di M. Lucrezia VICINI
Ferdinand Voet, italianizzato Ferdinando e detto Monsù Ferdinando o Ferdinando dei ritratti o Ferdinando fiammingo, è da considerarsi uno dei più grandi ritrattisti del periodo romano ed europeo tardo-barocco, attivo tra il pontificato di Clemente IX Rospigliosi (1667-1669) e gli inizi del pontificato di Innocenxo XI Odescalchi (1676-1685). Alla capacità di migliorare le qualità estetiche degli effigiati, idealizzandoli e privandoli dei difetti esteriori, univa una peculiare descrizione dell’abbigliamento, diffondendo mode sofisticate introdotte a Roma dalla Francia di Luigi XIV da Maria Mancini, nipote del cardinale Mazzarino, che il pittore immortalò più volte.
Alla sua personalità, spesso confusa o messa a confronto con quella del Gaulli, Maratti, Pierre Mignard e Morandi, suoi rivali romani nel genere della ritrattistica, solo recentemente è stato restituito il giusto valore, grazie anche agli ultimi studi monografici di Francesco Petrucci (1).
Incerte sono le notizie sulla formazione del Voet. Probabilmente si formò nella bottega paterna, modesto pittore di Anversa, la sua città natale che oltre a vantare una lunga tradizione ritrattistica, diede la formazione ad artisti come van Dick, Susterman, Rubens. Di sicuro si sa che dal 1663 all’età di ventiquattro anni, al 1679, con una interruzione il 1678, abitò a Roma dove forse tornò alla fine del 1680 e nell’autunno 1686. I dizionari Thieme-Becker e Benezit affermano che a Roma frequentò la bottega del Maratta e ciò potrebbe avere un certo riscontro se si fanno paralleli con alcuni ritratti del pittore marchigiano, come il Ritratto d’uomo del Museo Statale di Berlino. Ma non tutta la critica è concorde nel definirlo allievo del Maratta (2).
Al contrario si ritiene possibile che sia entrato in diretto contatto con Giovanni Maria Morandi (1622-1717) che come ritrattista godeva una posizione di riguardo durante il pontificato di Alessando VII Chigi (1655-1667). Di certo risulta che il Voet fosse entrato a far parte della Bent, la schiera di artisti fiamminghi insediata tra Piazza del Popolo e Piazza di Spagna e che svolgesse inizialmente attività di copista fino a distinguersi anche lui come ritrattista, diventando il pittore prescelto della regina Cristina di Svezia e l’artista ufficiale dei papi e delle più importanti famiglie della nobiltà romana, i Borghese, Colonna, Pamphili.
Ma fu soprattutto con i Chigi e sotto la protezione del cardinale Flavio Chigi che mantenne un rapporto lavorativo costante, i cui ritratti della numerosa famiglia, compresi quelli delle proprie dame, sono conservati presso Palazzo Chigi ad Ariccia. Abile diplomatico nel conquistarsi la stima dei committenti, gli si deve la ripresa di una consuetudine cinquecentesca di allestire le cosiddette Gallerie delle Belle, consistenti in raccolte di soli ritratti femminili delle famiglie con cui era accreditato, iniziando la serie proprio con i Chigi nel 1672.
Le dame venivano raffigurate con l’abbigliamento di gusto francese, che aveva introdotto a Roma Maria Mancini, nipote del cardinale Mazzarino, moderno, appariscente, con acconciature sofisticate e corpetti arricchiti di pizzi, merletti, pietre preziose, modellati da profonde scollature che mettevano in evidenza le nudità delle protagoniste. L’adesione a questo stile, piuttosto che a quello morigerato spagnolo in voga, lo tacciarono di condotta libertina provocandogli l’espulsione da Roma per un anno, nel 1678, da parte del papa Innocenzo XI (1676-1689). Mentre era a Roma si allontanò spesso per recarsi a Genova, Firenze, Modena, Parma e Torino, lasciando ovunque tracce della sua presenza. Tra il 1682 e il 1684 si stabilì in Piemonte al servizio dell’aristocrazia sabauda. L’ultima parte della sua vita la trascorse in Francia, dove eseguì diversi ritratti di personaggi e ministri della Corte di Luigi XIV, diventando il pittore di Sua maestà Cristianissima (3).
Fondamentalmente fiammingo nella descrizione minuziosa e capillare dei personaggi raffigurati, il Voet resta tuttavia ancorato alla tradizione della ritrattistica romana, di cui il Maratta, il Gaulli, il Morandi erano i maggiori rappresentanti.
Nella terza sala della Galleria Spada sono esposti quattro ritratti del Voet. Altri due del pittore sono custoditi in ambienti diversi del Palazzo. Gli effigiati appartengono quasi tutti alla nobile famiglia Rocci, di origini cremonese, il cui destino, tra il ‘600 e il ‘700, si incrocerà con quello degli Spada attraverso la combinazione di due importanti matrimoni.
Il capostipite, Bernardino Rocci, rimasto vedovo, si trasferi a Roma sposando nel 1579 Clarice Arrigoni, sorella del cardinale Pompeo (1552?-1616). Dal matrimonio nacquero quattro figli: Francesca, sposata con Cesare Incoronati, senza prole; Ciriaco(1581-1651), creato cardinale da papa Urbano VIII nel 1629; Antonio che fu governatore di Roma sempre nel 1629, sposato con Pulcheria Maffei, e genitori di Urbano, Pompeo e Bernardino Rocci(1627-1680) creato cardinale da Papa Clemente X nel 1676. mInfine Eugenia Rocci, madre della marchesa Maria Veralli(1616-1686) che nel 1636 sposerà Orazio Spada (1613-1687), nipote del cardinale Bernardino ( 1594-11661)(4).
L’atto di ufficializzazione di questo matrimonio, con la stesura dei capitoli matrimoniali, reca la data del 10 dicembre 1635, in presenza di tutti i parenti, Spada, Veralli e Rocci. Come infatti riferisce Orazio nelle sue “Memorie domestiche”, egli
“toccò la mano della sposa in presenza del cardinale Spada, del cardinale Rocci, di Giovan Battista Veralli, di Antonio Rocci, di Virgilio Spada, e di Pulcheria Maffei e Francesca, consorte e sorella di Antonio Rocci” (5).
Alla fine del ‘600 la parentela sarà suggellata da un secondo matrimonio, quello di Maria Pulcheria Rocci (+1759), figlia di Pompeo e Anna Cenci e ultima erede della famiglia, con Clemente Spada (1679-1759), pronipote della marchesa Veralli (6). Maria Pulcheria, come la sua prozia Maria Veralli, porterà in dote agli Spada cospicui beni immobili e opere d’arte di valore che erano appartenute alla sua famiglia, in special modo ai cardinali, Ciriaco e Bernardino Rocci (7). Molte di esse, tra sculture e dipinti, sono ancora visibili nel Museo, come i sei citati ritratti del Voet che raffigurano:
Urbano e Pompeo Rocci. Una dama di casa Rocci, forse la stessa Maria Pulcheria Rocci. Pulcheria Rocci Maffei in abito vedovile. Francesca Rocci in abito vedovile. Il Cardinale Francesco Nerli.
In questa sede si approfondiscono le figure di Urbano e Pompeo Rocci, fratelli del cardinale Bernardino Rocci, e figli di Pulcheria Mafferi e Antonio Rocci, conservatore di Roma,
Il ritratto di Urbano Rocci figura già nell’inventario dei suoi beni ereditari del 1709 che ha come titolo:
“Inventario e stima delli beni ereditati dalla chi. Mem. Del Sig. Urbano Rocci fatto per parte dell’Ill.ma Sig.ra Marchesa Maria Pulcheria Rocci Spada erede beneficiaria”.
E’ descritto come:
Una tela da testa rappresenta un ritratto del fu Urbano Rocci in abito da pellegrino di Ferdinando pittore scudi 30 (8).
Nel Fondo Spada, entrambi sono rintracciabili insieme con certezza per la prima volta nell’appendice al Fidecommesso del 1862, tra le opere della prima sala del Museo, citato il primo come:
“Ritratto di Urbano Rocci, Scuola francese, scudi 60”, il secondo come: “Ritratto di Pompeo Rocci, Scuola francese, scudi 20”(9),
riferimenti attributivi cui si rifà anche Barbier De Montault(10).
Nella ricognizione inventariale di Pietro Poncini del 1925 e nella coeva stima di Hermanin che valuta ciascuno lire 3.000, i due ritratti di Urbano e Pompeo Rocci sono registrati sempre in prima sala, con l’attribuzione a Scuola del Maratta (11). L’assegnazione alla Scuola del Maratta, condivisa anche dal Lavagnino (12), o direttamente al Maratta è respinta da Porcella(13), che notando caratteri equidistanti tra il Maratta e la scuola francese, li restituisce al Voet, opinione accettata da Longhi (14), Incisa della Rocchetta (15) e Zeri (16).
Per Zeri, che palesa difficoltà nel riconoscere il significato dell’abito da pellegrino indossato da Urbano, l’attribuzione dei due ritratti trova esatta corrispondenza nel Ritratto di Tommaso Rospigliosi, della Galleria ex Rospigliosi di Roma, che sul retro è firmato Monsù Ferdinando e datato 1669 e in un altro ritratto prossimo a questi due, di analoga impostazione marattesca, negli appartamenti Pallavicini di Roma.
Nel 1951, in occasione del riassetto del Museo per la sua riapertura al pubblico, le due opere furono trasferite da Zeri in terza sala, dove ancora si trovano, insieme al Ritratto di Dama e al Ritratto del Cardinale Francesco Nerli.
Nei due ritratti Spada, l’identità dei due personaggi è suggerita da un’iscrizione segnata sul retro di ogni opera. Urbano Rocci, divenuto barone col titolo di San Giovanni in Fiore, ereditato dal fratello maggiore Pompeo, morto prematuramente nel 1672, fu Foriere maggiore o sovrintendente al cerimoniale dei papi Alessandro VIII(1689-1691) e Innocenzo XII(1691-1700). Inoltre fu membro dell’Accademia degli Ipocondriaci e ammesso con qualche incertezza come “aggregato” nell’Accademia degli Sfaccendati nella seduta dell’ottobre 1672. Era amante di musica, poesia e teatro. Nel 1663 l’editore Bartolomeo Lupardi, per alcuni favori ricevuti dallo zio, il cardinale Ciriaco Rocci, gli dedicò il Mustafà, un’opera scenica di Giacinto Andrea Cicognini, mentre nel 1682 da Marco Antonio Celio gli fu dedicato il melodramma allegorico dal titolo Da un colpo due piaghe, overo la Feritrice ferita. Morì il 18 febbraio 1709(17). Nel 1681 aveva adottato Maria Mulcheria Rocci e il suo fratellino Antonio, figli del fratello Pompeo e di Anna Cenci.
Nel dipinto il nobile romano è raffigurato leggermente di tre quarti, con le labbra socchiuse, come in dialogo con lo spettatore, e con lo sguardo compiaciuto e bonario. Veste da pellegrino penitente, in abito di Cavaliere di Santiago di Compostella, in riferimento a San Giacomo Maggiore, figlio di Zebedeo, fratello dell’Evangelista Giovanni. Primo apostolo martire, fu fatto processare e decapitare da Erode Agrippa, nipote di Erode Antipa, l’uccisore di Giovanni Battista, nel 42 d. C., come si legge negli Atti degli Apostoli(12- 1,2). Ulteriori ma sempre poche notizie sul Santo e riferite ai momenti del suo discepolato con Cristo, sono riportate da Matteo(10, 1-2; ) e da Marco(14, 19; 10,35-45).
Leggendarie tradizioni medioevali, specie spagnole, vogliono invece che dopo la morte di Gesù, Giacomo si fosse recato missionario in Spagna, ma che lo scarso successo della sua opera pastorale lo avesse costretto a far ritorno in Palestina, dove incontrò la morte.
Le tradizioni vogliono ancora che i suoi discepoli imbarcassero il corpo decapitato su una nave senza equipaggio, ma che guidata da un angelo raggiungesse la costa della Galizia. Là, nel palazzo di una donna pagana convertita al cristianesimo per aver ricevuto una serie di miracoli, Giacomo ebbe sepoltura. Nel IX secolo fu scoperta quella che si ritiene essere la sua tomba e il luogo fu ribattezzato Santiago di Compostella, dove fu edificata una cattedrale che già nel secolo XI divenne, dopo Gerusalemme e Roma, una delle più famose mete di pellegrinaggio.
Per garantire ai pellegrini in viaggio al sepolcro del santo la protezione dagli attacchi dei musulmani, fu fondato a partire proprio da questo secolo, nel 1175, sotto il regno di Alfonso VII di Castiglia, l’ordine militare e religioso dei Cavalieri di San Giacomo, subito riconosciuto dalla Chiesa. Appartenervi divenne col tempo un grande onore e privilegio ma solo da parte di quei cattolici che poteva vantare una nobiltà da quattro generazioni. Dal secolo XVII potevano essere ammessi al cavalierato anche i nobili sposati.
Nelle immagini devozionali, rifatte più alle leggende che alla Scritture, San Giacomo è raffigurato i tre modi diversi: agli inizi della sua venerazione, come Apostolo, con l’attributo della spada, strumento del suo martirio, o con bastone del pellegrino; dal XIII secolo in poi, sia come Cavaliere e Santo patrono della Spagna, raffigurato a cavallo con lo stendardo, vestito con l’armatura o l’abito del pellegrino, mentre uccide un musulmano, sia come semplice Pellegrino, con il cappello a falda larga del viandante e il mantello, il bastone e la bisaccia, con il particolare attributo di una conchiglia applicata sul mantello. I Cavalieri di San Giacomo e i pellegrini diretti verso Santiago di Compostella, adottarono il costume del santo pellegrino(18).
Urbano Rocci, indossa il mantello di lana nera che diventa anche coperta per dormire, corredato della piccola bisaccia di stoffa sul pettorale, simbolo dell’elemosina con cui il pellegrino doveva sopravvivere, e del bastone o bordone dalla punta ferrata, sostegno nei passaggi difficili e arma di difesa contro ogni tipo di pericolo. Le tre conchiglie cucite sul mantello sono li a rappresentare l’emblema proprio del pellegrino, un modo simbolico e pratico per raccogliere l’acqua dai ruscelli o dalle sorgenti durante il lungo e faticoso cammino. Ma al rigoroso abito da pellegrino fa da contrasto l’elegante e prezioso colletto di pizzo e la voluminosa parrucca, elementi ai quali il pittore non ha voluto rinunciare nel rispetto degli ultimi canoni della moda francese a lui ben noti, con il proposito proprio di abbellire l’effigiato e circondarlo di in alone di ufficialità.
In questo studio ricercato del personaggio, che si inserisce nella produzione degli inizi del 1670, l’artista pur rispettando nella posa la tradizione ritrattistica romana, segue soprattutto la sua personale e naturale indole fiamminga, evidente nel trattamento minuzioso delle conchiglie, della fioccosa capigliatura che scende sul volto morbido e rosato, frutto anch’esso di una materia pittorica fluida e trasparente che crea effetti di grande raffinatezza. Le scarse notizie su Pompeo Rocci, ci informano che era il era il fratello maggiore di Urbano, cui trasmise il titolo di barone. Sposato con Anna Cenci, erano nati dal matrimonio Maria Pulcheria e Antonio, adottati nel 1681 da Urbano essendo già orfani di padre.
Somiglianze stilistiche del dipinto sono state ravvisate da Wilhelm (19) con il Ritratto di Gentiluomo dell’Ermitage, identificato da Petrucci(20) in Giovan Luca Durazzo, patrizio genovese, ambasciatore a Roma nel 1671.
Non a caso i due dipinti, insieme allo stesso ritratto di Urbano, sono stati oggetto di una recente mostra monografica sul pittore Voet nella Galleria della Cappella di Palazzo Reale di Genova, dal titolo “I gentiluomini del Voet”(27 novembre 2021-27 febbraio 2022), curata da Luca Leoncini.
Dal confronto dei tre ritratti si evince la già sottolineata marcata affinità di stile. La loro ricercata esecuzione, dovuta agli effetti delle bianchissime cravatte di pizzi veneziani, all’andamento delle parrucche, agli sguardi naturali dei personaggi, risente degli studi dell’accademia marattesca uniti a sensibilità cromatiche fiamminghe.
M. Lucrezia VICINI Roma 2 Aprile 2023
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