di Francesca SARACENO
Era il luglio del 1597 quando, probabilmente su suggerimento di Prospero Orsi, il cardinale Francesco Maria del Monte portava alla sua corte un giovane talentuoso pittore lombardo che rispondeva al nome di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Lo aveva intercettato, forse proprio grazie agli “schiamazzi” di Prosperino, presso il rigattiere e mercante d’arte Costantino Spada (la cui bottega era proprio adiacente alla residenza romana del cardinale), acquistando quel primo straordinario dipinto del Giuoco (I bari), nel quale le indubbie capacità del giovane pittore emergevano in tutta la loro prorompente potenza; tecnica e concettuale. Dal momento in cui il Merisi varcò la soglia marmorea dell’augusto Palazzo Madama, la sua vita e la sua professione subirono una virata epocale. Dopo un periodo di dura gavetta, peregrinando da una bottega all’altra, nel quartiere degli artisti dove, fino a quel momento, aveva tirato a campare profondendo i suoi talenti in produzioni seriali come “teste” (ritratti) e copie di devozione, finalmente si prospettava per lui l’opportunità di crescita – professionale e non solo – che da sempre attendeva.
Scrive, non a caso, Giovanni Baglione che, con l’ingresso alla corte del cardinale, l’artista:
“[…] avendo parte, e provisione pigliò animo, e credito”.
Non solo “animo”, dunque, ma anche e soprattutto “credito”, ovvero il riconoscimento di un valore professionale a più alto livello e a più ampio raggio, nell’ambiente artistico romano. In tal senso, accettando per vero quanto asserisce subito dopo Baglione, “[…] e dipinse per il cardinale una musica di alcuni giovani”, cioè che tra i primissimi quadri (se non il primo in assoluto) realizzati dal Caravaggio presso il cardinal del Monte, vi sia quello dei Musici (o Coro, fig. 1), esso doveva avere per l’artista un valore particolare; si trattava, di fatto, di una delle prime opere davvero importanti che eseguiva per conto di un mecenate.
E che costui fosse un personaggio di altissimo rango, di grande influenza e notorietà, costituiva il sicuro viatico per una fortunata carriera. Quel dipinto doveva avere il sapore della “vittoria” per il giovane Caravaggio a Roma, e la traccia “manifesta” di questo scatto d’orgoglio potrebbe essere riscontrata proprio all’interno del quadro dei Musici.
La scena rappresenta, com’è evidente, un coro di quattro giovani colti nei momenti tesissimi che precedono un concerto, ciascuno intento in un’attività inerente al proprio ruolo. E il primo soggetto, del quale subito incontriamo lo sguardo perché è in primo piano, rivolto proprio verso l’osservatore, è certamente anche il personaggio principale. Ci guarda con occhi languidi e labbra socchiuse, come se l’avessimo sorpreso mentre ripassa a bassa voce i versi della canzone che dovrà eseguire e, al contempo, accorda un magnifico liuto. È lui il “leader” del gruppo. La sua figura, estremamente caratterizzata dal punto di vista estetico, viene esaltata nella sua eleganza da un voluttuoso, regale panneggio scarlatto che, all’interno della composizione, lo definisce come soggetto ed elemento pittorico più autorevole; egli incarna, in un certo senso, l’epitome concettuale del gruppo. Il suo personaggio, infatti, assomma in sé il senso esegetico dell’insieme raffigurato, ovvero: la conoscenza, l’amore e la musica.
Accanto a lui, di spalle, troviamo un ragazzo assorto nella lettura dello spartito che ha tra le mani; distaccato, come rapito nell’estrema profondità della disciplina, non guarda all’osservatore ma la sua attenzione è tutta rivolta allo studio delle note. Ricorda un po’ l’atteggiamento del Pitagora nella Scuola di Atene di Raffello delle stanze vaticane. All’estrema sinistra del dipinto, più defilato eppure fondamentale nella sua funzione, è un altro componente di questo coro, il cui volto ha fattezze similari a quelle presumibili nel ragazzo di schiena. La sua espressione è ugualmente concentrata, forse però più placida e meditativa, quasi malinconica. Ma a differenza di tutti gli altri, a lui possiamo dare un nome e un ruolo ben definiti: si tratta, infatti, di Cupido. Dalla sua spalla destra vediamo spuntare una faretra con delle frecce e, sulle sue spalle (grazie a un prezioso restauro), scorgiamo grandi ali scure. Tra le mani, osservandolo con fare pensieroso, tiene un grappolo d’uva dagli acini bianchi e neri, un chiaro simbolo bacchico. Non era insolito, nell’iconografia classica, accostare Bacco a Eros; l’uno e l’altro figure edonistiche, legate alla convivialità e alla poesia. Ma la sua figura che “scruta” il grappolo prima di spezzarne il tralcio, rimanda anche all’idea dell’indagine esperienziale della natura.
Un contesto variegato, quindi, in cui – come sintetizzava già Maurizio Marini (2005) – esperienza, intelletto e sentimento, si legheranno in un’unica melodia, dando vita alla “concordia discors” tra natura e ragione, il cui frutto sarà l’Armonia.
La rappresentazione di questo coro, e i riferimenti decisamente eruditi che nella composizione vi si scorgono, riflettono senz’altro quell’ambiente intellettualmente elevato che fu la corte del cardinal del Monte.
Ma il personaggio che in questa scena mi interessa di più, nello specifico, è quello che scorgiamo in mezzo tra il cantore con il liuto e il ragazzo con lo spartito: una figura in secondo piano, ma anch’essa a labbra socchiuse e rivolta verso l’osservatore. È quasi del tutto in ombra, ma una luce leggera si fa strada sul volto a partire dalla fronte e dagli occhi (fig. 2).
Quasi nella stessa posa e con la stessa espressione del ragazzo col liuto, ma senza produrre lo stesso effetto; essa si pone come una sorta di contraltare, un “alter ego” dai tratti somatici più marcati, la capigliatura più scura e folta, lo sguardo più profondo e diretto. Nelle fattezze – per così dire – più “ordinarie”, ricorda un po’ il Bacchino malato, oggi in Galleria Borghese; e forse il motivo è che anche questo sembra essere un autoritratto del pittore. In un mio precedente scritto, osservavo che:
“Caravaggio si infila in questa scena idilliaca col suo carico di inquietudine, quasi in punta di piedi. Si mette “dietro”, cede il proscenio, conscio forse di doverselo ancora guadagnare, ma tra le mani ha un corno… col quale magari vorrebbe squillare al mondo la sua presenza tra i grandi, finalmente.”
Ebbene, quest’ultima mia asserzione, qualche tempo dopo averla espressa, mi ha indotto una riflessione più profonda e circostanziata, fino ad assumere i connotati di una intuizione ben precisa: ovvero che il soggetto in cui Caravaggio ritrae se stesso, in questo dipinto, possa essere interpretato – tra l’altro – come una sorta di “allegoria della Fama” sui generis, rielaborata, corretta e attualizzata alla maniera dell’artista. Considerando il momento particolare di svolta, sostanziale e decisiva per la sua carriera, e immaginando l’entusiasmo che da ciò doveva certamente generarsi per il Merisi, mi sono chiesta quale possa essere stato il motivo per cui egli decise di inserire il suo autoritratto in quella posizione all’interno della composizione pittorica, e perché avesse dotato il suo “personaggio” proprio di quel particolare strumento.
Analizzando gli altri dipinti del maestro lombardo in cui è possibile individuare un suo autoritratto, appare abbastanza chiaro che egli si inserisce, ogni volta, nella composizione in funzione della scena oggetto del dipinto. Il Bacchino Malato, tra i primissimi lavori romani del pittore, prevede un solo personaggio, dunque non ci sono piani ottici diversificati ma un unico “primo piano”, nel quale – se fosse vero che il dipinto è successivo alla degenza del pittore presso l’Ospedale della Consolazione (1596-1597) – saremmo di fronte a un Bacco, per così dire, “autobiografico”, che si riveste di molteplici valori semantici. In un altro dipinto più o meno coevo ai Musici, ossia lo Scudo con testa di Medusa, ricorrere all’autoritratto, per l’artista, fu probabilmente una necessità/comodità esecutiva di carattere tecnico: dovendo riportare l’immagine di un volto su una superficie circolare e convessa, gli sarà stato forse più agevole ritrarre il proprio volto riflesso in uno specchio, piuttosto che costringere un modello a una posa decisamente scomoda.
Successivamente, possiamo notare che anche nel Martirio di San Matteo in San Luigi dei Francesi, Caravaggio si autoritrae in posizione molto arretrata, sul fondo della scena; in questo caso, considerando anche l’espressione mesta del personaggio autoritratto, la ragione è da ricercare, credo, nelle indicazioni iconografiche specifiche richieste a suo tempo dalla committenza, ovvero che nella scena vi fosse una
“[…] moltitudine d’huomini et donne, giovani vecchi putti et d’ogni sorte […] per lo più spaventati dal caso, mostrando in altri sdegno in altri compassione.”
E se lo “sdegno” è chiaramente lasciato tutto agli altri personaggi che fuggono, in primo e secondo piano, Caravaggio riserva a se stesso la “compassione”, dipingendola sul volto dell’uomo in fondo, che guarda la scena del martirio da spettatore impietosito. E sempre nel ruolo di spettatore, ma in questi casi “interessato”, ritroviamo il Merisi autoritrattosi nella Cattura di Cristo nell’orto dipinto per i Mattei o nel più tardo Martirio di Sant’Orsola, dove la sua presenza serve – tra l’altro – a rendere le scene estremamente attuali. Mentre la testa recisa del Golia nel David Borghese, in primissimo piano, e dunque assolutamente protagonista, assume il carattere amaro del monito e dell’ammissione di colpa.
Ma qui, all’interno di questo gruppo di musicisti così compatto e dipinto in presa ravvicinata, la figura autoritratta del Merisi, pur se arretrata e sostanzialmente in ombra, emerge piuttosto evidente e caratterizzata, e lascia intendere una funzione molto chiara, proprio per via di quello strumento solo apparentemente banale che tiene tra le mani. Poiché, se è piuttosto palese che il ruolo principale, sia dal punto di vista estetico che esegetico, è affidato al ragazzo in primo piano con il suo bellissimo liuto, è pur vero che – sempre in primo piano – si trova un altrettanto magnifico violino (fig. 3), sebbene inattivo e dunque “silente”, che avrebbe potuto magari “nobilitare” maggiormente il soggetto autoritratto dell’artista.
Maria Cristina Terzaghi in un suo studio pubblicato nel 2017, faceva giustamente notare che, tra i beni confiscati al Caravaggio in seguito al sequestro disposto per insolvenza nei confronti della sua locatrice Prudenzia Bruni, figurano dentro “un forzieretto coperto de cora[m]e ne[gro]” una “quitarra” e – per l’appunto – una “violina” che, come ipotizzava la studiosa, verosimilmente l’artista – visto che li possedeva – poteva anche saper suonare. Riguardo alla specifica figura in secondo piano nel dipinto, la Terzaghi affermava, infatti:
“Si tratta di un autoritratto di Caravaggio stesso […] che si include così nel gruppo di giovani musici, ed è difficile stabilire se per una concreta mancanza di modelli, o perché egli stesso pratico dell’arte.”
Ma se davvero fosse stato “pratico dell’arte” (e nulla toglie che lo fosse), perché raffigurarsi con uno strumento diverso da quelli che egli stesso possedeva e verosimilmente sapeva suonare?
Va considerato che l’inventario dei beni sequestrati al pittore venne redatto solo nell’agosto del 1605, e nonostante le cronache giudiziarie riferiscano, nello stesso periodo, alcune “serenate” scurrili ad opera del Caravaggio, sotto le finestre di altrettante signore romane, non possiamo essere certi che quella “quitarra” e quella “violina” fossero già entrambe in possesso dell’artista al momento del suo arrivo presso il cardinal del Monte. Dunque la ragione più semplice sarebbe che, trattandosi di un dipinto realizzato in seguito all’arrivo presso la corte del cardinale, esso probabilmente rispondeva a precise indicazioni del prelato. Peraltro, stando ad alcuni studi effettuati sugli spartiti presenti nel quadro dei Musici, la presenza di quel particolare strumento a fiato potrebbe indicare un madrigale per il quale era prevista una parte apposita. Queste, però, potrebbero non essere le sole ragioni.
Intanto devo iniziare il mio ragionamento correggendo me stessa quando, nel mio precedente scritto, ho indicato sommariamente lo strumento in mano al soggetto autoritratto del Caravaggio come un “corno”: si tratta in realtà di un cornetto (fig. 4).
Il cardinal del Monte che, com’è noto, era un colto intenditore di musica e possedeva una ricca collezione di strumenti, tra cui diversi liuti (uno dei quali verosimilmente è quello raffigurato nel dipinto), non possedeva però nessun cornetto, né violini, come risulta dall’inventario dei suoi beni redatto tra il febbraio e il maggio del 1627 dal nipote Alessandro Del Monte; dunque, è quanto meno supponibile, che il violino in primo piano nel dipinto, possa essere proprio quello posseduto dal Merisi e presente tra i beni a lui successivamente sequestrati, ma rimane problematico stabilire come il pittore o il suo mecenate avessero potuto reperire il cornetto.
Considerando che il cardinal del Monte era – tra l’altro – protettore del Coro della Cappella Sistina, sarebbe verosimile che egli avesse accesso agli strumenti utilizzati durante le funzioni o per i concerti, e che potesse anche disporne; ma non è improbabile nemmeno, che il cornetto nel dipinto possa averlo fornito in prestito il marchese Vincenzo Giustiniani, dirimpettaio del cardinal del Monte, con il quale condivideva la passione per la musica e che possedeva anch’egli una nutrita collezione di strumenti, come si evince dai suoi lasciti testamentari e dai celeberrimi Suonatore di liuto e Amor vincit omnia eseguiti per lui dal Caravaggio. Lo stesso Giustiniani, autore – tra l’altro – di un importante “Discorso sopra la musica de’ suoi tempi” (1628),
“ricorda il virtuoso «Cavalier Luigi del Cornetto» che avrebbe suonato «in un mio camerino sopra il Cimbalo» […]” (Sybille Ebert-Shifferer 2010)
Quello che è certo è che il cornetto doveva avere un ruolo preciso nell’economia del dipinto dei Musici, ed era uno strumento aerofono particolarmente in voga tra Cinquecento e Seicento per le sue particolari sonorità. Scriveva Girolamo Dalla Casa nel 1584:
“De gli Stromenti di fiato il più eccellente è il Cornetto per imitar la voce humana piu degli altri stromenti.”
Imitare la voce umana, universalmente percepita come elemento di maggior rilievo rispetto al suono di qualunque strumento, in quanto capace di notevoli virtuosismi e tradizionalmente legata al canto liturgico che non prevedeva accompagnamento musicale, voleva dire raggiungere, per l’ascoltatore, il massimo gradimento. Questo, per uno strumentino apparentemente umile come il cornetto, era certamente motivo di altissimo prestigio. E se, come giustamente ipotizzato, tra i madrigali che il coro dei Musici si apprestava a eseguire, ce ne fosse stato qualcuno che prevedeva una parte specifica per il cornetto a supporto del soprano, la sua presenza nel dipinto, se non altro, ne avrebbe confermato l’autorevolezza e testimoniato il livello di raffinata qualità delle musiche che si eseguivano alla corte del cardinal del Monte. Ma come giustificare una sua eventuale funzione “secondaria” all’interno del dipinto, in merito a una supponibile allegoria della Fama?
Il moderno cornetto aveva avuto origine dall’evoluzione dell’antico e nobile olifante (fig. 5), un corno da caccia ricavato dalle zanne d’avorio degli elefanti, largamente in uso nel Medioevo, il cui suono si udiva da grandi distanze, permetteva ai cacciatori di comunicare anche all’interno di una foresta, di radunarsi, e di indirizzare i cani verso le prede.
Nella cultura ebraica si ricorda lo shōfār (fig. 6), un corno ritorto di ariete o capro, usato fin dall’antichità nella storia di Israele, per esortare l’esercito alla battaglia, intimidire i nemici e richiamare adunanze.
E sempre in epoche lontanissime, possiamo individuare funzioni di primaria importanza comunicativa in un altro strumento a fiato, ovvero la tromba (fig. 7), la cui storia affonda le radici addirittura nella cultura egizia, dove essa era associata alla potenza degli dei, e aveva assunto una valenza enfatica e rivelatoria.
Lo squillo della tromba precedeva, infatti, l’arrivo del faraone e aveva anche una funzione liturgica nelle cerimonie all’interno dei templi. Ritroviamo la stessa funzione esaltante e disvelatrice anche nella Bibbia, in particolare nel libro dell’Apocalisse, dove l’annuncio della fine dei tempi è affidata proprio a sette trombe; ce ne ha lasciato maestosa testimonianza pittorica Michelangelo Buonarroti nel suo Giudizio Universale della Cappella Sistina (fig. 8).
Più avanti la tromba venne usata nelle campagne militari per comunicare nei campi di battaglia, e per accompagnare il ritorno di monarchi e condottieri vittoriosi; ma spesso anche per annunciare la presenza o l’arrivo di importanti dignitari in una corte o a un evento.
Le diverse tipologie di corno e le antiche trombe (o “tubae” a canna lunga), si erano quindi evolute, nel tempo, differenziandosi sia nella forma che nei materiali, pur mantenendo la loro peculiare e comune funzione di “richiamo”, evidenziando e accrescendo l’importanza di un evento o di un personaggio, assumendo in tal modo, via via, una connotazione essenzialmente trionfalistica.
Ma, per trovare traccia di strumenti a fiato utilizzati iconograficamente in opere d’arte, bisogna attendere il medioevo. Troviamo raffigurato un olifante, ad esempio, in una delle quattro “vele” della volta, nella Cappella di San Leonardo in Santa Margherita a Maddaloni, specificamente quella di San Giovanni Evangelista (fig. 9), dove un angelo ne suona uno (forse a simboleggiare proprio l’annuncio dell’apocalisse nel Vangelo che il santo sta scrivendo.)
Nella stessa chiesa, l’affresco della Crocifissione (fig. 10) riporta, sulla sinistra un soldato romano che suona una tromba a canna lunga, a cui è legato un drappo recante la scritta “SPQR”, a comunicare, probabilmente, la gloria di Roma.
La presenza di tali strumenti all’interno di queste scene ne conferma, dunque, la valenza proclamatoria che enfatizza l’importanza dell’evento raffigurato, richiamando l’attenzione del riguardante. Ma è possibile individuare una prima antica espressione artistica, con caratteristiche precise, della personificazione della Fama (o Gloria), in una incisione di Vincenzo Cartari del 1625 (fig. 11), nella quale essa precede il carro di Marte.
Scrive Cartari:
“Fecero gli antichi la Fama ancora Dea, et la dipinsero in forma di donna vestita di un panno sottile, e tutta succinta, che mostra di correre via velocemente con una stridevole tromba alla bocca. Et per meglio mostrare la sua velocità, le aggiunsero l’ali, e la fecero tutta carica di occhi […]”
In questa raffigurazione, dunque, la Fama “precede e annuncia”, su grandi distanze e velocemente; e per farlo si serve – non a caso – di uno strumento a fiato il cui suono richiama l’attenzione e accentua i toni trionfalistici della scena. Essa, inoltre, è “carica di occhi” perché quel suono di tromba fa “puntare lo sguardo” su di sé. In altri casi, invece, la Fama affida la propria funzione, e dunque il proprio strumento, ad altre figure alate, non per annunciare ma per “chiamare a raccolta” i meritevoli e gli uomini illustri che di essa si fregeranno. Se ne può osservare un antico esempio in una miniatura medievale attribuita al pittore veronese Altichiero da Zevio (fig. 12), che compare nel “De viris illustribus”, un manoscritto petrarchesco del 1337, in cui erano raccolte le biografie di alcuni uomini celebri.
La Fama, quindi, annuncia oppure chiama, ed è proprio da questo concetto che, a partire dal tardo Quattrocento quel genere di strumento a fiato, all’interno di dipinti e incisioni, cominciò a essere sempre più impiegato, fino a divenire, appunto, simbolo di alto valore comunicativo all’interno dell’iconografia, la quale, al netto delle modifiche subite negli anni, finì per essere “codificata” riportando quasi sempre una tromba o tuba.
Dunque sarebbe stato più efficace, per il Caravaggio che avesse voluto evocare l’idea della Fama nel suo autoritratto, raffigurarsi quantomeno con una tromba, invece che con un cornetto. Ma, all’interno di un dipinto in cui si raffigurava l’idea di un concerto – verosimilmente da camera – la tromba certamente non sarebbe stata uno strumento congruo (ammesso che l’artista avesse facoltà di inserirvelo), e comunque, è decisamente più probabile che il cornetto fosse parte integrante dei madrigali in procinto di essere eseguiti dai musicisti, di lì a poco.
D’altra parte siamo intorno al 1597, e il cornetto in mano al Caravaggio nel dipinto dei Musici, è uno strumento tutt’altro che marginale, anzi all’apice del suo prestigio e di grandissima importanza. Altamente versatile, nella sua più moderna versione, esso poteva essere usato sia nella musica colta (quella sacra) che in quella più mondana (le diverse danze, o comunque musiche eseguite per puro diletto); e dunque sia nelle chiese che nelle corti, com’era quella del cardinal del Monte. A seconda di come veniva suonato, il cornetto riusciva a rendere sonorità fastose, simili a quelle della tromba, oppure più dolci ed eleganti, tali da poter accompagnare, e maggiormente valorizzare, le voci; in particolare l’Altus (il contralto) e il cosiddetto Cantus, ovvero la voce da soprano, quale è possibile immaginare fosse quella del cantore dalle fattezze efebiche, in primo piano nel dipinto dei Musici. Inoltre, un suonatore di cornetto esperto era molto ben pagato e godeva di altissima considerazione in ambito sociale, proprio perché lo strumento era piuttosto difficile da suonare. Benvenuto Cellini, che di questo strumento fu un virtuoso, racconta nella sua Vita, di essere entrato nelle grazie di papa Clemente VII proprio per merito della straordinaria esecuzione al cornetto, da lui prodotta insieme ad altri musicisti durante una cena, di alcuni mottetti nella parte di soprano:
“[…] il papa ebbe a dire di non aver mai sentito musica più suavemente e meglio unita sonare. Chiamato a sé quello Gianiacomo, lo domandò di che luogo e in che modo lui aveva fatto a avere così buon cornetto per sobrano, e lo domandò minutamente chi io ero. Gianiacomo ditto gli disse a punto il nome mio. A questo il papa disse: – Adunque questo è il figliuolo di maestro Giovanni? – Così disse che io ero. Il papa disse che mi voleva al suo servizio in fra gli altri musici.”
Dunque, a dispetto di quanto si possa evincere da una prima osservazione, Caravaggio in realtà non tiene – per così dire – un “profilo basso”, non si autoritrae in ombra e con uno strumento “minore” (rispetto agli altri più appariscenti presenti nel dipinto, ma anche rispetto alla più iconografica tromba), bensì con un vero e proprio “principe” degli strumenti a fiato. E, nonostante la “ribalta” venga lasciata al sontuoso liuto del ragazzo in primo piano, il defilato cornetto in mano al Merisi, alla luce della sua valenza storica, assume un’importanza che, a mio avviso, potrebbe andare oltre il contesto armonico musicale del quartetto dipinto, in cui la sua presenza era necessaria, verosimilmente, per accentuare la performance vocale del soprano. Un’importanza più intima e individuale per l’artista, perché esso potrebbe evocare, concettualmente, proprio l’idea della tromba, la cui funzione comunicativa di “richiamo”, come già accennato, aveva avuto grande importanza fin dai tempi più remoti e, da lunga e consolidata tradizione, legata alle allegorie della Fama.
Però, dal momento che l’iconografia classica della Fama prevedeva una donna alata e una tromba, si potrebbe giustamente obbiettare che il Caravaggio, con ogni evidenza, non si autoritrae come una donna, non ha le ali e certamente non ha in mano un’enfatica tromba (o una tuba) ma un più “sobrio” cornetto; il quale, per quanto importante e apprezzato nel panorama strumentistico del tempo, aveva comunque una funzione solo di “accompagnamento” rispetto alla voce solista di un coro; considerando pure che, nello specifico del dipinto dei Musici, il liuto e il violino sono posti in primo piano probabilmente anche per la loro maggiore valenza estetica, mentre il cornetto ha una forma molto semplice ed è piuttosto scuro. Questo, unitamente alla figura autoritratta del Merisi in posizione arretrata e più in ombra rispetto alle altre, dovrebbe far decadere del tutto l’ipotesi di una possibile interpretazione allegorica autocelebrativa.
Eppure, chi scrive ritiene che proprio questi elementi strutturali, nonché quella funzione “nobile” del cornetto all’interno del coro e la sua antica etimologia rivelatoria che lo accomunava alla tromba, potrebbero rappresentare metafora del ruolo e della posizione che, nella realtà extra-pittorica, avevano il Caravaggio e il suo mecenate – nonché committente – cardinal del Monte.
Saremmo di fronte a un Caravaggio che si pone al seguito e al “servizio” (come concerne al cornettista) di un importante personaggio (il cantore con il liuto), al quale, per gerarchia e conoscenze, come figura compendiaria, compete la ribalta scenica e la luce più vivida. Considerando il contesto colto, nonché il ruolo e l’atteggiamento delle altre figure presenti nel dipinto, l’artista prenderebbe posto, cosciente della sua condizione di “novizio” ma assolutamente determinato (e per questo meno illuminato, ma evidenziandosi con tratti più marcati), all’interno di una corte raffinata e intellettualmente stimolante (i componenti del coro), dove la sua competenza artistica viene riconosciuta e apprezzata, e contribuisce ad accrescerne il prestigio. Egli, infatti, in quanto rappresentante della nobile arte della pittura, andrebbe in un certo senso a dare “completezza” a quel contesto, configurando la sua presenza come l’Armonia frutto di quella concordia discors nella quale si accordano natura e ragione, e che la pittura – in quanto arte visiva – diffonde, lasciandone traccia indelebile. E probabilmente non è un caso, a tal proposito, che uno degli spartiti presenti nel dipinto, quello sul quale poggia proprio il violino “silente” in primo piano, forse appartenente al Caravaggio, pare sia un componimento musicato da Jaques Arcadelt, dal titolo “Oh felici occhi miei”; un madrigale, quindi, in cui il chiaro rimando al senso della vista accrediterebbe il pittore (nonché la sua arte visiva) come elemento estremamente significativo all’interno del gruppo.
Ed ecco che la presenza di quel cornetto tra le mani di un giovane pittore ambizioso, potrebbe essere letta come annuncio “figurato” del primo importante traguardo professionale raggiunto e di un nuovo inizio foriero di grandi trionfi. Se poi si considera che il quadro dei Musici, prima del restauro effettuato nel 1983, riportava in basso a sinistra, la firma dell’artista a lettere capitali in giallo (se ne ha riscontro dalla foto di una copia del dipinto conservata nella Fototeca Longhi, fig. 12), poi coperta per l’estremo decadimento della materia pittorica, si può ben intuire quanto orgoglio il Caravaggio avesse riposto in questa che potrebbe essere la sua prima opera eseguita per una personalità di altissimo rango, e quanto – verosimilmente – volesse renderlo manifesto a chiunque l’avesse osservata.
Perfino il rivale Giovanni Baglione, anni dopo, nella sua biografia del pittore, ne riferirà come di una “musica di alcuni giovani ritratti dal naturale assai bene”; e un “assai bene” concesso dal “nemico” è certamente una medaglia che pesa.
Del dipinto furono tratte diverse copie, di cui una eseguita anche “di straforo”, quella che Giulio Mancini fece dipingere “corrompendo” addirittura il guardarobiere del cardinal del Monte. Al quadro dei Musici seguirono gli altri dipinti eseguiti per il cardinale e altri ancora a tema musicale commissionati dal marchese Vincenzo Giustiniani, grandemente apprezzati; senza dimenticare, in mezzo, il trionfo ottenuto con la decorazione della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi.
Alla luce di ciò, se tra i vari risvolti semantici del dipinto, un presunto scopo autocelebrativo beneaugurante fosse stato davvero “celato” nella figura autoritratta del Merisi, direi che esso fu ampiamente raggiunto … con un semplice cornetto.
Caravaggio aveva una scena con quattro personaggi; avrebbe potuto, forse, ritagliarsi un ruolo e una posizione di maggior rilievo per mostrare al mondo il suo primo importante riconoscimento professionale, ma la consapevolezza del suo posto nella gerarchia e nell’ordine delle cose, in quel particolare momento, non era ancora tale da giustificare toni eccessivamente enfatici; né – peraltro – avrebbe potuto o voluto (credo) mancare di rispetto verso quel mondo dorato che gli aveva appena aperto le porte e verso il quale, forse, provava – nonostante tutto – ancora un po’ di soggezione. E quindi si mette “dietro”; ma è lì, finalmente, accolto con entusiasmo tra spiriti nobili e colti intelletti, ne è parte attiva e rilevante. Ne respira le correnti culturali, ne assimila il pensiero, e con essi nutre e fa crescere il suo talento.
La corte del cardinal del Monte fu la svolta epocale che lo avrebbe portato dai vicoli stretti delle botteghe artigiane all’autostrada delle grandi commissioni pubbliche. Il vento stava cambiando e Caravaggio era un uomo ambizioso e fiero; non sarebbe stato innaturale, per lui, manifestare il proprio orgoglio. Per questo, forse, volle riservare a se stesso quel piccolo, pregiato e stimatissimo strumento a fiato, a cui la storia aveva affidato un ruolo da messaggero veloce, ambasciatore di grandi notizie su grandi distanze, facendone così il mezzo figurato per “squillare” al mondo il suo ingresso tra i grandi. Dalla porta principale.
Francesca SARACENO, Catania, 8 gennaio 2023
BIBLIOGRAFIA: