di Claudio LISTANTI
Il magnifico capolavoro Händel mancava dai Concerti di Santa Cecilia da moltissimo tempo.
Ovazione finale per il direttore e per la validissima compagnia di canto. Apprezzata edizione semiscenica realizzata Thomas Gunthrie
Una lunga serie di ovazioni ha salutato l’esecuzione di Semele di Georg Friedrich Händel che l’8 maggio scorso ha infiammato il numeroso pubblico convenuto presso la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica per ascoltare questo grande capolavoro Händeliano di (purtroppo) rara esecuzione, inserito nell’ambito della stagione concertistica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che è stato esaltato dall’arte musicale e direttoriale di John Eliot Gardiner vero e proprio specialista per questo genere di repertorio.
E’ stato questo un evento molto atteso a Roma perché Semele, pur essendo considerata dalla critica come ‘grande capolavoro’ è -come dicevamo- di rarissima esecuzione e gli addetti ai lavori come tutti gli appassionati ed intenditori romani hanno affollato la sala per ascoltare questo ‘gioiello’ della musica e la sua pregevolissima edizione
Semele, oratorio in tre parti su libretto del drammaturgo inglese William Congrave, rappresentato la prima volte presso il Teatro Covent Garden di Londra il 10 febbraio 1744, può essere considerato un ‘prodotto’ di un Händel maturo che segue di poco due altre grandi pagine del genere oratoriale, Messiah (1742) e Samson (1743). Ormai aveva abbandonato il genere ‘Opera’ categoria che in Inghilterra era in stato di conclamata decadenza per le forme di stile ‘italiano’ che privilegiavano la ‘aria’ in tutti i suoi stilemi per rappresentare azioni per lo più a carattere ‘profano’, elementi che avevano contribuito al successo ed alla diffusione di questo genere. L’Oratorio, al contrario, narrava di soggetti ed azioni a sfondo ‘sacro’ ed avevano una parte descrittiva, sviluppata con i frequenti interventi del coro, elementi molto più apprezzati dal pubblico anglosassone per i quali mostrava un gradimento sempre maggiore fatto che stimolò a pieno la fervida inventiva musicale di Händel
Quando giunse a Semele il musicista sassone, dimostrò ancora una volta l’enorme portata del suo genio musicale, introducendo una sorta di ‘novità’ stilistica che consisteva nel produrre una partitura che può essere considerata punto di incontro tra ‘Opera’ e ‘Oratorio’ costruita su soggetto di tipo ‘profano’ con utilizzo di grandiose parti corali che si fondevano con la parte squisitamente emotiva e sentimentale tramite splendide ‘arie’, molte delle quali con ‘da capo’, e inserendo ‘recitativi’ e ‘ariosi’ di particolare ed efficace espressività. Una miscela questa che regalava a tutta l’opera una straordinaria ‘teatralità’ scavando così delle solide fondamenta sulle quali si costruirono, poi, le grandi architetture operistiche dell’800. In sintesi si può dire che oratorio può essere considerato una sorta di ‘manifesto’ di quella che sarà l’Opera del futuro.
Come si può evincere, Semele, alla luce delle conoscenze di oggi, è senza ombra di dubbio una rivoluzione nello stile musicale ma all’epoca, fu percepito come un ibrido a dispetto della sua classificazione di ‘Oratorio’. Come spesso è accaduto, e accade, nella Storia della Musica le novità non sono comprese immediatamente (tanti sono gli esempi illustri) e Semele non decollò nel gusto e nell’apprezzamento degli ascoltatori di fine ‘700 per cui cadde in un immeritato, quanto ingiusto, oblio sanato solo con l’avvento del’ 900 quando ci furono le condizioni intellettuali per comprendere le ‘novità’ in essa espresse.
William Congreve, autore del testo, si ispirò ad un episodio della Metamorfosi di Ovidio in cui si narra di Semele, attraente e sensuale figlia di Cadmo re di Tebe ma, anche, amante e riamata da Giove. Il padre degli Dei le si presenta in aspetto umano, anziché in uno dei soliti travestimenti. Ma Semele non si accontenta. Vuole essere amata da Giove in aspetto divino provocando la furiosa gelosia di Giunone che le si palesa sotto la falsa veste della sorella Ino per consigliarle di richiedere di entrare nel novero degli immortali. Finirà poi bruciata dal fulmine di Giove che però salverà il feto che aveva in grembo perché la gravidanza sarà costudita nella coscia del dio e portata a termine quando nascerà Bacco.
Congreve era uno scrittore molto apprezzato, comico e drammaturgo ma soprattutto impeccabile stilista. Scrisse il libretto di Semele all’inizio del ‘700 sotto forma di ‘Opera’ e musicato nel 1707 da John Eccles ma di questa partitura non si conoscono i contorni e se, e quando, fu rappresentata. Händel provvide ad arrangiare il contenuto per essere adattato agli stilemi della forma ‘Oratorio’ grazie all’aiuto di Newburgh Hamilton che riuscì a renderlo funzionale ai desideri del musicista ed esaltando tutti gli elementi fondamentali del testo che sviluppa sentimenti come la perfidia, la gelosia, la passione e la sensualità esaltati dall’invenzione musicale di Händel. Il libretto ha un titolo assai curioso, dimostrazione del desiderio di Händel di andare oltre la forma ‘Oratorio’: La storia di Semele. Come è eseguita al Teatro Reale del Covent Garden . Adattamento di Semele di Mr. William Congreve, messo in musica da Mr. George Frederick Handel. MDCCXLIV. E proprio il termine ‘Storia di Semele’ è usato perché il carattere profano del testo non consentiva l’utilizzo del termine ‘Oratorio’.
La partitura händeliana è straordinaria. Già l’Ouverture introduttiva è imponente e riesce a condurre repentinamente l’ascoltatore nel cuore del dramma al quale di lì a poco assisterà. Così moltissime arie riescono a centrare circostanze dell’azione e sentimenti dei personaggi. Già le prime due arie di Semele riescono a disegnare il personaggio con tutti i suoi contrasti interiori, ‘O love! In pity teach me which to choose’ e ‘The mornig lark’ e lo straordinario virtuosismo della grande aria del terzo atto che ne descrive tutta la sua vanità ‘Myself I shall adore’ con le quali Händel esaltò le qualità vocali della sua cantante preferita, Elisabeth Duparc, nota anche come ‘Francesina’.
La perfidia di Juno ed il suo senso di vendetta trovano spessore con la tessitura per mezzosoprano e le due arie del secondo atto, ‘Awake, Saturnia’ ed anche con la formidabile coloratura di ‘Hence, hence, Iris away’. A Jupiter è affidata la parte del tenore, scritta anch’essa per uno dei cantanti cari ad Händel, John Beard che alla prima esibì le sue qualità vocali che esaltavano espressività ed eleganza nelle emissioni; a lui è affidata l’aria più famosa dell’opera, ‘Where you walk’ che fa della semplicità e della delicatezza melodica gli elementi fondamentali.
Molti sono i pezzi di insieme che costellano la partitura. Il più interessante è il quartetto del primo atto, ‘Why dost thou thus untimely grieve’, breve e meraviglioso dove Semele, Ino, Athamas e Cadmus esprimo la loro ‘individulità’ di sentimenti, un pezzo di insieme che ci porta di colpo a Mozart e a tutta l’opera italiana dell’800. Ma c’è anche la dolce sensualità del duetto ‘Prepare then, ye immortal choir!’ tra Semele ed Ino e lo straordinario ‘Obey my will’ dove Juno convince Somnus ad assecondare i suoi progetti.
Poi l’utilizzo straordinario del coro in senso teatrale e drammatico come il coro che sottolinea l’ira di Jupiter, ‘Avert these omnes, all ye powers!’ e lo sconvolgente senso di terrore di ‘Oh terror and astonishement’. Ma anche il coro introduttivo del I atto ‘Lucky omnes bless our rites’ e quelli finali di ogni atto, nel primo ‘Endless pleasure, endless love’ che ripercorre l’estasiante melodia della precedente aria di Semele , i caratteri miti e pastorali di ‘Bless the glad eath with heav’nly lays!’ nel secondo e quello finale, ‘Happy, happy shall we be’ sorretto dal pieno orchestrale, sfarzoso e festoso, un affresco sonoro che è vero e proprio suggello ad un grande capolavoro musicale.
Per quanto riguarda l’esecuzione c’è da dire che è stata utilizzata la soluzione della forma ‘semiscenica’ soluzione che noi che scriviamo troviamo spesso insignificante e distraente ma, in questa occasione, dobbiamo dire è stata realizzata in maniera del tutto intelligente e coinvolgente riuscendo a coniugare i contrasti derivati dai caratteri della commedia e della tragedia che caratterizzano questa partitura, così come i frequenti momenti sensuali. Questo grazie alla regia di Thomas Gunthrie che è riuscito, con l’utilizzo di alcuni semplici elementi scenici ad amalgamare i contenuti, ma efficaci, movimenti dei personaggi agli eleganti costumi di Patricia Hofstede e alle luci di Rich Fischer.
La compagnia di canto era interamente costituita da specialisti. Louise Alder è stata una Semele trascinante, in possesso di una voce elegante e raffinata, superando soddisfacentemente le difficoltà derivate dalla asperità della linea vocale che Händel concepì per la Duparc; per lei il gradimento più ampio da parte del pubblico. Hugo Hymas ha dedicato a Jupiter la sua elegante voce di tenore, restituendoci un personaggio dai toni certo non roboanti ma piacevolmente delicati forse un po’ penalizzato dall’immensità della sala che comunque non ci ha impedito di apprezzarne l’indubbia eleganza. Per le voci del registro grave c’era il basso Gianluca Buratto che ha messo a disposizione la sua robusta e rotonda voce per i personaggi di Cadmus e Somnus e Lucille Richardot, mezzosoprano, anche lei provvista di voce robusta e rotonda adatta ai personaggi interpretati, Ino e Juno. Infine Carlo Vistoli, Athamas, già conosciuto qui a Roma per il recente successo che ha ottenuto al Teatro dell’Opera come Orfeo gluckiano; anche in questa occasione ha esibito eleganza e sicurezza di emissione anch’egli penalizzato dalle dimensioni della sala non proprio adatta alla poca potenza che la voce di controtenore irrimediabilmente contiene ma che, anche in questo caso, non ha impedito di apprezzarne le sue indiscusse qualità.
Queste erano le parti principali ma hanno ben figurato anche gli altri interpreti: il soprano Emily Owen una delicata Iris, il soprano Angela Hicks divertente Cupid, il tenore Peter Davoren un appropriato Apollo con il soprano Alison Ponsford-Hill ed il basso Danile D’Souza rispettivamente Endless Pleasure e High Priest entrambi ben inseriti nell’esecuzione.
Concludiamo con la direzione d’orchestra di John Eliot Gardiner, del quale ancora non sono spenti gli echi degli splendidi Berlioz e Dvorak di circa un mese e mezzo che, qui a Roma, ci ha offerto nella stessa sala.
Ancora una volta è risultato il vero ‘gigante’ della serata con una esecuzione che lascia intravedere un minuzioso lavoro di preparazione che ha condotto ad una amalgama quasi perfetta tra tutte le componenti dello spettacolo, amalgama ottenuta non solo grazie a coloro appena citati ma anche alle sue due splendide creature, l’English Baroque Soloists compagine orchestrale di sopraffina professionalità ed il Montervedi Choir che riesce ad essere strumento perfetto privo di indecisioni e sbavature. Gardiner è riuscito, grazie ad una stupefacente musicalità, a plasmare tutti gli interpreti per renderli funzionali alla sua visione del capolavoro di Händel che ne ha esaltato la prodigiosa teatralità, un’arte direttoriale che ha ‘elettrizzato’ il pubblico presente che, oltre a frequenti applausi a scena aperta, ha tributato al musicista e agli interpreti tutti un indiscutibile, ed indimenticabile, trionfo.
Claudio LISTANTI Roma maggio 2019