P d L
Gianni Papi è certamente uno dei più conosciuti, apprezzati nonché prolifici studiosi della vita e dell’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio ma anche di numerosi artisti italiani o ultramontani, fiamminghi, olandesi e francesi che del genio lombardo seguirono le orme. Non è possibile ricordare qui tutte le sue pubblicazioni, estese peraltro ad esegesi di carattere stilistico e iconografico, nè le esposizioni che ha curato o a cui ha partecipato da protagonista; per questo un’attenzione particolare ci aveva preso all’annuncio della sua ultima fatica, dedicata all’artista vallone Jean Ducamps, che appare artista di grandi qualità, di cui vengono peraltro accorpate dieci opere certe a costituire un primo catalogo, certamente destinato ad allargarsi. Notevole è anche il contributo che nello stesso volume Tommaso Borgogelli ha dedicato a Giusto Fiammingo sciogliendo con acume i dubbi sulla sua fin qui discussa identità rivelatasi essere quella di Joost de Pape.
Conversazione con Gianni PAPI
-La prima domanda che mi viene di farti è se questo libro che hai dedicato alla figura e all’opera di Jean Ducamps non nasca anche per una sorta di volontà di esorcizzare il fatto di aver dovuto prendere atto che il tuo –possiamo dire così- Maestro dell’Incredulità di san Tommaso non fosse appunto Ducamps, ma Bartolomeo Mendozzi, come ha dimostrato Francesca Curti.
R: Esorcizzare è una parola grossa, diciamo meglio che ho inteso riparare con un’altra soluzione (spero definitiva e giusta) all’ipotesi che io stesso per molti anni ho proposto, cioè che il Maestro dell’Incredulità fosse Ducamps, perché ritenevo che tale proposta fosse percorribile (anche se ho sempre lasciato un punto interrogativo). Ma non direi di essere rimasto deluso, la storia dell’arte come sai è sempre in cammino e le sorprese non mancano mai. Mi sento anche di dover precisare che la mia idea era alla fine stata accettata (più o meno esplicitamente) da diversi studiosi.
–Su questo torneremo, vorrei però ora all’inizio di questa nostra conversazione chiarire com’è che sei venuto a conoscenza della scoperta di Francesca Curti e come inizialmente l’hai giudicata.
R: Francesca mi aveva in effetti anticipato l’esito delle sue ricerche prim’ancora della pubblicazione ed effettivamente nei primi momenti ho cercato di capire se ci fossero tutti gli elementi in grado di smontare la mia idea; credo del resto che sia normale per chi, come me in questo caso, ha sostenuto per anni una sua tesi; poi però ovviamente mi è apparso chiaro quanto fosse irreprensibile il lavoro dell’amica studiosa ed ho accettato senz’altro che quello che avevo io stesso battezzato come il Maestro dell’Incredulità di San Tommaso non fosse affatto l’ultramontano Jean Ducamps ma il reatino Bartolomeo Mendozzi.
-Hai potuto vedere i documenti recuperati dalla Curti?
R: Ci siamo confrontati sulla sua ricostruzione, che era stringente e non faceva una piega, prima che pubblicasse tali novità su “Nuovi Studi”, e ne accennasse ampiamente nel catalogo della mostra di Fabriano e nel convegno a Palazzo Barberini in occasione della mostra Barocco in chiaroscuro.
-Dunque, si può oggi affermare che questa fino a ieri misconosciuta personalità si debba ritenere un personaggio tutt’altro che marginale nel terzo e nel quarto decennio del Seicento a Roma, è così?
R: Senza alcun dubbio; d’altra parte i quadri di Mendozzi e il suo percorso artistico sono gli stessi che avevo ricostruito io ed accorpato sotto il nome del Maestro dell’Incredulità, e per quanto concerne il periodo anche in questo caso esce confermata la mia ricostruzione di artista operante a Roma tra la fine del secondo decennio e la fine del quarto. Sono altresì d’accordo che il pittore debba essere considerato tutt’altro che un comprimario, anche se dal nome – mai apparso sulla scena dei grandi protagonisti – potrebbe apparire un carneade, mentre al contrario quello di Ducamps era un nome senz’altro più famoso.
–In ogni caso non si può escludere che altre opere possano passare da un nome ad un altro, anche considerando il fatto che personalmente mi pare di capire che sia esistita in quegli anni un’area comune per questi artisti che sembrano molto simili per i loro esiti pittorici, quasi una sorta di Koinè, come ci fossero legami culturali che poi si traducevano in un linguaggio più o meno comune; sei d’accordo? Mi ci fa pensare anche il notevole saggio di Tommaso Borgogelli, che segue il tuo su Ducamps, dove vedo trasferimenti da artisti ad altri ma della medesima appartenenza culturale.
R: Se devo essere sincero in realtà a me Mendozzi appare diverso rispetto agli artisti di cui si tratta nel volume che ho appena pubblicato (G. Papi, Jean Ducamps alias Giovanni del Campo, editori Paparo, Roma-Napoli, 2021). Ad esempio in Mendozzi non ci vedo grandi collegamenti con Simon Vouet, che è invece centrale per tali artisti; Mendozzi mi sembra piuttosto in sintonia con Bartolomeo Manfredi, come d’altra parte avevo già individuato –al di là del nome mutato- e come ha confermato proprio la Curti, e più prossimo ad altri artisti attivi a Roma in quegli anni, quali Tournier, o Douffet, ma anche Ribera e Cecco del Caravaggio hanno un ruolo importante nei linguaggio del pittore. Né d’altra parte, per rispondere alla tua domanda, è affatto escluso che possa uscire fuori un altro nome intorno al quale, com’è accaduto con Mendozzi, si possano raggruppare dipinti ancora non definitivamente attribuiti. Penso ad esempio ad un artista davvero efficace che ho nominato Maestro del buon samaritano, certamente olandese ma non simile a Baburen né a Honthorst, per dire, di cui magari con un colpo di fortuna un giorno scopriremo l’anagrafe, e questo vale pure per il Maestro della Flagellazione di Cesena, altro pittore di alta qualità che purtroppo ancora è ignoto. Nel caso di Mendozzi decisivo è stata una guida antica del Duomo di Rieti.
–Nel tuo libro pubblichi dieci quadri di Jean Ducamps; come mai ce ne sono così pochi?
R: Ma dieci quadri certi non sono affatto pochi! Non mi pare proprio poco aver messo assieme dieci opere riguardanti un artista che prima del libro aveva una fisionomia indefinita e al quale erano assegnate opere anche diverse fra loro; anche se due o tre di quei dipinti li accetto e hanno parte importante nella mia ricostruzione.
-E tuttavia trovo strano che su di lui si abbiano discrete notizie biografiche e poche notizie di opere certe, al contrario di altri artisti dell’epoca, ad esempio lo stesso Manfredi di cui si sa poco riguardo alla vita ma non poco riguardo all’attività artistica; non ti pare?
R: Le notizie su Ducamps sono pressoché quelle di quando io me ne ero occupato come Maestro dell’Incredulità di san Tommaso. Esse riguardano il periodo che ho indicato, inoltre veniva registrato da Sandrart un dipinto importante con una Liberazione di San Pietro dal carcere.
Lo stesso Sandrart segnalava l’esecuzione di quadri con Evangelisti e Apostoli, mentre un equivoco in un tardo Inventario Giustiniani poteva far pensare che il pittore fosse prossimo a Cecco del Caravaggio, tanto da essere scambiato con lui. Oltre a questo, solo un altro documento importante, di cui parlerò più avanti e che non avevo abbastanza considerato.
–Allora puoi ricostruire per i nostri lettori quale è stato il tuo percorso?
R: Ripercorriamo brevemente l’iter accidentato delle ipotesi di identificazione di Ducamps. Roberto Longhi aveva sostenuto che alcuni dipinti che raffigurano la Morte al banchetto e Giocatori di carte, fossero di Ducamps sulla base di un monogramma DCF su uno di essi, che lo studioso sciolse come Du Camps Fecit;
per diversi anni questa lettura è stata accettata, almeno fino agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso; del resto è noto che l’autorità di Longhi molto spesso è stata vissuta con soggezione e accettata.
Successivamente si è potuto però verificare come quei dipinti fossero di mano di Giovanni Martinelli, il quale molto probabilmente a Roma ha orbitato nel giro di Simon Vouet, tanto quei dipinti mostrano evidenti le influenze dell’artista transalpino. Successivamente è stato proposto (da studiosi che hanno portato avanti fino al 1992 tale ipotesi, come Slatkes) che Ducamps non fosse altro che Cecco del Caravaggio. E infine, lo abbiamo ripetuto più volte, è venuto il Maestro dell’Incredulità di san Tommaso.
-Però non ci sono prove documentarie dei rapporti tra Martinelli e Vouet.
R: No, in effetti non è neppure certo che Martinelli sia transitato per Roma, anche se tutto lo fa pensare, a cominciare dal fatto che manca da Firenze per sei anni, dal ’25 al ’32 e in questo periodo si ritiene fosse proprio a Roma dove certamente avrebbe potuto entrare in contatto con Vouet, all’epoca personaggio di primissimo piano (a Roma fino al ’27, quando rientrò a Parigi), o comunque con quanti in quegli anni ne sentivano l’influenza.
-Il saggio di Borgogelli mi ha messo davanti a dati davvero importanti e fatto nascere osservazioni, come dicevo all’inizio, sull’ipotesi che potesse esistere un qualche legame tra questa cerchia di pittori dall’alfabeto molto simile, tanto che si possa oggi con il maturare degli studi – e quello di Borgogelli ne è un esempio- ridefinire attribuzioni un tempo date per acquisite, come nel caso di dipinti che da Ginevra Cantofoli per lo studioso passano a Luigi Gentile. Insomma, chiedo a te che hai da tempo studiato tante interconnessioni tra artisti, contribuendo a delineare nuovi profili, se è possibile credere che sia esistito un qualche legame ideale e culturale?
R: Ci può stare, ma se possiamo pensare a un collegamento ideale e culturale in senso lato, allora certamente questo è possibile individuarlo nel caso di Giusto Fiammingo nel suo rapporto con Luigi Gentile che in effetti pare sia stato assai stretto, come del resto scrive giustamente Tommaso Borgogelli, il quale ha messo in rilievo i rapporti di entrambi coi Rospigliosi e il fatto che entrambi fossero chiamati a lavorare a Santa Maria dell’Anima e così via. Ma il saggio dello studioso scioglie anche il dilemma di chi fosse in realtà Giusto Fiammingo, che dopo vari tentennamenti negli studi di questi ultimi anni, ora mi pare chiaro che coincida con il nome di Joost de Pape.
-E’ vero ho letto molto a fondo il saggio in questione e trovo anch’io del tutto plausibile l’accostamento anzi la coincidenza dei nomi, ma mi pare di leggere una qualche cautela nella prosa di Borgogelli, sbaglio?
R: Tommaso ha preferito, forse giustamente, restare un poco cauto e questo generalmente è un bene, tuttavia nel caso specifico mi sento tranquillo, perché i dati raccolti e le argomentazioni portate secondo me sono probanti.
-Per tornare a Jean Ducamps, le opere che tu hai riunito le ritieni certe, ma credo che non escluderai di accorparne altre…
R: Direi proprio di sì. Soprattutto, leggendo la sua biografia scritta dal Sandrart, che cita la notevole Liberazione di San Pietro a cui facevo cenno prima, credo proprio di averla identificata con un quadro straordinario che non esito a definire uno delle opere più importanti dipinte in quell’epoca, cioè la tela conservata nel Musée des Beaux-Arts di Aurillac. Si tratta di un capolavoro assoluto, che quando arrivò alla mostra milanese del Genio degli Anonimi, che curai nel 2005, mi lasciò letteralmente a bocca aperta.
-Su Ducamps poi però tu hai avuto idee diverse rispetto a Andrea G. De Marchi, è così?
R: C’è un dato che io avevo sottovalutato quando mi occupavo del Maestro dell’Incredulità e che invece giustamente Andrea G. De Marchi aveva colto (e prima di lui John Michael Montías nel 1983, in un articolo rimasto un po’ ai margini), vale a dire il ricordo di Leonart Bramer datato 1672 riguardante un Amore di Virtù che Bramer aveva commissionato a Ducamps oltre quarant’anni prima. Quell’opera è a mio parere da identificare con la tela di identico soggetto che oggi è conservata presso il Museo di Riga. Nel suo contributo del 2000 De Marchi riteneva, piuttosto inaspettatamente, che quella di Riga fosse un’opera di qualità modesta, forse replica di un altro Amore di Virtù individuato da Pierre Rosenberg nell’82 presso l’University Art Gallery di Yale. Secondo me il quadro di Riga, che contrariamente al De Marchi considero bellissimo, è il dipinto citato da Bramer (era di questo avviso anche Montías nel 1983) e quindi da qui secondo me si deve partire (e sono partito) per ricostruire il corpus artistico di Ducamps.
Merito di De Marchi senza dubbio è aver individuato l’inizio della storia, se posso dire così, poi però non condivido la sua conclusione riguardo alla coincidenza tra Ducamps e Giusto Fiammingo. Altro merito dello studioso è anche di aver riferito a Ducamps l’ottagono di Palazzo Valentini che nel 1990 avevo ritenuto fosse di Simon Vouet. Oggi sono convinto anche io che si tratti di Ducamps ed è infatti uno dei numeri del catalogo che ricostruisco nel libro. Anche questo è un dipinto di grande rilievo, come del resto l’Allegoria dell’astronomia di collezione Cremonini che ho riferito al pittore fiammingo e che ho scelto come copertina del volume. Questo dipinto testimonia anche del rapporto di cui dicevamo con gli esiti di artisti fiorentini dell’epoca, quali Martinelli e Cesare Dandini.
-Si effettivamente fa pensare a Cesare Dandini a prima vista.
R: Infatti, ma per tornare alla tua domanda, sì, mi aspetto che riemergano altre opere di Ducamps dal momento che questo che ho pubblicato è un primo nucleo che corrisponde perfettamente ad una personalità unitaria di grande livello. Dopo essere passati per Cecco, per Martinelli, poi Mendozzi, ora mi pare di aver fornito coordinate che spero siano sicure. Ecco, Martinelli devo dire che è stato uno dei pochi pittori fiorentini a recepire il naturalismo elaborato a Roma nei primi decenni del Seicento, e per questo ritengo piuttosto certa la sua presenza nella città pontificia negli anni di cui parliamo. Firenze per motivi storico artistici è stata in effetti piuttosto refrattaria da questo punto di vista, e tuttavia è curioso che la massima concentrazione di quadri di Caravaggio e dei cosiddetti caravaggeschi, dopo Roma, si trovi proprio sulle rive dell’Arno: questo grazie al collezionismo mediceo. La corte amava il naturalismo che arrivava da Roma, gli artisti assai meno.
-Dunque, quando Ducamps arriva a Roma (tu scrivi tra la fine del ’21 e gli inizi del ’22), trova un’atmosfera ancora nel segno del caravaggismo, ancorché prossimo al suo declino, dove sembra prevalere l’astro di Bartolomeo Manfredi.
R: In quel momento l’atmosfera caravaggesca in effetti è ancora viva, ma non c’è solo Manfredi, le personalità sono tante a cominciare da Spadarino, una figura forse ancora non valutata fino in fondo per tutta la sua importanza, ma che è determinante, che ha rilevanza anche per gli stranieri (soprattutto fiamminghi e olandesi) che arrivano in città, che dimostrano senz’altro di avvertirne l’influenza.
-Perché a tuo parere?
R: Il perché non saprei dirlo, so solo che fiamminghi ed olandesi lo guardano e ne rimangono condizionati, pensa ad esempio a Paulus Bor, a Johannes van Bronchorst, ma anche – già prima – allo stesso Honthorst e proprio al ‘nuovo’ Ducamps. Personalmente ho sempre creduto che Spadarino fosse un artista eccezionale, forse rimasto un po’ in ombra perché apparentemente meno legato a grandi giri collezionistici, ma sono convinto che sul suo conto ci sia ancora parecchio da scavare.
-A proposito di commissioni, non si può ritenere che la quantità relativa di dipinti assegnati a Ducamps dipenda proprio dal fatto che abbia avuto poche commissioni nonostante la sua permanenza a Roma non sia stata affatto breve? Da cosa può essere dipeso secondo te? Azzardo: forse da motivi religiosi, magari aderiva al protestantesimo?
R: No, non credo che ci fossero di mezzo motivi religiosi. Lui è di Cambrai, è vallone di religione cattolica non riformata, al pari ad esempio di Gerard Douffet, e tutti e due parlavano francese. Poi, come dicevo prima, non credo affatto che riunire in un colpo solo e su base stilistica dieci dipinti (tre o quattro già indicati da De Marchi e da Montías, che aprivano la strada, come si è detto) sia limitato. Per quanto riguarda le committenze, si tratta di portare avanti la ricerca, forse non furono affatto così scarse.
-Una cosa che colpisce nel tuo libro è la netta separazione tra le due personalità di Giusto Fiammingo e Jean Ducamps.
R: Hai ragione, ed era necessario, perché come ti dicevo erano state unite da Andrea G. De Marchi; ma le avevano già separate anche Maria Cristina Terzaghi e Francesca Cappelletti.
-Ci avviciniamo alla conclusione e non credo di sbagliare se, volendo sapere quale è secondo te il capolavoro assoluto dipinto da Jean Ducamps, indicheresti La Liberazione di San Pietro; è così?
R: Assolutamente! Un quadro davvero fuori dal comune, straordinario per resa pittorica e per invenzione che d’altra parte, come si è visto, aveva colpito anche il Sandrart; è un dipinto che indubbiamente riassume un po’ tutti gli elementi linguistici che ritroviamo nelle opere che ho riunito come sicure di mano di Ducamps. Mi affascinano moltissimo gli elementi inseriti nel dipinto; pensa solo alla scritta incisa sui muri della cella: DULCE TRACQUE LIBERTAS che compare attorno al disegno di un uccellino dentro ad una gabbia e sulla destra la parola BRACHIA nei pressi di un altro disegno in cui appena accennato si può scorgere la fisionomia per quanto incerta di un impiccato.
-Come hai sciolto questa iconografia e queste scritte?
R: Le parole DULCE e LIBERTAS sono evidentemente latine mentre TRACQUE è probabilmente una corruzione dal francese TRAQUE che con le altre due sta a significare DOLCE RICERCATA LIBERTÀ, e se affianchiamo la scritta alla gabbia con l’uccellino il senso appare evidente, vale a dire l’importanza della libertà, primo pensiero di chi l’ha perduta.
-Direi quasi geniale.
R: Certamente come del resto geniale è l’artista. Peraltro la presenza di quel termine “tracque” o “traque” ha in qualche modo rafforzato il mio convincimento, cioè che fosse stata ideata e realizzata da un pittore fiammingo e francofono, elemento che di certo non era in contrasto con l’autografia di Ducamps. Egli peraltro era assiduo frequentatore dei noti Bentveughels, che erano soliti lasciare scritte sui muri delle loro riunioni, com’è chiaro in un famoso disegno di Pieter van Laer e in un quadro di Roeland van Laer. Ma oltre a ciò, evidentemente i precisi riscontri stilistici hanno determinato la certezza della mano dell’artista di Cambrai, come il volto dell’angelo con quelle labbra ricorrenti nei suoi quadri, la luce sul braccio, il modo di trattare le ali con la stessa luce che ritroviamo nel quadro di Riga, per non dire della struttura della coperta rossa che avvolge san Pietro simile al mantello del san Giovanni Evangelista di Palazzo Valentini.
-Un’ultima domanda riguarda i tuoi impegni futuri; c’è qualcosa in cantiere che possiamo anticipare ai nostri lettori’
R: Posso dire che sto lavorando ad una mostra, la prima in assoluto, dedicata a Cecco del Caravaggio, un artista, per tanti aspetti di eccezionale rilievo nell’ambito del movimento caravaggesco, non ultimo il rapporto diretto e intimo col Merisi. Di lui poco si sa, ad un certo punto sparisce ancora assai giovane e non si hanno più sue notizie; la mostra è prevista per gli inizi del 2023 all’Accademia Carrara a Bergamo e riunirà quasi tutti i suoi dipinti.
-Tu hai scritto una monografia nel 2001 su Cecco del Caravaggio, oltre ad avergli dato anche nome e cognome, cioè Francesco Boneri, però su molti aspetti, in particolare sui dati di vita non si era saputo molto; ci sono novità sotto questo aspetto?
R: Vedremo, ci sto lavorando …
P d L Roma 23 dicembre 2021