“Inferno”, alle Scuderie del Quirinale il genio di Jean Clair apre il percorso verso uno dei grandi problemi sui quali la filosofia s’interroga da un paio di millenni: il MALE

di Giorgia TERRINONI

“È il Diavolo a tirare i nostri fili!/ Dai più schifosi oggetti siamo attratti;/ e ogni giorno nell’Inferno ci addentriamo di un passo,/ tranquilli attraversando miasmi e buio”. Baudelaire, I fiori del male

Ho atteso di visitare Inferno dal momento in cui ho appreso la notizia che sarebbe stata allestita a Roma. Ammetto che a catturarmi, al di là del tema a me carissimo, è stata la curatela – che è piuttosto un’ideazione, la generazione di un concetto per immagini – affidata a Jean Clair, il grandissimo storico e critico d’arte francese venuto dal basso.

L’esposizione – alle Scuderie del Quirinale dal 15 ottobre al 9 gennaio – s’inserisce nell’ambito delle numerose iniziative promosse in Italia nel 2021 per celebrare i settecento anni trascorsi dalla morte di Dante. Ma, per fortuna, Inferno va molto oltre la mera occasione celebrativa. Mentre scrivo, infatti, mi chiedo perché si debba celebrare un settecentenario dalla morte. Dante è Dante, per carità, ma non sarebbe più sensato ricordarlo e studiarlo a oltranza, cioè nei secoli dei secoli e Amen? Comunque io non mi devo occupare del settecentenario né di quello che vi è dentro e dietro, uso però questo spazio per osservare che la parte meno riuscita della mostra è quella che celebra Dante in quanto sommo poeta. Insomma, usando un’espressione presa in prestito dal gergo, mi pare una marchetta culturale o piuttosto commerciale che deve essere servita a rendere possibile una mostra assolutamente notevole.

Inferno si apre col botto.

Auguste Rodin, La Porta dell’Inferno, 1880 – 1917, Philadelphia Museum of Art

Questo accade frequentemente nelle mostre e praticamente sempre in quelle allestite alle Scuderie del Quirinale. In molti ricorderanno quella recentemente dedicata a Raffaello che accoglieva il visitatore con la tomba dell’artista trasportata dal Pantheon. Stavolta s’inizia con la Porta dell’Inferno di Rodin. Ovviamente trattasi di una splendida copia in gesso dell’originale bronzeo proveniente dal Musée Rodin di Parigi, ma l’effetto non tradisce l’attesa. La monumentalità, l’altezza, il plasticismo, i personaggi al limite dell’informe che si contorcono proiettandosi verso l’esterno e il concettuale incompiuto danno quasi le vertigini.

Da qui in avanti, le opere importanti create da artisti che hanno fatto la storia non mancano, da Beato Angelico a Botticelli, dagli anonimi ma raffinatissimi autori dei codici miniati a Piranesi, da Goya a Manet, da Cézanne a Balla passando per Otto Dix e arrivando fino ai fratelli Chapman. Potrei continuare, ma finirei per stilare qualcosa che somiglia solo a una lista della spesa e non arriverei mai al punctum del percorso espositivo che poi coincide con la visione dell’inferno che credo il coltissimo ma irriverente Jean Clair vuole comunicare allo spettatore. Insomma, poco importa che ci siano la Voragine infernale di Botticelli o Le Tentazioni di Sant’Antonio di Cézanne.

Cezanne, Le Tentazioni di sant’ Antonio, Parigi, Museo D’Orsay

In mostra sono esposte anche opere molto brutte – prive di qualsiasi qualità formale – di artisti dei quali il pubblico non ricorderà i nomi, così come diverse non-opere, quali ad esempio i calchi dei volti di alcuni soldati, deturpati dagli effetti delle esplosioni causate dalle nuove armi messe a punto durante la I^ Guerra Mondiale.

A mio avviso, il punctum della mostra va rintracciato altrove.

Attraverso l’allestimento l’allestimento, quello vero, è un dialogo che risuona tra opere anche molto diverse, un dialogo che può essere udito dallo spettatore – il geniale francese mette in scena un percorso che scivola rovinosamente verso uno dei grandi problemi sui quali la filosofia s’interroga da un paio di millenni: il MALE.

E per cui l’Inferno dantesco – figurato in modo magniloquente attraverso la Porta di Rodin – è solo l’ingresso, un poderoso ingresso che salda visioni pregresse, immaginazione febbrile e risonanze indelebili, ma pur sempre solo un ingresso.

Sandro Botticelli, La Voragine Infernale, Illustrazione dalla Divina Commedia, Vaticano, Bilbioteca Vaticana

Ebbene io ho idea che sia il MALE – e le sue riflessioni a margine – il vero protagonista della messa in scena di Clair. E che, lo ripeto, il settecentenario dantesco non sia altro che un pretesto. Ne è per me una dimostrazione la chiusura con lo sterminio, dove l’Olocausto e le tragiche manipolazioni in nome dell’Islam la fanno da padrone, ma non sono che l’ouverture a un nuovo corso di eventi.

Mi pare che negli ultimi anni il MALE sia tornato di gran moda nel mondo artistico e letterario, riemergendo prepotentemente da una dimensione outsider in cui era stato confinato o nella quale – non saprei dire – si era autoconfinato. Ora noto che questa riemersione è interpretata dal pubblico medio come un’occasione catartica. In un’epoca in cui la catarsi non arriva più attraverso la guerra perché, benché vicinissima, tendiamo a collocarla in un altrove indefinito per poter continuare a occuparci delle nostre cose, la cultura che si occupa del MALE a buon mercato è ambita quanto un Crispy McBacon. Tuttavia, un conto è scaricare le proprie emozioni attraverso qualcosa che ci parla dei dolori più o meno grandi che costellano l’esistenza di ciascuno, altra cosa è parlare del MALE.

Il MALE occorre conoscerlo per poterlo rappresentare, non già a un livello individuale e/o personale, ma a un livello universale. Dante, Goya, Otto Dix, Primo Levi o Hannah Arendt, solo per fare degli esempi riconducibili all’esposizione, lo conobbero al punto da saperlo rappresentare universalmente.

Franz von Stuck,  Lucifero, ca.1890. Sofia, National Gallery for Foreign Art.

Torno sulla chiusura d’Inferno non perché meriti più del resto, ma perché incarna l’acme di un percorso che vede il MALE crescere smisuratamente e svincolarsi dal Diavolo. Ma anche da Dio, perché a un certo punto della storia dell’Occidente Dio muore. E così le pene inflitte agli ebrei durante l’Olocausto non sono più terrifiche delle infernali punizioni che Dante ha immaginato per i suoi peccatori. Ma tra Dante e l’Olocausto c’è di mezzo la morte di Dio, una morte né rapida né eclatante ma lenta e silenziosa, eppure inevitabile sebbene inimmaginabile.

Attraverso la successione di opere e sale Jean Clair ci conduce verso un inferno inizialmente quasi accettabile perché supportato dalla visione salvifica di Dio. Nel corso del tempo proprio questa illusione diventa impensabile. E l’inferno sale sulla terra, non bisogna raccomandarsi a Caronte per visitarlo.

Bomarzo. Sacro Bosco. Mostro nel giardino di Pier Francesco Orsini.

Un sintomo evidente della perdita irrimediabile di Dio è ben visibile nelle opere ottocentesche esposte alle Scuderie. Qui – sublimazione in negativo forse dello spirito di morte che ha intriso e macchiato anche i grandi ideali della Rivoluzione Francese – il MALE figura nella sua più banale e melensa sensualità.

Poi, velocemente, la mostra giunge all’inferno moderno, perché così è accaduto nella storia. Velocità e produttività. È la fabbrica ora a diventare girone dantesco, non-luogo nel quale non alberga nessun diritto e dove la morte è dietro l’angolo. Per non parlare poi del carcere, istituzione che nonostante le elucubrazioni positiviste, rimane ad oggi simile alle fantasie di Piranesi. No man’s land che nasconde mirabilmente le proprie intenzioni dietro una labirintica impalcatura di specchi. Da qui il passo verso la follia è breve e ho idea che volutamente Clair dia poco sviluppo a questo spicchio della mostra, lasciandolo immerso in una fitta nebbia in cui non si distingue tra dimensione clinica, stigma sociale e scissione dell’uomo.

In effetti, se Dio è morto la follia è un inferno totalmente inaccettabile…

Giorgia TERRINONI  Roma  17 ottobre 2021