di Giorgia TERRINONI
“Quando guardo una superficie riflettente si tratta di un avvenimento metafisico perché c’è una certa differenza di tempo rispetto alla realtà; non viene vista in maniera precisa e definita, l’immagine è distorta, irradia affermazione e astrazione. La distorsione, o un’altra maniera di guardare alle cose, dà un senso di possibilità a tutto. Il nostro passato non importa, tutti noi possiamo splendere”.
(Jeff Koons)
Sono andata a Firenze convinta che la mostra Jeff Koons. Shine (Palazzo Strozzi, 2 ottobre 2021 – 30 gennaio 2022) non mi sarebbe piaciuta, che mi avrebbe lasciata perplessa e che sarebbe stato facile scriverne male. Per carità, negli ultimi anni ho visto qualche mostra notevole a Palazzo Strozzi, mai innovativa ma sempre ben curata nonché esaustiva.
La Fondazione tende alle antologiche di artisti contemporanei di grosso calibro, le mostre determinanti dei quali si sono svolte altrove e almeno un ventennio fa. Ma a Palazzo Strozzi alcune delle loro opere più significative ci sono sempre e la finalità commerciale è comunque sostenuta dalla volontà di creare un prodotto eccellente. Date queste premesse, non c’era motivo che io pensassi che Jeff Koons. Shine avrebbe fatto eccezione. Tuttavia, immaginavo un percorso espositivo più in linea con la banalizzazione che l’ultimo decennio ha riservato all’opera dell’artista americano, ridotta a una bolla di mercato e riconvertita in merchandising da catene di design scadente. Balloon Dog è diventato un ninnolo da tavolino.
Sono lieta di essermi sbagliata, e la mostra è sì ben confezionata, ma è anche rappresentativa del percorso di Koons. La temporalità è un po’ sballata, va avanti e poi torna indietro più di una volta, perché il criterio cronologico – che pure è presente – è subordinato al criterio tematico. Quest’ultimo indaga un aspetto ossessivamente ricorrente della ricerca di Koons – anche se talvolta sotterraneo – ovvero quello della lucentezza, dello shine appunto.
È interessante osservare che il termine inglese shine deriva dal tedesco schein che significa sia lucentezza sia apparenza. Nella cultura filosofica occidentale, l’apparenza è portatrice di un’accezione negativa – basti pensare a Platone – ed è intesa come radicalmente altra dalla realtà, cio che sembra e non ciò che è. Da Kant in poi, la filosofia occidentale inizia ad accettare l’apparenza senza più contrapporla alla trascendenza e a ravvisarvi persino un principio di elevazione.
Ora, tornando a Koons, lo shine si manifesta indiscutibilmente nelle opere in acciaio inossidabile realizzate a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e che lo hanno reso arcinoto nel mondo; pure esso si affaccia in modo forse ancora sporco anche in quelle precedenti. Inoltre, la lucentezza ambisce ad essere dialettica e non è fine a se stessa, come vorrebbe l’opinione che relega il lavoro dell’artista a una mera operazione commerciale, anche un po’ volgare e sostanzialmente devota alla celebrazione della società consumistica dell’era postmoderna.
Jeff Koons – nativo della Pennsylvania ma che ha studiato alla School of Art Institute di Chicago – si trasferisce a New York nel 1977 attratto dalla cultura underground che nella città ha il suo maggior epicentro. Lavora al Membership Desk del MoMA e nel frattempo si guarda intorno tra le sale del museo d’arte contemporanea più bello e importante del mondo. In questo momento l’artista che più gli rimane appiccicato addosso è Duchamp. Koons inizia a ragionare intorno al ready-made, ma il ready-made duchampiano è ormai inevitabilmente passato attraverso il debordare di Andy Warhol e la rigorosa/industriale serialità del Minimalismo.
E così, dalle migliori incarnazioni dell’arte come idea, Koons prende delle cose e ne tralascia delle altre e in ogni caso tutte le trasforma. Nasce la serie degli Infiatables, giocattoli gonfiabili in vinile circondati da specchi di circa 30 cm di lato.
I fiori vinilici sono deliziosi e accattivanti, pure però inquietano e destabilizzano perché ci si sente al contempo dentro e fuori dal loro giardino. Lo spettatore è dentro perché si vede riflesso insieme agli oggetti, ma è anche fuori perché nel riflesso qualcosa fugge sempre via insieme alle repentine variazioni di luce. Le serie immediatamente successive – Pre-New, The New ed Equilibrium – sono quelle che portano Koons all’attenzione della critica e del mercato più che del pubblico, iniziando a determinarne il mito assai discusso. Nel 1980 la sua prima personale si tiene nella vetrina d’ingresso del New Museum di New York: in uno spazio buio, tre aspirapolvere inseriti all’interno di teche di plexiglass sono inondati dalla luce fredda di fari al neon.
Gli elettrodomestici sono nuovi, nessuno li utilizzerà mai e la loro superficie, valorizzata da una luce artificiale, rimarrà per sempre immacolata. Indubbiamente, come sostiene Hal Foster ne Il ritorno del reale, gli elettrodomestici di Koons divengono dei feticci e ribaltano Duchamp nel valore d’uso. Il ready-made duchampiano propone la sostituzione degli oggetti di valore d’uso con oggetti di valore estetico – un orinatoio al posto di una scultura – laddove, invece, i ready-made di Koons fanno esattamente l’opposto. Questi ultimi infatti presentano oggetti di scambio, ovvero merci, in un luogo deputato all’arte e lo fanno secondo una modalità – la teca, il neon, ovvero l’esponibilità – che ne cancella completamente l’uso. In tal senso, si avvicinano alla perdita dell’aura dell’arte predetta da Benjamin e messa in opera da Warhol e dai minimalisti.
Ma se Koons si fosse fermato qui, si sarebbe limitato ad avallare il solco già tracciato dagli artisti nominati in precedenza. Per questa ragione io credo che sia riduttivo leggere il suo lavoro solo secondo un’estetica del desiderio che identifica le merci – e aggiungerei anche il sesso – con immagini auratiche. Prendiamo le due serie che precedono Statuary, ovvero Equilibrium e Luxury and Degradation.
Della prima fanno parte i palloni da basket sospesi all’interno delle solite teche di plexiglass, ma questa volta riempite d’acqua distillata. Il titolo della serie allude all’impossibilità di mantenere un equilibrio negli scenari biologici e sociali. Scomodando niente meno che Richard Feynman l’artista riesce a materializzare temporaneamente l’idea di equilibrio. Ma l’impossibilità resta, forse è essa stessa l’essenza della ricerca.
Con Luxury and Degradation Koons approda alle note icone in acciaio inossidabile. Ma queste prime immagini non sono accattivanti come le successive; sono immagini astratte di ricchezza, incarnano il desiderio, ma pure ne rivelano troppo da vicino il lato oscuro, ovvero la disperazione della decadenza o della marginalità. Jim Bean – J. B. Turner Train (1986) esprime perfettamente questa duplicità, rappresentando la miniatura argentea e riflettente di un treno che però trasporta bourbon e per giunta dozzinale. Va così, le superfici – sia quelle dei beni di lusso sia quelle dei beni che simulano solo la patina del lusso – sono spesso riflettenti, ma il riflesso è per definizione inafferrabile, è metafora per eccellenza dell’ambiguità, di tutto ciò che è molteplice e sfaccettato. La scelta dell’acciaio inossidabile come medium non è dettata da ragioni solo estetiche. L’acciaio inossidabile è un materiale dalla superficie attraente, tanto più nelle sue declinazioni dalla policromia sintetica, ma non è prezioso, è anzi il materiale del proletariato, di cui sono fatte le pentole e le padelle!
“Con The Rabbit (1986) ho voluto realizzare un’opera che fosse visivamente intossicante e generosa. Perché l’arte è condivisione, accettazione della propria storia – qualsiasi sia il tuo passato, è perfetto! – ed equilibrio sociale”.
Ho citato questa affermazione criptica e quasi vicina al non-sense con la quale Koons descrive la sua opera probabilmente più iconica, il coniglietto che si porta una carota in bocca. L’ho fatto per rendere ancora più palese la duplicità dello shine, per non dire la sua dialettica. Dal coniglio in avanti, nell’opera di Koons, l’ambiguità dell’immagine si fa più potente ma meno percepibile e diventa difficile distinguere tra apparenza e realtà. Per realizzare le sue sculture in acciaio che imitano le strette torsioni e le curve di un palloncino gonfiato da un clown a una festa (Balloon Dog, 1994-2000) o i gonfiabili da spiaggia (Lobster, 2007-2021) l’artista inizia a collaborare con fonderie altamente specializzate. Lobster cita il telefono surrealista di Dalí come pure i baffi dell’artista spagnolo che audacemente un giovanissimo Jeff Koons contatta per incontrarlo già nel 1974.
Ma l’aragosta è anche un animale misterioso, longevo e perennemente fertile a meno di non incappare nell’ingordigia dell’uomo. Un animale che richiama elementi dell’anatomia sia maschile sia femminile, aprendosi dunque a un polimorfismo che di nuovo mette in gioco la riflessività che poi è anche la riflessione!
E così mi pare che l’arte di Koons, dagli esordi e fino a oggi, metta in scena in modo sempre più sottile la necessità di comunicare, ma senza assunti bensì nel rispetto della polisemia del reale. Il suo impatto è immediato, ma dalla lucentezza degli oggetti s’irradia una molteplicità di significati che si può o meno aver voglia d’indagare. In fondo, possiamo pure continuare a tenere una miniatura da pochi spicci di Balloon Dog sul tavolino del salotto.
Giorgia TERRINONI Roma 24 ottobre 2021