche che non appartengono al divenire dialettico delle mode o della sfera politica o della cultura momentaneamente dominante.
Parlando di arte nelle chiese, non possiamo quindi ignorare il magistero di san Giovanni Paolo II, come si coglie nell’Omelia alla Santa Messa per gli artisti, pronunziata a Bruxelles il 20 maggio 1985, per cui l’opera d’arte, divenendo allegoria di fede, speranza, carità, rinvia significativamente al mistero del Cristo, il cui volto è riflesso dal volto dell’uomo, creato a sua immagine, come è stato presentato dagli artisti di ogni tempo[5]. Il papa riprendeva quindi il messaggio agli artisti del Concilio Vaticano II, invitandoli con i toni millenaristicamente ispirati che gli erano propri, a non ricorrere a gusti effimeri e «senza valori veri», rinunziando «ad espressioni strane o malsane»[6].
Entrando quindi nel merito dell’attività degli artisti, ricordava che non sempre le loro opere erano «ispirate e felici», precisando che, quando l’arte è interprete di realtà propriamente religiose o “sacra” si è in diritto di chiederle di
«evitare ogni falsificazione, dissacrazione, attentato al sentimento […] Questo rispetto degli uomini per ciò che essi hanno più a cuore è fondamentale per la dignità dell’arte»[7].
Papa Wojtila concludeva il suo pensiero sull’arte nel segno delle virtù teologali, fede, speranza, carità, ricordando che, proprio grazie al “simbolo” cristiano gli artisti possono evocare la “realtà” che è al di là delle cose, facendosi pervadere dallo spirito divino[8]. In conclusione, le opere d’arte di destinazione ecclesiastica, secondo san Giovanni Paolo II, non possono scaturire che dalla condivisione dei princìpi della fede e della morale cattolica, non possono che essere aliene da vivaci concezioni laicistiche, rivolte al raggiungimento di fini puramente intellettuali o pratici, che non condividono il risveglio di una fede assopita.
2– Esemplifica le osservazioni fin qui esposte il divenire della realtà societaria di un consesso di artisti, i Virtuosi al Pantheon, i quali, dal 1543 al 2016, hanno dichiarato pubblicamente, al momento della loro cooptazione durante il sacro rito liturgico, la fedeltà ai princìpi della fede e della morale cattolica. Nati giuridicamente nel 1542, i Virtuosi iniziarono la loro attività l’1gennaio 1543. Il loro fondatore fu un monaco cistercense, Desiderio d’Adiutorio, il quale, di ritorno da pellegrinaggi in Terra Santa, ne riportò porzioni di terra, che, ottenuta l’autorizzazione da Paolo III, grande artefice della riforma Cattolica culminata nel concilio di Trento (1545-1563), simbolicamente inumò in Santa Maria ad Martyres, il Pantheon, nella prima cappella a sinistra, che volle dedicare a san Giuseppe di Terrasanta, vero emblema agiografico delle tre virtù teologali. Sotto il profilo giuridico, la fondazione della Compagnia o Congregazione di San Giuseppe di Terrasanta segnava il compimento della riforma dello status degli artisti voluta da Paolo III, il quale, con due motu proprio del 1539 e del 1540, rendeva indipendenti gli scultori dal particolarismo dei regolamenti medievali delle corporazioni[9]; fu quindi concesso agli artisti di diverse specializzazioni (architetti, pittori, scultori, successivamente i musicisti) la possibilità di far parte di un’unica associazione, mentre prima, i pittori, per esempio, erano incardinati nella Corporazione dei Medici e degli Speziali.
Dal 1595 fu cooptato fra i Virtuosi anche il polifonista e tenore tiburtino Giovanni Maria Nanino, che fu eletto anche Segretario e per tre volte anche Reggente dei Virtuosi. Così nacquero i Virtuosi al Pantheon, e non da una non documentata idea di Raffaello, principe della pittura conteso dalle varie corti del Rinascimento e pertanto impegnato continuativamente nel fare dell’arte e non nella pratica costante delle opere pie, morto, per di più, ventitré anni prima della nascita dei Virtuosi dopo una vita dedicata ai trionfi della bellezza artistica. La storia dei Virtuosi al Pantheon è stata scritta dai principali artisti di ogni epoca, ma non sulle pagine del divenire dell’estetica, né sotto il profilo accademico, ma nella pratica delle virtù di fede, speranza, carità, che hanno praticato, frequentando collettivamente in varie occasioni la sacra liturgia e i misteri della fede e facendo opere pie nei confronti dei bisognosi: l’assistenza ai confratelli infermi, la richiesta di grazia per un condannato a morte in occasione della festa di san Giuseppe, o la costituzione di doti per ragazze indigenti che dovevano sposarsi o monacarsi; prerogative concesse anche ad altri Sodalizi romani, fra i quali l’Arciconfraternita del Gonfalone.
Era la prassi di quei tempi, quella delle doti, ancora in essere fino a qualche decennio fa; mentre il privilegio di chiedere la grazia per i condannati a morte i Virtuosi, dopo la concessione di Clemente VIII, l’ebbero ratificato nel 1605 da Paolo V, facendolo attuare, fra gli altri soci, da un grande della pittura come Orazio Borgianni. Un cristianesimo sociale dunque, praticato da un’associazione di artisti, che si rispecchiavano idealmente nel magistero di sant’uomini come Camillo De Lellis, Ignazio di Loyola, Antonio Zaccaria, Filippo Neri e Carlo Borromeo. Per strano che possa sembrare, l’originalità fu che quegli artisti, coerenti con la modestia cristiana, non fecero nella loro vita sociale dibattiti teorici né, fino al 1838, come vedremo fra poco, avviarono giovani alla pratica delle arti; attività che furono invece appannaggio dell’Accademia di San Luca, nata dopo i Virtuosi al Pantheon, nel 1593. Questo non impedì tuttavia che alcuni artisti facessero parte di ambedue i Sodalizi, detenendone talvolta le cariche di vertice, come nel caso di Francesco Mochi[10].
Solo nell’Ottocento, sostenuti da Gregorio XVI, il quale, nel 1838, stanziò un finanziamento di 300 scudi, i Virtuosi, intraprendendo un meritorio indirizzo pedagogico, dettero vita a concorsi periodici per giovani artisti da loro selezionati e assistiti con pensionati formativi[11]. E sempre nel XIX secolo, nel revival dell’arte raffaellesca, per iniziativa del Reggente dell’epoca, lo scultore Giuseppe De Fabris, conterraneo di Gregorio XVI, fu fatta, nell’autunno del 1833, la ricognizione del sepolcro di Raffaello, in essere nel Pantheon dal 1520, che da quell’anno era stato sconvolto dalle periodiche alluvioni del Tevere[12].
L’unica manifestazione pubblica di estetica dei Virtuosi nel XVII e nel XVIII secolo furono le mostre annuali di opere d’arte dei congregati sotto il pronao del Pantheon nella ricorrenza del 19 marzo, festa di san Giuseppe patrono dei Virtuosi[13]. Quelle mostre divennero un appuntamento molto frequentato da laici ed ecclesiastici a Roma, anche per la volontà di eminentissimi cardinali protettori dei Virtuosi, come Scipione Borghese e Antonio Barberini e ovviamente anche per la benevolenza dei papi. Fra i tanti espositori, furono presenti figure di assoluta grandezza come Pietro da Cortona e Diego Velazquez, seguiti da artisti del livello di Giambattista Gaulli, Giacinto Brandi, Carlo Maratti, Giuseppe Ghezzi, Jan Miel; quest’ultimo, nel suo testamento del 1654 lasciò ai Virtuosi 300 scudi (100 se ci fossero stati suoi eredi), per sostenere le spese di questa consuetudine espositiva in onore di san Giuseppe[14].
Nel Settecento, fra i prìncipi della Chiesa che sostennero l’iniziativa non poteva mancare il cardinale Pietro Ottoboni (1667-1740), splendido sostenitore delle arti e di Arcangelo Corelli, che, per sua iniziativa, fu sepolto nel Pantheon. Essendo cresciuta la fama di quelle mostre, grande risonanza ebbe la manifestazione nell’anno giubilare 1700, che fu definita dal Camerlengo «nobilissima e copiosa», visitata anche da una testa coronata come la regina Maria Casimira di Polonia, la quale, giunta a Roma l’anno prima, vi avrebbe vissuto per sedici anni[15]. Ma il culmine di questa attività espositiva si registrò nell’anno giubilare 1750, quando furono spesi 285 scudi e 35 baiocchi per l’allestimento di una gigantesca mostra di duecentoventicinque quadri di artisti del XVII e XVIII secolo, prestati per l’occasione da vari pittori e collezionisti, registrati in un indice conservato nella sede storica dei Virtuosi[16]. Fu l’ultima mostra “antica” dei Virtuosi. Nel Novecento, per volontà di Pio XII, i Virtuosi organizzarono, nel 1950-51, una grande esposizione internazionale di opere eseguite fra il 1900 e il 1950, con relativo catalogo con riproduzioni di numerosissime opere d’arte, d’artigianato e d’architettura provenienti da 37 nazioni selezionate da una commissione presieduta dall’architetto ingegnere Giulio Barluzzi[17].
L’ultima mostra dei Virtuosi, è stata da me curata, tertio millennio adveniente, fra il marzo e l’aprile 1999, sotto il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura, presieduto dal cardinale Paul Poupard, in ambienti espositivi dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, con la collaborazione di Jean-Dominique Durand, direttore del Centro Culturale San Luigi di Francia e Consigliere dell’Ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. In quell’occasione furono esposte pitture e sculture di dodici Accademici Virtuosi, Lorenzo Guerrini, Ernesto Lamagna, Felice Ludovisi, Marisamarini (sic), Ezio Pollai, Attilio Ruffini, Ennio Tesei, Tito, Luigi Venturini, Guido Veroi, Raoul Vistoli, Ugolino da Belluno, nonché cinque progetti di architetture religiose dei Virtuosi Architetti Sandro Benedetti e Lucio Passarelli; tutti artisti dalle poetiche diverse, ma tutti uniti dall’identità cattolica nelle raffigurazioni sensibili dell’armonia della bellezza nelle varie espressioni del creato.
Ha concluso questo ciclo pubblicistico d’arte contemporanea un volume da me curato e offerto al papa Francesco, con 67 opere di artisti per il Giubileo della Misericordia 2015-2016, decretato dallo stesso papa[18]. Gli artisti (Accademici e non) che hanno partecipato a questa iniziativa sono stati: Carlo Busiri Vici, Pedro Cano, Sergio Capellini, Antonella Cappuccio, Angelo Casciello, Solveig Cogliani, Giuseppe Ducrot, Paolo Marazzi, Luigi Enzo Mattei, Laura Gabriella Micucci, Achille Pace, Luca Pace, Mimmo Paladino, Rodolfo Papa, Ezio Pollai, Alberto Ricci, Ugo Riva, Lucia Romualdi, Sandro Sanna, Laura Stocco, Tito, Domenico Antonio Tripodi, Sergio Unia.
Costante è stato dunque il legame ideale dei Virtuosi con il Vaticano, tanto è vero che nella sede storica nell’attico del Pantheon, concessa loro nel 1838 dal cardinale Agostino Rivarola, si conservano i seguenti ritratti di papi: di Paolo III, Gregorio XIII, Paolo V, il quale, da cardinale Camillo Borghese, elevò a festa di precetto il giorno di san Giuseppe con rescritto del 14 marzo 1610, quindi Gregorio XV, Alessandro VIII, Gregorio XVI, Pio IX , mentre, nella sede operativa si trovano i ritratti di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Dopo l’unità d’Italia, nel 1861, la Congregazione ebbe il titolo di Pontificia, anche per distinguerla dall’Accademia di San Luca, cooptata nel Regno d’Italia; finché, nel 1995, per volontà di san Giovanni Paolo II, che rinnovò lo statuto dei Virtuosi, aggiungendovi la classe dei Letterati e Poeti e integrando quella dei Pittori con i Cineasti, fu denominata Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Il nuovo statuto, unitamente all’opera costante del Pontificio Consiglio della Cultura, che coordinava anche le attività delle Accademie Pontificie, allora presieduto dal cardinale Paul Poupard, restituì vitalità all’Accademia, dopo un periodo di difficoltà per cause indipendenti dai soci. Il nuovo corso, dal 1995, da me presieduto fino al novembre 2016, ha realizzato, ma solo in parte, tre progetti, che riprendevano l’attività pubblicistica scientifica dell’Accademia iniziata nel 1936 da Vincenzo Golzio, proseguita da Armando Schiavo nel 1985 e culminata in uno scritto filologico di Halina Waga[19]: 1-pubblicare la storia del Sodalizio in sei volumi periodizzata per pontificati fino a Pio XII e fondata sui documenti dell’archivio storico; opera interrotta tuttavia nel 2017 al quinto volume che si chiudeva con il 1877, poco più un mese prima della morte di Pio IX (7 febbraio 1878)[20]; 2-pubblicare il catalogo scientifico delle opere d’arte pertinenti l’Accademia[21], che ha visto la luce nel 2016, ma senza il catalogo scientifico del materiale grafico progettato nel 2015; 3- dar vita ad una rivista di lettere e arti a partire dal 2000, che annualmente pubblicasse i contributi di Accademici e di artisti e studiosi esterni, della quale sono usciti sedici volumi fino al 2016. Inoltre, dal 2017 è stata abolita anche la promessa, prevista dall’art. 8 (co. 3) dello statuto al momento della cooptazione dei nuovi soci Ordinari durante la sacra liturgia in Santa Maria ad Martyres, di adesione alle prescrizioni della religione e della morale cattolica, sostituita da una declaratoria di fedeltà all’arte: in altre parole, i neosoci autocertificano la fede nel proprio status creativo o professionale senza riferimenti alla fede cattolica.
In tale nuovo corso dal 2017, si colloca l’assenza di nomina, dal febbraio 2023, del Segretario Accademico, che statutariamente (art. 5) sostituisce temporaneamente il Presidente se questi è nell’impossibilità di svolgere la sua funzione; l’ultimo Segretario è stato il compianto professore Architetto Giovanni Carbonara. Le interruzioni e le modifiche riferite dal 2017 sono avvenute essendo presidenti dei Virtuosi al Pantheon l’architetto Pio Baldi e del Pontificio Consiglio della Cultura il cardinale Gianfranco Ravasi. Ma va anche ricordato che nel 2017, con la collaborazione dell’Università Salesiana, l’Accademia ha creato un proprio sito, in cui si dà conto di alcune pubblicazioni accademiche e dell’attività dei soci, mentre non ha avuto corso, non accolto dalle Autorità preposte alla tutela del patrimonio culturale italiano, dalle Autorità ecclesiastiche e da numerosi studiosi di varia formazione culturale, il progetto del 2019 di riesumare i resti mortali di Raffaello per leggerne il genoma e per rispondere così a quesiti filologicamente non verificabili relativi ad un suo presunto avvelenamento[22]. Come ho già rilevato, pur ammettendo che il genoma di Raffaello, nonostante le alluvioni del Tevere, che dal 1520 ne hanno periodicamente sconvolto il cadavere, sia ancora leggibile, come si potrebbe risalire all’autore dell’ipotetico avvelenamento? Un collega invidioso? Una cordata politica contraria all’Urbinate? Un’amante delusa? O, addirittura, il suicidio per per stress?[1]
Vitaliano TIBERIA Roma 9 Giugno 2024
* In copertina, Matthias Grünewald: La Doppia tavola di Tauberbischofsheim – La Crocifissione, cm. 193 x 151, nella doppia tavola di Tauberbischofsheim, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe.
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